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Fratello minore
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E-book212 pagine3 ore

Fratello minore

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 Berlino, zona est, un autunno degli anni Novanta, prima dell’alba. Un uomo scende in strada, è uno scrittore semisconosciuto e un ex-bevitore. Ha quarant’anni e la sua vita è sospesa. È un fallimento quello che ha alle spalle? E i pochi anni di vita che ancora lo aspettano possono dirsi all’altezza delle sue aspirazioni? C’è poco di romantico nell’essere davvero uno scrittore maledetto. Vent’anni dopo, un autore italiano che a Berlino ci va spesso s’imbatte nei ricordi che quell’uomo ha lasciato in chi lo ha conosciuto. Si mette sulle sue tracce, ne scopre i testi, decide di ricostruirne la figura. Immagina, interroga, si rivolge a lui. Ne rievoca il passato famigliare, con i genitori ebrei prima fuggiti dal nazismo e poi approdati nella Germania comunista, con i fratelli anch’essi artisti, ugualmente ribelli contro lo status quo incarnato dal padre funzionario e tutti condannati a una fine precoce. Fa parlare su un palcoscenico immaginario le donne che lo hanno amato. Visita la sua tomba e ne commenta gli ultimi anni, il tentativo di riscattare un’esistenza di rabbie e sconfitte. Fino a salvarne, grazie alla poesia, la purezza ferita.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788868512675
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    Anteprima del libro

    Fratello minore - Stefano Zangrando

    PROLOGO

    C’è un tempo interiore del viaggio che di solito non corrisponde al tempo reale degli spostamenti e delle permanenze. Non è difficile accorgersene: se al ritorno da un viaggio – da un viaggio vero: un’esperienza di vita altrove – ci sentiamo rinati ma irrisolti, se proviamo un senso di scomoda incompiutezza, se ci coglie il desiderio pungente di ritornare nel luogo che abbiamo appena lasciato, significa che il viaggio non è finito e che, nel migliore dei casi, dovrebbe poter proseguire con altri viaggi, successivi, nello stesso luogo, affinché il processo avviato in noi dal primo viaggio possa proseguire e infine compiersi, ultimando la nostra trasformazione in persone nuove. Allora, e solo allora, quel viaggio può dirsi finito.

    Il mio primo viaggio a Berlino durò circa tre anni e comprese diversi soggiorni, alcuni lunghi, altri anche molto brevi, ma non meno assetati. Del primo di quei soggiorni, del suo mistero che mi trasformò, cercai di rendere conto in un libro, un romanzo i cui tratti di fantasia hanno finito per forgiare, falsandola, persino la memoria di quell’esperienza. Ma di autentico è rimasto il tratto esistenziale che avrebbe contraddistinto il viaggio per tutti e tre gli anni: la ricerca viscerale di una vita vera, in cui coincidere in ogni momento con se stessi, una vita che nei miei luoghi natii non reputavo possibile. La stessa vita che, nel decennio che seguì, continuai a cercare, sempre a Berlino, sempre a singhiozzo, ma in modo meno viscerale, con più misura.

    Questo secondo viaggio ha coinciso all’incirca con il mio quarto decennio di vita. Il suo tratto più costante, mentre io mi accomodavo come potevo nell’età adulta, fu la casa di Rosemarie: è soprattutto qui, in questo grande appartamento nella Mauerstraße, rimasto in gran parte come ai tempi della DDR, che ho dormito i miei sonni berlinesi più sobri, o quasi. E oggi Rosemarie non mi ospita più nella camera accanto all’ingresso riservata agli studenti, ma in un’altra, più piccola, dove fino a qualche tempo fa aveva il suo pied-à-terre un consulente drammaturgico del Deutsches Theater, Alexander Weigel. Del suo passaggio sono rimasti due scaffali colmi di libri e, affisso alla parete, un manifesto di uno spettacolo di Heiner Müller, il maggior drammaturgo tedesco della seconda metà del ventesimo secolo.

    L’immagine, incorniciata in rosso, è il Duello rusticano o a randellate di Goya: due uomini del popolo che cercano di colpirsi a vicenda con dei bastoni, mossi da una furia primordiale e dalla consapevolezza che uno di loro cadrà morto, su uno sfondo naturale, montuoso, che ha qualcosa di sovratemporale. Il titolo del dramma, Der Lohndrücker, è traducibile come Lo stakanovista, ma alla lettera significa colui che abbassa i salari. Il manifesto è quello di una storica messa in scena del 1988. La frase sulla sinistra del manifesto dice: «Quello che è stato, puoi seppellirlo?» E a destra: «No.»

