Il volo di Volodja
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Anteprima del libro
Il volo di Volodja - Giuseppe Ottomano
realtà.
Nasce il campione
La cava delle mirabilie
Dal bordo del burrone Volodja guardava verso il fondo. Sorvolando sulle pareti, terrazzate da una decina di gradoni ripidi e alti una decina di metri ciascuno, risalì con lo sguardo fino alla sponda opposta. La vide lontana e irraggiungibile, come se venti campi da calcio si fossero allineati là in mezzo, e per effetto della prospettiva, vide i gradoni ritrarsi lungo le pareti come un’abnorme fisarmonica, fino a fondersi in una scogliera uniforme.
Volodja, che aveva incontrato il mare solo nelle fotografie e negli acquerelli, immaginò che quella grande distesa di terra e di roccia potesse essere un mare tutto suo, un mare a pochi passi da casa.
Ma non esistono mari nella città ucraina di Zaporož’e, e quella che si distendeva davanti agli occhi del bambino era in realtà una cava di granito situata alla periferia sud-occidentale della città, vicino alle sponde del Dnepr.
Più o meno a quell’epoca, la prima metà degli anni Sessanta, la cava aveva raggiunto l’apice della produttività, al punto che poco più a nord, in direzione del piccolo Cremlino locale, era stato costruito un quartiere per i suoi lavoratori.
Per estrarre il granito, due volte al giorno veniva esplosa una carica di dinamite che faceva sobbalzare l’intero quartiere col suo fragore assordante. I vetri delle finestre si ricoprivano di crepe sottili formando tanti piccoli arabeschi bianchi, mentre i pavimenti vibravano. Sembravano scosse di terremoto, accolte dalla gente con un misto di distacco e rassegnazione.
Era lì che viveva la famiglia Jaščenko. Il padre, Il’ja Kirillovič Jaščenko, faceva parte delle migliaia di operai dell’indotto che orbitava intorno alla cava. Emigrato qualche anno prima dalla vicina cittadina di Vodjane insieme alla moglie Marja Ivanovna, aveva preso casa proprio ai confini di quel quartiere di Zaporož’e. Il governo aveva assegnato loro un appartamento sul vialone del piccolo Cremlino, al secondo piano su tre di un edificio costruito dopo la Rivoluzione d’Ottobre secondo gli spartani schemi architettonici del costruttivismo, adiacente ad altri cento identici lungo quello stesso viale. Secondo la versione ufficiale, condita con più di un pizzico di propaganda, si trattava di residenze modello, di concezione innovativa e a misura dei bisogni dell’uomo moderno. Il’ja Kirillovič e Marja Ivanovna erano sinceramente orgogliosi di abitarne una.
La coppia visse insieme gli anni difficili della ricostruzione postbellica dell’Unione Sovietica. Come altri milioni di concittadini pianse la morte del suo piccolo padre padrone, tirando in segreto, però, anche un timido sospiro di sollievo. Mise al mondo due figli, Anatolij e Olena, si lasciò accarezzare dal refolo di brezza della primavera chruščëviana, e il 12 gennaio 1959 festeggiò la nascita del terzogenito, un grazioso pupo dai capelli biondi e dagli occhi color nocciola. I genitori gli diedero il nome di Vladimir ma, seguendo il costume consolidato nell’universo russofono, tutti trovarono più naturale chiamarlo Volodja.
In breve tempo si cominciò a notare che Volodja non assomigliava particolarmente a nessuno della famiglia e, all’opposto di tutti gli altri, aveva ricevuto la dote naturale di una statura superiore alla media.
Durante i giorni feriali mamma Marja Ivanovna doveva recarsi al lavoro all’ufficio postale numero 59, sempre lungo il vialone del piccolo Cremlino, e aveva affidato il figlio all’asilo che si trovava a poche centinaia di metri da casa. Il bambino cresceva piuttosto sveglio, e a cinque anni era già in grado di andarci da solo. Ma per lui il richiamo della libertà era più potente di quello del dovere e talvolta, appena giunto al cancello di ferro della struttura, si guardava in giro con aria perplessa, per decidere infine di invertire il senso di marcia. Con serafica determinazione volgeva le spalle alle recinzioni metalliche, dirigendosi verso i grandi spazi misteriosi e selvaggi nei dintorni della cava di granito.
