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Due vite
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E-book351 pagine4 ore

Due vite

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Due vite è la storia di Robert Ford un giovane e brillante medico di New York, protagonista maschile del precedente romanzo Vite sospese. Robert è di buona famiglia, ha successo con le donne, ha una promettente carriera. Apparentemente ha tutto quello che servirebbe per condurre una vita piena, intera e completa. Eppure è inquieto perché sente che la sua esistenza non lo soddisfa. Per questo motivo decide di accettare una borsa di studio come ricercatore in Italia, sperando di trovare finalmente la sua strada e soprattutto se stesso. Ben presto Robert si accorgerà che in Italia non solo ritroverà se stesso, ma scoprirà molto di più grazie a Carol…una giovane e bella restauratrice con la quale vivrà un’intensa storia d’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788831664875
Due vite

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    Anteprima del libro

    Due vite - Rosalba Di Camillo

    Twain

    1

    «A che ora hai l’ae­reo?».

    «Tra un’ora. So­no in au­to ades­so! Sto an­dan­do in ae­ro­por­to, ma so­no un po’ in ri­tar­do!».

    «Va be­ne! Gui­da con pru­den­za, ci ve­dia­mo sta­se­ra!».

    «D’ac­cor­do! Non ti… Ca­rol! Ca­rol, ci sei an­co­ra?». Cad­de la li­nea.

    Se aves­si con­ti­nua­to di quel pas­so avrei per­so si­cu­ra­men­te l’ae­reo. «Ma­le­det­to traf­fi­co!».

    Ero via so­lo da po­chi gior­ni, ep­pu­re mi era­no sem­bra­ti eter­ni. Non ave­vo pro­prio vo­glia di sta­re an­co­ra a Vien­na; già ero par­ti­to mal vo­len­tie­ri, fi­gu­ria­mo­ci pas­sa­re un al­tro gior­no lon­ta­no da lei! La piog­gia ini­zia­va a es­se­re me­no bat­ten­te e spe­rai che an­che il traf­fi­co si dis­sol­ves­se. Fi­nal­men­te l’usci­ta dell’au­to­stra­da per l’ae­ro­por­to era sem­pre più vi­ci­na, or­mai sta­vo per la­scia­re la co­da, mi vol­tai ver­so il se­di­le del pas­seg­ge­ro e fis­sai il re­ga­lo che le ave­vo pre­so, pre­gu­stan­do il mo­men­to in cui glie­lo avrei do­na­to. In­fi­lai il pac­chet­to nel bor­sel­lo e sfi­lai il bi­gliet­to con i do­cu­men­ti per aver­li già a por­ta­ta di ma­no. Or­mai man­ca­va po­co.

    Ero com­ple­ta­men­te di­strat­to dai miei pen­sie­ri quan­do un ru­mo­re stri­den­te di fre­ni mi spa­ven­tò! Al­zai di scat­to la te­sta.

    «No!».

    Im­prov­vi­sa­men­te il buio!

    Tut­to in­tor­no a me si com­pri­me­va, si re­strin­ge­va, si con­tor­ce­va! Mi sen­ti­vo chiu­so e im­pri­gio­na­to co­me in una mor­sa! Era ter­ri­bi­le!

    Ma co­sa sta­va suc­ce­den­do?

    Le la­mie­re si ac­car­toc­cia­va­no su di me con il lo­ro or­ri­bi­le ru­mo­re, co­sì acu­to e stri­den­te. Non ero più pa­dro­ne di me stes­so! Il mio cor­po non ap­par­te­ne­va più al­la mia men­te che non lo go­ver­na­va. Mi sen­ti­vo co­me so­spe­so!

    Sta­vo mo­ren­do?

    For­se no! Per­ché non pro­va­vo nes­sun do­lo­re? Ep­pu­re era for­te l’odo­re del san­gue, mi da­va la nau­sea.

    Sì! Sta­vo mo­ren­do!