    Molto prima che Weigel occupasse la camera dove adesso alloggio io e che studenti e studentesse da tutto il mondo si avvicendassero in quella accanto all’ingresso, Rosemarie affittava queste stesse stanze agli operai forestieri che lavoravano nei dintorni, ben pochi dei quali ormai dovevano ricordare l’ambiguo super-lavoratore malvisto dai colleghi nel dramma didattico di Heiner Müller. Erano gli anni centrali della Repubblica Democratica Tedesca, anni di una maturità abbastanza fiorente e compiaciuta, più orientata alla distribuzione sociale dei frutti della produzione che al loro incremento agonistico. Ma furono anche anni di rigida censura culturale, che culminarono nella sottrazione della cittadinanza al poeta e cantautore Wolf Biermann, già inviso da tempo al partito per le sue posizioni critiche. Era il 1976, e tra coloro che si espressero contro quel provvedimento c’era anche un giovane aspirante scrittore che pagò caro il proprio gesto: fu espulso dall’università di Lipsia, dove studiava germanistica. Si chiamava Peter B.

    Non so più dire come sia nato il mio interesse per lui. Fu poco prima del mio primo soggiorno a Berlino da quarantenne. Il suo nome mi era noto da vari racconti di Rosemarie. Sapevo che era stato più volte a casa sua, che era una specie di amico di famiglia, che beveva molto, tanto che ne morì. E sapevo che era il fratello minore di Thomas B., uno degli scrittori più celebri della Germania realsocialista. Ma non so cosa mi spinse, un paio di giorni prima di partire, a usare internet con meno distrazione del solito e cercare sue notizie, possibilmente tracce. Trovai un video, aveva un titolo generico: Peter B. sulla cultura. Era un estratto di pochi minuti da una trasmissione televisiva della rete tedesco-orientale del Brandeburgo, la puntata di un talk-show chiamato Wie weiter?, "Come andare avanti?", andata in onda l’8 giugno 1991.

    Il giovane uomo seduto in poltrona accanto ad altri due tizi e chiamato a intervenire in qualità di autore e regista, inquadrato dapprima di profilo, ha i capelli castani, indossa una giacca nera, jeans schiariti e scarpe scure. Tiene una sigaretta fra le dita. Si piega in avanti e allunga il braccio, oltre le gambe accavallate, verso il posacenere sul tavolino che ha di fronte. Tossicchia. Il primo piano a tre quarti ne restituisce adesso l’espressione non serena, un solco netto fra le sopracciglia, il volto lucido, gli occhi chiari e vitrei, il naso importante e le due rughe simmetriche che scendono fino ai lati della bocca socchiusa, sopra il mento arrotondato da una pappagorgia appena gonfia. Sembra respirare con lieve affanno.

    Il moderatore lo interpella sulla funzione del teatro nell’est e nell’ovest. Lui dice che non c’è differenza, che il teatro in primo luogo deve divertire. Si oppone poi all’espressione DDR-Identität perché, sostiene, «nessun uomo è identico a uno Stato». Dice che c’è semmai un DDR-Gefühl, un senso di provenienza e appartenenza, e che nella Germania orientale le aspettative nei confronti del teatro prima dell’89 erano diverse da oggi. Allora, dice, il teatro sostituiva i quotidiani – un’affermazione che stento a comprendere. Poi sostiene che il calo di spettatori accusato dai teatri dell’est è dovuto semplicemente al maggior costo del biglietto, ossia all’introduzione dell’economia di mercato. Passa allora a parlare di denaro, della cattiva distribuzione dei fondi ai diversi teatri tedeschi. Cita ad esempio la ben foraggiata Volksbühne, il maggior teatro sperimentale berlinese e tedesco, e il Grips Theater, un piccolo teatro progressista di Berlino Ovest dove attualmente lavora. Agita una mano quando dichiara: «Il denaro in effetti ha una parte rilevante, e in tal senso oggi qui sostituisce l’ideologia». In passato, dice, chi lavorava nel mondo teatrale non doveva occuparsi di soldi, preoccuparsi dei finanziamenti. Poi accusa il teatro di Karlsruhe, nel sud-ovest del paese, dov’è stato di recente, di mettere in scena «solo merda», portandolo come esempio di un teatro noioso, vecchio, di repertorio. Lì sì che è necessario tagliare, dice, così da poter sostenere una rete più ampia di teatri più vivi – possibilmente nell’ex-Germania Est, mi pare di capire. Fa alcuni esempi e, man mano che parla, sembra acquistare sicurezza e tranquillità. «Sfoltire», dice, richiamandosi a non so quali parole di Heiner Müller. E afferma che questo, in fin dei conti, è un problema comune a «entrambi i Paesi» (nonostante nel frattempo siano diventati uno solo).

