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La lingua della terra
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E-book227 pagine3 ore

La lingua della terra

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 Bedè ha sempre amato i suoi campi, l'orto, i terrazzamenti che coltiva in quell'angolo di Liguria che gli uomini e Dio pare abbiano dimenticato. Ogni mattina si alza presto e si inventa mille scuse per portarsi dietro i figli e cercare di contagiare loro il rispetto per la natura. Ma, come quasi tutti i giovani, sembra siano più impegnati a crearsi un futuro altrove, a studiare... Per Bedè è un vero dramma, perché, con il trascorrere degli anni, il peso che deve sopportare diviene sempre più faticoso. Tutto cambia una mattina quando, nei suoi terreni, Bedè incontra uno straniero. Al principio non si capiscono affatto, parlano lingue così diverse... ma Bedè, invece di cacciarlo, pian piano comincia a coinvolgerlo nelle attività del podere: potano, innaffiano, diserbano, ricostruiscono i muretti, concimano. I loro idiomi sono lontanissimi, eppure si comprendono perfettamente perché, quasi da subito, cominciano a dialogare grazie alla potenza della "lingua della terra". E tutto sembra filare liscio, finché qualcuno non si accorge della presenza del giovane. La famiglia del contadino, come i vicini e le autorità, tutti cominceranno a interrogarsi sulla vicenda e Bedè dovrà fare una scelta.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2020
ISBN9788868512651
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    La lingua della terra - Giacomo Revelli

    senza rotta

    6

    Giacomo Revelli

    La lingua della terra

    arkadia editore

    Bedè ha sempre amato i suoi campi, l’orto con le olive, i terrazzamenti che coltiva in quell’angolo di Liguria che gli uomini e Dio pare abbiano dimenticato. Ogni mattina si alza presto e si inventa mille scuse per portarsi dietro i figli e cercare di contagiare loro il rispetto per la natura e per il lavoro degli avi. Ma, come quasi tutti i giovani, sembra siano più impegnati a crearsi un futuro altrove, a studiare… Per Bedè è un vero dramma, perché, con il trascorrere degli anni, il peso che deve sopportare diviene sempre più faticoso. Tutto cambia una mattina quando, nei suoi terreni, Bedè incontra un uomo, uno straniero. Al principio non si capiscono affatto, parlano lingue così diverse… ma Bedè, invece di cacciarlo, pian piano comincia a coinvolgerlo nelle attività del podere: potano, innaffiano, diserbano, ricostruiscono i muretti, concimano. I loro idiomi sono lontanissimi, eppure si comprendono perfettamente perché, quasi da subito, cominciano a dialogare grazie alla potenza della lingua della terra. E tutto sembra filare liscio, finché qualcuno non si accorge della presenza del giovane. La famiglia del contadino, come i vicini e le autorità, tutti cominceranno a interrogarsi sulla vicenda e Bedè dovrà fare una scelta molto difficile.

    Giacomo Revelli è nato a Sanremo nel 1975. Vive a Genova e lavora come redattore per il sito web della Regione Liguria. Autore di vari racconti confluiti in diverse antologie, ha pubblicato alcuni romanzi: A 10, vincitore del concorso Il giallo Ligure (2006); Dell’approvvigionamento idrico della città di Genova (2009), romanzo-saggio sullo storico acquedotto di Genova; Nel tempo dei lupi (2013); Confini senza frontiere (2015), una storia su quanti furono esiliati a Ventotene. Con Andrea Ferraris è autore del fumetto Bottecchia (Tunuè), basato sulla storia del grande ciclista friulano. È tra i collaboratori de Il Colophon e www.mentelocale.it, quotidiano online di cultura e tempo libero a Genova e in Liguria. Lavora alle sceneggiature e alle ricerche di ZemiaFilm, unità di video-produzione di documenti etno-antropologici sul territorio ligure.

    Foto di copertina Bimo Mentara / Unsplash

    © 2019 arkadia editore

    Collana di narrativa a cura di

    Marino Magliani, Luigi Preziosi, Paolo Ciampi

    Collana Senza rotta

    6

    Prima edizione digitale marzo 2020

    isbn 978 88 68512 651

    arkadia editore

    09125

    Cagliari – Viale Bonaria

    98

    tel.