    Ma co­me mai non ri­ve­de­vo tut­ta la mia vi­ta, i miei ri­cor­di? Nel­la mia men­te ve­de­vo so­lo lei, che mi sor­ri­de­va e mi chia­ma­va. Avrei vo­lu­to an­dar­le in­con­tro ma ero co­me bloc­ca­to, co­me im­mo­bi­liz­za­to da un tor­po­re pia­ce­vo­le ma al­lo stes­so tem­po ter­ri­bi­le! For­se sta­vo dav­ve­ro mo­ren­do! Il fu­mo pe­ne­tra­va dal­le mie na­ri­ci, en­tra­va nel mio cer­vel­lo e oscu­ra­va tut­to … ogni pen­sie­ro, ogni ri­cor­do, ogni at­ti­mo del­la mia vi­ta! E por­ta­va via lei, che con­ti­nua­va a chia­mar­mi, ma io non riu­sci­vo più a sen­tir­la! Non ca­pi­vo le sue pa­ro­le! Non la ve­de­vo più!

    Mi ero per­so nel vuo­to… nel nul­la!

    2

    Sei an­ni pri­ma.

    Il cor­ri­do­io del re­par­to mi sem­bra­va par­ti­co­lar­men­te lun­go. No­no­stan­te il mio pas­so fos­se so­ste­nu­to, non fi­ni­va mai! Ave­vo un gran bi­so­gno di an­da­re via per tor­na­re a ca­sa e li­be­ra­re un po’ la men­te da tut­ti i pen­sie­ri che, nel­le ul­ti­me set­ti­ma­ne, scan­di­va­no le mie gior­na­te.

    Mi sen­tii im­prov­vi­sa­men­te chia­ma­re.

    «Ro­bert!».

    «An­tho­ny! Sei an­co­ra qui? Cre­de­vo aves­si fi­ni­to!».

    Ero fe­li­ce di ve­de­re An­tho­ny, riu­sci­va ad aiu­tar­mi sem­pre, an­che in­con­sa­pe­vol­men­te.

    «Sì, sta­vo an­dan­do via, ma pri­ma ho bi­so­gno di un con­sul­to e poi ti sta­vo cer­can­do! Ma che fi­ne hai fat­to? So­no se­co­li che non ti fai ve­de­re!».

    «Hai ra­gio­ne An­tho­ny, non ci ve­dia­mo da tan­to! Sto la­vo­ran­do tan­tis­si­mo e so­no pen­sie­ro­so! So­no al­tro­ve con la te­sta!». Dis­si pas­san­do ner­vo­sa­men­te una ma­no nei ca­pel­li.

    «E do­ve con la te­sta?».

    Esi­tai qual­che istan­te pri­ma di ri­spon­der­gli. «In Ita­lia!».

    An­tho­ny mi guar­dò sgra­nan­do gli oc­chi. «Non mi di­re che il mi­glior stu­den­te in me­di­ci­na del­la Stan­ford Uni­ver­si­ty, vuo­le ac­cet­ta­re il ge­mel­lag­gio e fa­re il ri­cer­ca­to­re a Ro­ma? Ma è da paz­zi! Pro­prio ades­so che hai fi­ni­to la spe­cia­liz­za­zio­ne? E poi lo sai che il pri­ma­rio ti ha mes­so gli oc­chi ad­dos­so!».

    «An­tho­ny, mi piac­cio­no le sfi­de e poi a Ro­ma po­trei sta­re un po’ con mio pa­dre. So­no set­ti­ma­ne che non lo ve­do e l’ul­ti­ma vol­ta che ci sia­mo sen­ti­ti ave­va un to­no di vo­ce che non mi con­vin­ce­va!».

    «Ca­pi­sco! - Ab­boz­zò un lie­ve sor­ri­so pri­ma di con­ti­nua­re. - Emi­ly, che ne di­ce?».

    «A lei non ho an­co­ra det­to nien­te. E co­mun­que non è cer­to un pro­ble­ma! Il no­stro rap­por­to è mol­to li­be­ro!».

    «Li­be­ro!? E que­sto co­sa dia­vo­lo vor­reb­be di­re? Che ti por­ti a let­to tut­te le in­fer­mie­re del re­par­to e lei non di­ce nien­te?».