Si muoveva lentamente, con quella stessa andatura ciondolante che, anni dopo, avrebbe caratterizzato la rincorsa dei suoi salti da record. Guidato solo dall’istinto, imboccava senza indugiare i sentieri tortuosi in mezzo alla pianura sassosa, puntellata qua e là da folti ciuffi di erba selvatica, e approdava ai bordi di quel giacimento. Gli piaceva osservare lo spettacolo che si teneva di sotto. Gli operai e le macchine scavatrici lavoravano come un esercito di formiche dai movimenti impacciati eppure costanti. Sembravano davvero tante barchette ballerine che ondeggiavano sul mare al ritmo di una melodia soffusa.
Volodja si sdraiava sul ciglio della scarpata con un filo d’erba tra le labbra e i gomiti appoggiati sul prato: laggiù si sentiva al sicuro, e stava ancora più a suo agio che sul divano di casa. Quel prato era il suo rifugio segreto all’aria aperta.
La cava di granito di Zaporož’e
Ciò che attendeva con più eccitazione era il momento in cui sarebbero esplose le cariche di dinamite. Allora, qualche istante dopo la detonazione, una grande e scura nube cilindrica emergeva dal fondo della cava e, decollando verso il cielo, si allargava all’improvviso fino a trasformarsi in un immenso ombrello di polvere grigiastra.
Volodja non poteva immaginare di quanti microscopici veleni fosse impregnata quella nube dall’aspetto così pirotecnico e così sinistro allo stesso tempo. Si alzava in piedi rimanendo a bocca spalancata mentre la vedeva dissolversi lentamente, per poi ricadere, con identica indolenza, sulla terra da dove si era sprigionata, stendendovisi sopra come un lenzuolo sporco.
Avangard
Quelle esplosioni si susseguivano puntuali come il trillo della sveglia nei giorni feriali, al punto che l’entusiasmo di Volodja si smorzò gradualmente e, inquinandosi di monotonia, si tramutò in indifferenza. Col passare dei mesi le sue inclinazioni cambiarono. Quando cominciò a frequentare la scuola numero 59 (in quella zona di Zaporož’e pressoché tutte le strutture pubbliche portavano questo numero), si era già felicemente integrato in un gruppo di amici inseparabili. Assieme a loro aveva preso l’abitudine di andare tutti i pomeriggi a scorrazzare per i campi coltivati e in mezzo alla folta e irregolare vegetazione lungo alle rive del Dnepr.
Era magrissimo, ma già più alto di una spanna rispetto ai suoi coetanei. Ciò nonostante, i suoi movimenti non erano afflitti dalla legnosa disarmonia che spesso contraddistingue gli spilungoni; al contrario la sua altezza, ben proporzionata rispetto alla massa corporea, si accompagnava a un’elegante coordinazione, a un’agilità felina e a una predisposizione naturale per la corsa, soprattutto quella campestre: il suo svago quotidiano preferito.
Dalla disordinata corsa campestre a quella strutturata su pista il passaggio si rivelò appena meno rapido del volo di una freccia. E, inevitabilmente, Volodja venne attirato dal grande complesso della società sportiva Avangard, che rappresentava l’attrazione principale dell’attiguo quartiere Leninskij.
In epoca sovietica il complesso della Avangard godeva di una meritata fama di eccellenza ed era considerato uno dei più prestigiosi della città, anche se oggi di questa gloria passata non è rimasto nient’altro che un villaggio fantasma: una location ideale per un B-movie ambientato in una fantomatica era postatomica. Come a Pryp’jat’, il centro abitato più prossimo alla centrale di Černobyl’, le insegne sbiadite riportano ancora i vecchi slogan di marca socialista, come se l’orologio fosse tornato indietro a una trentina d’anni fa. L’azione del tempo, l’incuria e la mancanza di fondi hanno lasciato in eredità solo una schiera di edifici fatiscenti, invasi da macchie di arbusti inselvatichiti, una pista di atletica traboccante di gramigna e strutture ginniche in rovina. A osservarli bene, sembrano reggersi in piedi come esanimi scheletri arrugginiti sullo sfondo di un silenzio spettrale, rotto soltanto dal fruscio del vento e dal battito della pioggia, frammisti al cinguettio degli uccelli.