    0706848663

    – fax

    0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    1

    Una mattina papà deve aver trovato lo straniero che dormiva nel casone.

    Forse è stato all’inizio dell’estate, a San Giovanni. Quella volta che noi due eravamo andati a Oneglia per vedere il falò e lui invece s’era messo subito a letto, che l’indomani doveva andare presto ai Lüghéi per fare l’erba. Ma era stata una notte ventosa, e poi ci disse di non aver dormito molto. C’era stato vento, u ventu masciu, dice lui, quel vento che sbatte tutto. Quel vento che arriva come un intruso, come un ladro, come uno che torna a casa di fretta perché ha dimenticato qualcosa. Quel vento che non sai da dove arriva e dove va, viene e basta, quando c’è non puoi fare molto di più che aspettare che passi, sotto le coperte. E quella notte, il ventu masciu soffiò via tutto. Soffiò via gli orti, soffiò via i paiazui, soffiò via gli steccati, le tende, le canne, tutto. Soffiava via anche le montagne. E soffiò via anche la luna. Pure quella.

    Sì, dev’essere stata quella notte che è arrivato lo straniero.

    Noi, dietro agli amici quella sera eravamo rientrati tardi. Sulla porta, come accadeva in questi casi, avevamo trovato papà, serio, ad aspettarci: Uh! L’è l’ua chi arivai! Sciabrui! Duv’i sei andai! V’i daggu mi i faöi d’Ineja! Duman matin vegnì cun mi a rancà l’erba ai Lüghéi ! Ou belin! Come a dire: che era ora che arrivassimo. Che dove eravamo andati. Che ce li dava lui i fuochi di Oneglia. Che l’indomani mattina saremmo andati a togliere l’erba con lui ai Lüghéi.

    Ma poi, come al solito, l’indomani non ci svegliò. E dormimmo fino a mezzogiorno.

    Non era la prima volta che papà trovava qualcuno ai Lüghéi. Ma s’era sempre trattato di animali, gatti o cani randagi, arrivati da chissà dove e poi scomparsi nel nulla. Quella mattina, invece, nel casone, per terra, addormentato, c’era lui, lo straniero.

    Ma papà non ci disse nulla. Non so perché. Eppure avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farci andare ai Lüghéi. Tutte le volte che trovava in campagna un animale selvatico, poi, ce lo raccontava come un accadimento straordinario, quasi fosse la visita di un marziano.

    Un giorno ci ha raccontato di aver preso una volpe. A vurpe a l’è fürba, diceva, a entra intu gainà inseme a mi… e pöi a s’aciata… Che la volpe è furba, che se non sta attento, entra nel pollaio insieme a lui quando apre per dare il mangime alle galline, e poi si nasconde, per restarci chiusa dentro. La notte, allora, indisturbata, fa razzia. Poi scava un buco per uscire. Che, da dentro, è più facile.

    Ma lui l’aveva capito. Così, una volta, aveva preso le galline e le aveva chiuse nel casone. Al buio, zitte. Poi aveva fatto finta di entrare nel pollaio e aveva lasciato la porta aperta dietro di sé. Era rimasto dentro giusto il tempo che, di solito, impiega a cambiare l’acqua e dare il mangime ai polli. Non s’era mai voltato verso la porta. Quando era uscito, aveva chiuso: era sicuro di aver preso la volpe. Sapeva che lei doveva essere lì, nascosta da qualche parte; ferma, senza muoversi per non farsi scoprire.

    Quella sera, a cena, c’aveva raccontato tutto. A sentirlo, noi ci pareva di vederla la volpe, con la sua coda avvolta sul muso, nascosta in un canto, dietro la porta. L’odiavamo, perché ci aveva ammazzato più volte le galline. Mio fratello l’avrebbe presa e impagliata. Io no, mi bastava cacciarla via. Così, quella mattina ci eravamo svegliati prestissimo per andare con lui ai Lüghéi a vederla. Poi però papà ci disse che era inutile ammazzarla. Prima o poi ne sarebbe arrivata un’altra. E poi un’altra ancora. Meglio essere più furbi di lei.