    An­tho­ny, mi co­no­sce­va be­ne e sa­pe­va che ero ab­ba­stan­za ri­chie­sto e que­sto spes­so mi fa­ce­va ce­de­re al­le lu­sin­ghe del­le gio­va­ni spe­cia­liz­zan­de!

    «Si­cu­ra­men­te so­no uno che non cre­de nell’amo­re, ma so­no pur sem­pre un bra­vo ra­gaz­zo… so­no fe­de­le! Co­sa cre­di?! Pe­rò è an­che ve­ro che la no­stra unio­ne è pri­va di vin­co­li, noi non ce ne sia­no im­po­sti!». In ef­fet­ti le ero sem­pre sta­to fe­de­le, ma il no­stro rap­por­to ave­va co­no­sciu­to mol­ti pe­rio­di di stop, en­tro i qua­li mi sen­tii li­be­ro e… di­spo­ni­bi­le!

    «Ah! Sei sen­za spe­ran­za! Con tut­to l’af­fet­to che ho per te ami­co mio, ma in pie­na one­stà lei me­ri­ta qual­cu­no che la ami e la spo­si! Poi in quan­to a te, so­no si­cu­ro che un gior­no tro­ve­rai qual­cu­na che ti fa­rà per­de­re ve­ra­men­te la te­sta e quan­do ac­ca­drà ri­par­le­re­mo del si­gni­fi­ca­to di rap­por­to li­be­ro! Ro­ba da mat­ti!».

    «Que­sto non pen­so che ac­ca­drà mai! Non cre­do nell’amo­re, nei rap­por­ti du­ra­tu­ri! Lo sai! È so­lo chi­mi­ca ami­co mio! Tut­to qui!».

    «In­ve­ce io scom­met­to che un gior­no ac­ca­drà!». Si bloc­cò di col­po e mi guar­dò fis­so ne­gli oc­chi con aria di sfi­da! Sem­bra­va dav­ve­ro con­vin­to. Lui ve­de­va il mio mo­do di fa­re da au­to­le­sio­ni­sta.

    Per­ché poi? Era ve­ro, non ave­vo mai avu­to le­ga­mi du­ra­tu­ri, ma que­sto non mi dan­neg­gia­va, an­zi al con­tra­rio, mi pro­teg­ge­va! In fon­do An­tho­ny non po­te­va ca­pi­re, era spo­sa­to or­mai da di­ver­si an­ni e ave­va un con­cet­to dell’amo­re di­ver­so dal mio.

    «Dav­ve­ro vuoi scom­met­te­re con me? E co­sa?». Lo stuz­zi­cai. Sa­pe­vo che ama­va mol­to il gio­co d’az­zar­do e so­prat­tut­to era un ac­ca­ni­to scom­met­ti­to­re! I suoi oc­chi ver­di ini­zia­ro­no a bril­la­re per l’ec­ci­ta­zio­ne di gio­ca­re con me. Sem­brò co­me scos­so da una sca­ri­ca di adre­na­li­na!

    «Cer­to mio ca­ro che scom­met­to con te! Se hai il fe­ga­to di ac­cet­ta­re!». Dis­se An­tho­ny sem­pre più eu­fo­ri­co.

    «D’ac­cor­do al­lo­ra! Scom­met­tia­mo!».

    «Se vin­co io… mi re­ga­le­rai quel­la splen­di­da mo­ne­ta ro­ma­na che hai a ca­sa! Quel­la che mi pia­ce tan­to!». Ave­va spa­ra­to al­to, la sua pas­sio­ne per le mo­ne­te an­ti­che lo ave­va spin­to a osa­re tan­to. Sa­pe­va che ne ero mol­to af­fe­zio­na­to, era un re­ga­lo di mia ma­dre per il mio 14° com­plean­no!

    «Vai giù pe­san­te! Va be­ne ac­cet­to la scom­mes­sa! - Gli dis­si co­glien­do­lo qua­si di sor­pre­sa. - Ma se do­ves­si per­de­re tu… mi da­rai la pen­na sti­lo­gra­fi­ca an­ti­ca con la piu­ma ros­sa che hai sul­la scri­va­nia!». Non so­lo ac­cet­tai la scom­mes­sa, ma ri­lan­ciai.