    Fu quel video a sommuovere il mio fondo. Eccolo dunque, lo scrittore maledetto del quale avevo sentito parlare varie volte nel corso degli ultimi anni, ma senza mai badarvi troppo, come se fosse soltanto un personaggio secondario delle avventure di Rosemarie nel Paese dei contadini e dei lavoratori. C’era qualcosa, in quel giovane uomo tormentato, che toccava una mia corda nascosta. Perché lo sentivo così vicino, così familiare? Era solo una suggestione dovuta ai racconti della mia pensionante? O forse somigliava a qualcuno che avevo conosciuto in passato, ma che non sapevo ricordare? O faceva semplicemente appello alla mia passione indomabile per tutto ciò che è berlinese e affine alle mie passioni? La sua parlata, il mondo teatrale…

    Proseguii la ricerca in preda a una crescente eccitazione. Trovai subito un altro video, anch’esso breve, poco più di quattro minuti, mostrava un Peter B. di otto anni più tardi e nettamente invecchiato, ingrigito dal fumo ma sobriamente compiaciuto di presentare, per la stessa televisione locale, il suo primo romanzo, Schön hausen. Scritto attaccato, Schönhausen sarebbe il nome del castello barocco di Pankow, nella parte nord-orientale di Berlino, che funse da residenza dell’unico presidente della DDR, Wilhelm Pieck, e più tardi da sede del Consiglio dei Ministri, finché nei mesi della Wende, la svolta del biennio 1989-90, vi ebbe luogo una seduta governativa di preparazione alla riunificazione; la sua presenza si annuncia già nel quartiere dove visse Peter B., un cui viale porta appunto questo nome. Staccato, invece, Schön hausen ha un significato più semplice e quotidiano, qualcosa come alloggiare ben bene in una misera dimora.

    Di questo secondo filmato, un servizio girato per lo più a casa dello scrittore, capii poco, forse per l’eccitazione, forse per la foga da internauta che mi aveva afferrato e che, teleguidata almeno in parte da stratagemmi fuori dal mio controllo, mi indusse a interrompere la visione dopo neanche un minuto per cercare subito quel titolo in vari siti di commercio librario on line.

    Gli esemplari erano pochissimi, tutti usati o comunque fuori commercio, e avevano prezzi molto alti. C’era poi qualche altro titolo di Peter B. a prezzi per lo più ragionevoli, ma non Schön hausen, la sola opera che in quel momento mi interessava, il suo unico romanzo.

    Avevo raggiunto una soglia di curiosità non appagabile, che mi rendeva irrequieto e superficiale. Perché avevo intrapreso quella ricerca? Non ne avevo idea. Ma sentivo di aver abbordato un tema, un personaggio, una questione irrisolta che in qualche modo riguardava anche me. Tuttavia non avrebbe avuto senso proseguire quella convulsa ricognizione in rete. Sarebbe stato meglio aspettare di arrivare a Berlino e chiedere a Rosemarie di parlarmi di nuovo del suo amico.

    Così feci. Era un novembre mite. Come al solito Rosemarie mi accolse sulla porta della sua abitazione in un’armonia di neri che, fra indumenti, scialle e capelli a caschetto, incorniciava la sua pelle rosea di sassone, facendo risaltare gli occhi azzurri che un tempo dovettero procurarle molti ammiratori. E come al solito ci mettemmo a chiacchierare già nell’ingresso, per vari minuti, io ancora con la giacca indosso e una mano sul manico allungato del trolley.

    Le chiacchiere proseguirono nel cosiddetto Berliner Zimmer, l’ampio soggiorno al centro dell’appartamento dove ancora campeggiavano una grande stufa in ceramica e diversi mobili dell’epoca socialista. Fu qui che le parlai del mio recente, improvviso interesse per Peter B. Fu sufficiente. Mentre ancora mi sistemavo nella mia camera assistito in silenzio dai libri di Weigel, Rosemarie si vestì e uscì. Rientrò meno di un’ora dopo con una borsa di stoffa contenente vari materiali: articoli di giornale, il plico rilegato di una pièce teatrale, un poster – e una copia di Schön hausen: in copertina un’illustrazione violacea, notturna. Proveniva tutto dalla casa di Margit, la migliore amica di Rosemarie, una famosa attrice.

    Conoscevo Margit, l’avevo vista recitare al Deutsches Theater nei Persiani di Eschilo e in Germania di Heiner Müller sotto la direzione di Dimiter Gotscheff, un regista che ammiravo, morto proprio poche settimane prima di quel mio soggiorno autunnale. Ed era già capitato che Margit e io sedessimo allo stesso tavolo, a casa di Rosemarie o in un ristorante dei dintorni. Quello che non mi era stato chiaro fino a quel momento, anche se Rosemarie me lo aveva certo già detto, era che Margit, anni addietro, era stata sposata con Peter B.