Ma all’arrivo del giovanissimo Volodja Jaščenko, la Avangard trasudava ancora tutta la vitalità e il fermento dei suoi giorni migliori. Nonostante il suo piccolo stadio risalisse agli anni Trenta e la sua palestra fosse di dimensioni piuttosto ristrette, all’interno c’erano diversi club efficientemente organizzati.
Volodja bazzicava volentieri questo centro sportivo fin dai primissimi anni di scuola, soprattutto in occasione delle gare ufficiali. Si presentava come inserviente per aiutare a ripulire il campo e rimuovere gli ostacoli dalla pista. Il divertimento gli era assicurato, e proseguiva anche a spettacolo concluso, quando con i soliti amici giocava a imitare i ragazzi più grandi che si erano appena esibiti.
Dopo questo preludio da autodidatta, al quarto anno di scuola si convinse ad accettare i consigli del fratello Anatolij. Di nove anni maggiore, Anatolij si guadagnava da vivere come operaio in una fonderia di alluminio di Energodar: una cittadina a un centinaio di chilometri da Zaporož’e, che in origine era stata concepita come satellite di una pachidermica centrale nucleare. Negli anni Sessanta, Energodar era ancora in gestazione, ma anche una volta inaugurata non sarebbe diventata molto di più che un agglomerato uniforme di caseggiati dozzinali e ciminiere dai fumi mefitici.
Anatolij era impressionato dalle qualità fisiche del fratello minore, e non avrebbe sopportato l’idea di vederle bruciarsi nell’inconsapevolezza dei giochi da bambini. Così lo accompagnò a iscriversi a una delle sezioni di atletica leggera della Avangard, scegliendo per lui il club più blasonato: Il Trasformatore. La denominazione, che si rifaceva a quella del reparto di saldatura delle vicine Officine Gart, specializzate nella produzione di componentistica elettronica, ai nostri giorni può sembrare quanto meno singolare, a non era affatto tale nell’ambito del socialismo realizzato, in cui a ogni fabbrica, a ogni azienda statale, a ogni kolchoz e a ogni corpo militare si associavano sempre altrettanti club sportivi. Per scegliere i nomi di questi club non ci si lambiccava troppo con la fantasia. Dinamo, Turbina, Pistone, Metallurgia, Trattore, Elettrico, Nafta, Locomotiva, Minatore, Armata Rossa, Energia, Oleodotto erano quelli più ricorrenti. Anche chi avesse provato a cercare nuove ispirazioni non avrebbe risolto granché: le due o tre paginette di vocabolario da cui pescare non venivano più aggiornate dai tempi del piccolo padre georgiano.
Il campione incontra il maestro
Telegin
Il primo anno di Volodja al Trasformatore trascorse sotto il segno degli 800 m piani. L’istruttore di atletica, un membro del Partito Comunista ben introdotto nel comitato sportivo locale, di nome Aleksej Kudinov, lo aveva indirizzato verso questa disciplina. Ma per la sua carriera di atleta in erba la vera svolta avvenne un pomeriggio di primavera del 1970. Per la prima volta nella sua vita si cimentò in una prova di salto in alto, un territorio che ancora gli era sconosciuto. L’asticella venne fissata a un 1,35 m di altezza e lui la scavalcò. Ignorando i fondamentali della tecnica, il suo stile sembrava un abbozzo di ventrale dettato più dall’istinto che dalla coscienza, ma levandosi da terra, liberò una leggerezza innata, come se si lasciasse sorreggere dalla forza dell’aria. Lui probabilmente non si era reso conto che a osservarlo, al fianco di Kudinov, c’era l’allenatore più quotato del club: il trentaquattrenne Vasilij Ivanovič Telegin.