    Ma quella mattina, guardammo nel casone, nella vasca, nel tröiju, niente. Non trovammo nulla: la volpe non c’era. Nessun buco era stato scavato. Non c’era più. E chissà se c’era mai stata. Passammo tutta la mattina a togliere l’erba. Era stato uno dei suoi trucchi: trovava sempre qualcosa, la volpe, i pulcini o Pesce Alberto; e noi ci facevamo abbindolare volentieri, cascavamo sempre nei suoi tranelli. Salvo poi, dopo aver scoperto che non c’era nulla, doverlo aiutare a zappare o a togliere l’erba.

    I Lüghéi sono il regno di papà. Lui passa più tempo ai Lüghéi che a casa. Nella bella stagione parte la mattina presto e arriva la sera per cena. Potesse, ne sono sicuro, abiterebbe lì. E, forse, la parte di lui che torna a casa la sera per cena, non è proprio lui, è quella addomesticata. Quell’altra, quella che sente le lumache che brucano l’insalata e il rumore dei peschi quando aprono i fiori, abita ai Lüghéi. Mamma una volta mugugnava, ma ormai s’è abituata. Lui non lo fa per cattiveria. Lui è così. A volte penso che il solo motivo per cui papà torni a casa, la sera, siamo noi due: per convincerci ad andare ad aiutarlo l’indomani mattina.

    Del resto, i Lüghéi sono proprio il suo mondo. Noi sappiamo che è lì. Quando vogliamo parlargli, dirgli qualcosa di importante, andiamo ai Lüghéi: e lui c’ascolta mentre lega i pomodori. Se qualcuno lo cerca – chiunque, il dottore, il commercialista, fosse pure il maresciallo – mamma lo manda ai Lüghéi.

    Papà viene malvolentieri in paese. Quando abbiamo un appuntamento, spesso l’aspettiamo, ma lui tarda. Oppure, non viene nemmeno. Se deve andare dal dottore, dall’

    aamaie

    per l’acquedotto o all’

    inps

    , non viene. L’aspettiamo, mamma l’aspetta, e lui non viene. Fin da bambini: se doveva portarci al catechismo o quando doveva venire a scuola a parlare con i professori, o a vedere le nostre partite di pallone. Io giocavo portiere e guardavo più gli spalti che i cross degli attaccanti: l’avessi mai visto una volta. Ovunque, per qualsiasi cosa, la campagna viene prima. Tranne che in chiesa, alle prove del coro. Qualunque sia l’appuntamento, in qualunque luogo debba andare, ai Lüghéi c’è sempre qualcosa di più importante da fare.

    A l’axevu da ciantà e fave, Avevo da piantare le fave, dice poi, oppure, Duxevu mette e scarase ae pumate, Doveva mettere le canne ai pomodori, o precisa, A puavu u persegu, Gh’eia da aiguà, da tacà u mutùe pe’ girandule, Potavo il pesco, o c’era da innaffiare, da accendere il motore per le girandole.

    2

    Quand’è a casa, papà tace. Di solito, a cena non dice una parola. Non ci ha mai chiesto com’è andata a scuola, se avevamo qualche interrogazione o compito in classe. Oppure con quali amici giriamo. La sola domanda che ci faceva una volta, quando veniva a prenderci con la Renault 4 all’uscita da scuola, alle elementari, era: Alua, l’avei studiau Garibaldi? Se avevamo studiato Garibaldi. Ce lo chiedeva sempre, tutti i giorni, con insistenza: come se fosse qualcosa che uno che studia deve sapere. Rispondevamo sempre di no, chissà chi era ’sto Garibaldi.

    Fino in quarta, io che sono il più vecchio, gli ho risposto sempre di no, che non sapevo chi fosse Garibaldi. Poi una volta, in quinta, trovai quel nome sul sussidiario. Studiai tutto, per me Garibaldi non aveva più segreti: Nizza, l’Uruguay, la Repubblica Romana, Anita, il Volturno, Teano e Caprera. Quella sera a cena, entusiasta, lo raccontai a papà. Ma lui non si sorprese più di tanto e mi disse semplicemente, Bravu. Oggi non mi chiede nemmeno se ho passato l’esame di Meccanica Razionale.