    La dedica sul risguardo della sua copia di Schön hausen era corredata da un disegno, un esile omino in riva al mare non dissimile, nel tratto bambinesco, dalle tre piccole figure che in copertina parevano stagliarsi su un abisso, illuminate in controluce dal chiarore lunare. Le parole della dedica alludevano a un esilio esistenziale – «A casa, quando è stato?» –, e rimanevano suggestive anche a una lettura estranea come la mia, ma non seppi immaginare a cosa potessero riferirsi veramente.

    Quella stessa sera iniziai a leggere il romanzo, che mi trascinò fin da subito in un’incredula meraviglia. Non era un capolavoro, ma l’immaginazione che vi albergava aveva qualcosa di irresistibile: era una forza innocente, libera e divertita, che mi riempiva di euforia e rafforzò la sensazione di aver trovato un consimile, un compagno di strada – un fratello? Qualcuno, comunque, che mi parlava dallo stesso mondo in cui sospiravano i miei sogni e i miei disincanti, che perciò non potevo, non volevo abbandonare all’oblio al quale sembrava essere stato condannato dalla sorte.

    Capii così che, a quarant’anni compiuti, il mio terzo viaggio a Berlino era incominciato. E che sarebbe stato anche un viaggio nel tempo.

    Prima parte

    TU

    I

    Ti vedo, o almeno credo. È uno dei momenti più sfocati della tua biografia. In bianco e nero, si direbbe, o forse è solo Berlino Est che a quest’altezza, sei anni dopo il cosiddetto crollo del Muro, è ancora immersa in larga parte in un grigio fatiscente, che smorza i facili entusiasmi nostalgici di chi ti vede dal futuro: dal variopinto supermarket dell’Europa d’inizio millennio. Chissà di che colore è il tuo soprabito, subito spruzzato dalla pioggerella autunnale appena metti piede in strada, il portone scrostato che si chiude alle tue spalle. Sotto l’unico lampione nei tuoi pressi, in una luce tremolante, la fiamma dell’accendino che si accosta alla seconda sigaretta senza filtro del giorno – e sono solo le cinque del mattino – perde forza e poesia. Ne saresti contento, una vignetta kitsch in meno.

    La Choriner Straße è un buon posto per abitare, dopo l’89. Al confine tra Mitte e Prenzlauer Berg, da qui in pochi minuti sei in Alexanderplatz – se vuoi fiutare bene i venti che spirano da ovest e che stanno spazzando via tutto, un po’ alla volta, in un paziente e implacabile lavoro di erosione; oppure in un attimo sei nella Schönhauser Allee, l’asse più in fermento di questo ex-quartiere operaio che, nel giro di un decennio o poco più, verrà colonizzato e tirato a nuovo dai figli di papà occidentali, tedeschi e non solo. Molti autoctoni, i più anziani soprattutto, se ne andranno da qui nei sobborghi, arresi ad affitti sempre più insostenibili; qualcuno della tua cerchia resisterà e lo incontrerò. Ma non è ancora tempo, sono molti gli edifici ancora in stato di abbandono, frutto di una gestione anche urbanistica che qui, nel biotopo degli artisti alternativi, aveva ancor meno interesse a farsi bella.

    Guardi la cavità che hai davanti, un buco fra due case, uno dei tanti vuoti che puntellano il tessuto cittadino, per lo più resti di guerra – le bombe alleate, mezzo secolo fa, cadevano fitte –, uno dei pochi tuttavia in questa zona, risparmiata più di altri e perciò preda a venire degli speculatori immobiliari più glamour-oriented. Qui poi, davanti al civico 36, è cresciuto un tiglio, grande e bello, la cui chioma, dimora di uccelli e scoiattoli, gareggia in rigoglio con quella del castagno che, nel cortile interno, ti fa compagnia quando volgi lo sguardo alla finestra, seduto alla scrivania, dalla tua abitazione al quarto piano. Oggi quello non l’hai guardato, è vero, è ancora buio, settembre è ormai alla fine. Ma converrai che neppure una partita a campo minato su uno schermo a tubo catodico è la vista migliore per entrare nel giorno.

    Certo, continuare a non bere è una sfida più dura del previsto. Non fosse per Petra, che ha stretto la mano al bimbo puro e rabbioso che è in te e che, nella veste di un controllo amorevole, ti sprona a trovarti fuori dai tuoi vecchi schemi, saresti scivolato ancora più giù, la tua vita era un greppo franoso – da quanto? Quand’è che il tuo istinto ribelle ha iniziato a procurarti più sfiducia che gloria? Hai compiuto da poco quarant’anni e, benché da venti porti gli stessi occhiali, o almeno la stessa montatura, non puoi dire di aver costruito granché. Non dovrebbe essere, questa, l’età dei primi bilanci?

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