«Sarei pronto a scommettere!» disse sottovoce Telegin a Kudinov. «Non so se questo ragazzino diventerà un mezzofondista, però mi sembra davvero predisposto per il salto in alto. Mi avevi accennato di avere bisogno di un velocista per la tua squadra, e qualcuno dei miei potrebbe fare al caso tuo. A me, invece, servono dei saltatori. Che ne diresti di uno scambio?»
Kudinov non accettò subito la proposta, ma Telegin era troppo determinato a non lasciarsi sfuggire di mano la fresca scoperta. Lavorando con felpata diplomazia, tatto e accortezza per non indispettire il collega, riuscì a portare Volodja nel proprio gruppo. Telegin era qualcosa di più che un allenatore e tra i suoi ragazzi veniva segretamente soprannominato il Capo
, tanto era l’ascendente che esercitava su di loro.
Originario di Smolensk, nella Russia occidentale, dove si era laureato in educazione fisica, durante la propria attività di atleta Telegin si era specializzato nel salto con l’asta e nel salto in lungo, senza però riuscire mai a spiccare per risultati degni di entrare negli annali. Appena approdò a Zaporož’e nel 1962, dopo una breve parentesi a Essentuki, ai piedi del Caucaso, venne ingaggiato tra i dodici istruttori di atletica del club più importante della città, il Metallurgia, prima di trasferirsi sull’altra riva del Dnepr, al più piccolo Trasformatore. I primi tempi a Zaporož’e si rivelarono difficili. Con la moglie e i due figli dovette accontentarsi di vivere in una kommunalka, come si chiamavano gli ancora numerosi appartamenti in coabitazione che rappresentavano l’incubo e la realtà quotidiana della popolazione sovietica, il riflesso accecante di una crisi degli alloggi mai debellata, a dispetto di un cinquantennio di colate di cemento nel nome del progresso.
Vladimir Jaščenko nel 1970
La concezione scientifica dello sport era uno dei pilastri dell’educazione fisica sovietica e Telegin la praticava con zelo, dispensando nozioni di biomeccanica e psicologia in dosi industriali. Sensibile alle nuove sperimentazioni, tra i suoi allievi incoraggiava l’utilizzo del training autogeno, per indurli a raggiungere l’equilibrio ottimale tra serenità e concentrazione durante le fasi cruciali delle gare. Essendo anche un sincero amante della natura, spesso e volentieri organizzava escursioni in comitiva con sessioni di trekking lungo i boschi dell’isola di Chorticja, la storica cittadella fortificata dei cosacchi tra le due sponde del Dnepr, da cui era sorta l’attuale Zaporož’e.
Oggi, al Museo di Stato Russo di Palazzo Michajlovskij, a San Pietroburgo, è esposta una tela gigantesca, dipinta da Il’ja Repin a fine Ottocento, intitolata I Cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al Sultano di Turchia. Nel quadro, ambientato proprio sull’isola di Chorticja durante la seconda metà del xvii secolo, un gruppo di cosacchi, corpulenti e con dei foltissimi baffoni a manubrio che li fanno assomigliare curiosamente ai galli dei fumetti di René Goscinny, si sbellicano dalle risate mentre redigono la risposta a un’ampollosa richiesta formale di sottomissione avanzata dal sultano turco Mehmet iv. Si può immaginare come il linguaggio barocco del sultano sia apparso quanto meno inusitato ai rudi guerrieri cosacchi che, nel respingere la sua richiesta con una sequenza di insulti a perdifiato, concludono concedendogli il permesso di un bacio decisamente poco formale:
Potete baciarci il deretano!
Firmato: l’Atamano Ivan Sirko con tutta l’armata dello Zaporož’e.
Telegin, che forse si sarebbe trovato a disagio nei panni di un rude cavaliere cosacco, ma che era senza dubbio un cittadino esemplare dell’Urss, credeva altrettanto fermamente nella centralità del collettivo e cercava di cementare nei suoi ragazzi uno spirito di squadra il più