    Invece, il papà che abita ai Lüghéi, è un altro. Una volta aveva dimenticato a casa le chiavi e mamma ci chiese di portargliele. Ci andammo in bicicletta, attraverso gli orti, e poi le abbandonammo appoggiate al muraglione, dove doveva cominciare la salita per i Lüghéi.

    Non sapevamo se avremmo trovato i Lüghéi da soli. Non c’eravamo mai andati senza di lui. Ricordavo solo un grande albero d’alloro e un canneto prima della serra, e il tetto del casone che spuntava da dietro. Seguimmo la strada sterrata fino a un bivio. Subito prendemmo a destra, ma finimmo sull’argine del fiume e tornammo indietro. S’andava a sinistra. Trovammo uno sterrato lungo che ci portò al canneto: davanti c’era parcheggiata la Renault 4 di papà. Eravamo arrivati, da lì cominciava la salita che portava prima nell’orto e poi nelle olive. Quella volta i Lüghéi ci sembrarono più grandi e selvatici di adesso, gli ulivi si confondevano con il bosco, le rocce con i maxéi. Prima di salire chiamammo, Papà! Papà! Papà!, ma non rispose nessuno. Ma dov’era? Si nascondeva? Stava giocando con noi? Eccitati, prendemmo a salire. Io non sentivo altro che il mio cuore che batteva. Ma poco dopo, ai primi tornanti della salita, sentimmo cantare: Magnificat / anima mea Dominum, … / quia respexit humilitatem ancillae suae, / ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes…

    Era una voce bassa, grave, a tratti scura, ma tra gli olivi non vedevamo nessuno. Ci avvicinammo, la riconoscemmo. Era la stessa che sentivamo parlare in dialetto con mamma di prime o segunde, di misure di mazzi di ruscus o concimi e di Sequestrene. Ora cantava in latino: era papà. Tirava una manica per l’acqua da un ulivo a un altro. Rimanemmo un po’ ad ascoltarlo, fino alla fine, senza disturbare, come avremmo fatto se fossimo stati in chiesa. Quando s’accorse di noi ci sorrise. Fu come se c’avesse sorriso per la prima volta. Oh! Belin!, ci disse, Aula, cos’i fai chi? Vegnì che i m’ajutai a tià a manega… Ma che fate qui? Venite che mi aiutate a tirare la gomma. Delle chiavi, non s’era nemmeno accorto. Lo aiutammo un po’ a innaffiare, poi tornammo a casa. Noi in bici, lui in macchina.

    I Lüghéi per papà è il posto più bello del mondo. Non smette mai di parlarne: del blu che ha il cielo tra le foglie degli olivi, del profumo che si sente quando fiorisce il ciliegio, del silenzio che c’è all’alba. Di come, quand’era bambino, lui e suo papà, il Pai Bacì, ci andavano tutti i giorni. E di come, invece, ora ci lavora solo lui e che ci sono così tante cose da fare. E che i maxéi, i muretti a secco, vengono giù, e l’erba e i rovi e il bosco si stanno mangiando tutto.

    Ci parla spesso dei Lüghéi, papà. Ma quando ha trovato lo straniero, quella volta no, non c’ha detto nulla. Chissà, forse pensava che se ne sarebbe andato. Forse avrà avuto paura. Forse non voleva spaventarci. E s’è tenuto dentro tutto per tutta l’estate.

    Quando alla fine poi è successo, l’altra sera, per lui dev’esser stata una liberazione. Non dev’essere stato facile. Sembrava un fiume in piena.

    Gh’eia ün c’u durmiva intu casùn… ha cominciato così, semplicemente, strappando un pezzo di pane. E poi ci ha raccontato tutto, ma come fa lui, come una delle sue storie, che poi non sapevamo se crederci oppure no. Ma a noi è bastato per capire ciò che era accaduto in questi mesi.

    Come sia andata per davvero quella mattina non lo sappiamo, ma all’inizio non dev’essere stata diversa da tutte le altre mattine ai Lüghéi. Come al solito, papà sarà arrivato di buonora, appena fatta luce, che il sole non s’era ancora levato dalle spalle della collina. Questo perché, a maggio, quando c’è da togliere l’erba, è meglio cominciare con il sole giovane, che poi fa troppo caldo.

    Per prima cosa, sentendo cantare Cossiga, papà dev’essere entrato nel pollaio. Voleva vedere se c’era un ovetto caldo, appena fatto. E c’era, ce n’erano tre. Stava per prenderlo ma s’accorse che la Irma ci s’era seduta sopra. E quando s’avvicinò, si mise a borbottare, proprio come fanno le galline quando si mettono a covare. Ecco perché Cossiga era così agitato. Papà, allora, capì e gliele lasciò. Nessuna delle uova di quella mattina poteva essere mangiata.

    Ai Lüghéi c’è una costruzione piccola, lunga e stretta, con il tetto di coppi e d’eternit, che pare una casa ma non definitiva, provvisoria. Noi gli diciamo casùn. L’aveva costruito il nonno con sassi e mattoni grezzi, tra la serra e l’orto, vicino al tröiju, una vasca d’acqua putrida e stagnante usata per innaffiare. È un locale di servizio, senza balconi, angusto, scuro e zeppo di oggetti, odorante di insetticidi e concimi. Papà ci tiene l’atomizzatore a benzina, la motozappa, la motosega, il magaju e molta altra roba: fertilizzanti, diserbanti, falcetti, secchielli. In un angolo c’è una vecchia credenza con dei vecchi vestiti ormai buoni solo per lavorare (mamma ne ha portato soprattutto di nostri, pantaloni frusti e maglioni striminziti, ma buoni per non sporcarci quando andiamo in campagna). Nel casone ci sono anche una sedia e il vecchio tavolo con su una bilancia che una volta avevamo in cucina. In bilico, sopra la vecchia credenza, una gabbietta per uccelli da richiamo. Vuota.

    Il resto dello spazio, nel casone, è occupato dal motore con tutti i suoi collegamenti elettrici. Serve per riempire la vasca. L’acqua arriva ai Lüghéi dal torrente attraverso un complicato intrico di canali: quand’ero bambino papà mi disse che erano antichi e che li avevano costruiti i romani. Ma poi lo dissi alla maestra e presi un brutto voto in storia.

    Prima di innaffiare, papà preme l’interruttore e il motore parte. Da allora, il motore comincia il suo discorso e il silenzio degli orti finisce. Tutti stavano ad ascoltarlo: le zanzare nascoste tra le canne del torrente o il tasso che s’era fatto la tana sotto le assi del pavimento. I merli gracchiavano e poi tacevano. Noi lo sentivamo mugugnare da su, fin dalle olive. È la sua, una voce sommessa, come una cosa seria, ma detta in gran segreto. Qualcosa su di noi ma non per noi, qualcosa che non dovevamo capire. Assomiglia a uno dei discorsi sottovoce che papà fa in chiesa durante la messa: ma non si capisce diretti a chi. Se a mamma o a Dio. E forse, per questo, ci ha sempre fatto un po’ paura e lo abbiamo sempre rispettato.

    Quando il motore ha finito il suo lavoro, la vasca lassù, in cima ai Lüghéi, è piena d’acqua. E allora si può innaffiare e attaccare anche le girandole.

    Nel casone, una lampadina pende dal soffitto. Ma, nessuno l’accende mai e solo i ragni la usano come traliccio per le loro tele. Dall’eternit spaccato del tetto filtra la luce con il sole e l’acqua con la pioggia. Vi s’infila anche l’edera, curiosa come una suocera. Le vespe fanno il nido sotto i coppi; pullulano operose sulla loro spugnetta di cera. Se non si sta attenti, pungono.

    Pur essendo pieno di nostre cose, il casùn, della casa ha sempre avuto solo un poco del nome e nulla più. Per noi, per me e mio fratello, viverci sarebbe stato impossibile. Lo sarebbe stato anche rimanerci chiusi per cinque minuti. Ed era successo qualche volta, per punizione.

    Come quando ci divertivamo a lanciare i sassi nella vasca per vedere Alberto, il pesce rosso. L’avevamo

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