    «Al­lo­ra la mia pen­na po­trà dor­mi­re son­ni tran­quil­li sul­la scri­va­nia!». En­tram­bi scom­met­tem­mo pen­san­do di es­se­re si­cu­ri di vin­ce­re! An­tho­ny an­dò via con uno stra­no sor­ri­set­to, co­me se aves­se già la mia mo­ne­ta ro­ma­na in ta­sca. Si di­res­se ver­so l’uf­fi­cio dal pri­ma­rio per il suo con­sul­to, io in­ve­ce mi in­fi­lai ne­gli spo­glia­toi. Fi­nal­men­te quel lun­ghis­si­mo tur­no era fi­ni­to. Ave­vo vo­glia di an­da­re a ca­sa e so­prat­tut­to di par­la­re con mia ma­dre. Im­ma­gi­na­vo già la sua espres­sio­ne con­tra­ria­ta, era ap­pe­na tor­na­ta ne­gli Sta­ti Uni­ti do­po me­si di lon­ta­nan­za e dir­le che ave­vo de­ci­so di par­ti­re per un an­no non l’avreb­be cer­to en­tu­sia­sma­ta.

    Mi cam­biai mol­to ve­lo­ce­men­te, in­dos­sai il giub­bi­no di pel­le ed en­trai nell’ascen­so­re. Ap­pe­na fuo­ri chiu­si gli oc­chi e re­spi­rai pro­fon­da­men­te! «Fi­nal­men­te un po’ di aria fre­sca!».

    «Sal­ve dot­to­re!». Mi dis­se im­prov­vi­sa­men­te una gio­va­ne e bel­la in­fer­mie­ra.

    «Buo­na­se­ra…». Oh Dio! Ma co­me si chia­ma­va!?

    Non ag­giun­si al­tro, an­dai via per pau­ra che si fer­mas­se a par­la­re… sa­reb­be sta­to estre­ma­men­te im­ba­raz­zan­te dir­le che ri­cor­da­vo per­fet­ta­men­te le sue bel­lis­si­me gam­be, ma che non ave­vo as­so­lu­ta­men­te me­mo­ria del suo no­me! Pre­si l’au­to e an­dai a ca­sa sfor­zan­do­mi di ri­cor­da­re il no­me del­la bel­la in­fer­mie­ra, ma chis­sà per­ché era­no al­tri par­ti­co­la­ri che mi ve­ni­va­no in men­te di lei! Per­cor­si il tra­git­to ver­so ca­sa par­ti­co­lar­men­te eu­fo­ri­co, per­ché ad at­ten­der­mi ci sa­reb­be sta­ta mia ma­dre.

    Era una bel­la se­ra­ta, il fi­ne­stri­no aper­to fa­ce­va en­tra­re l’aria fre­sca che spet­ti­na­va leg­ger­men­te i miei ca­pel­li. Sì! Ero de­ci­sa­men­te di buon umo­re!

    In­fi­lai il via­let­to di ca­sa e fi­nal­men­te vi­di tut­te le lu­ci del­la mia abi­ta­zio­ne ac­ce­se! Fu bel­lo, do­po me­si, tro­va­re qual­cu­no a ca­sa per il rien­tro! Era de­pri­men­te non ave­re nes­su­no ad aspet­tar­mi, for­se per que­sto sta­vo sem­pre in ospe­da­le… lì era dif­fi­ci­le sof­fri­re di so­li­tu­di­ne.

    Mia ma­dre era se­du­ta sul don­do­lo nel por­ti­co.

    «Mam­ma!». Dis­si ab­brac­cian­do­la qua­si sol­le­van­do­la da ter­ra!

    «Ro­bert!».

    «Quan­do sei ar­ri­va­ta?».

    «Que­sta mat­ti­na all’al­ba. Vo­le­vo far­ti una sor­pre­sa e por­tar­ti il caf­fè a let­to ma tu non c’eri!».

    «Sì, ero in ospe­da­le!».

    «Già di­men­ti­ca­vo, quel­la è la tua ca­sa… non que­sta! Vie­ni en­tria­mo, ti ho pre­pa­ra­to lo sfor­ma­to di pa­ta­te che ti pia­ce tan­to!».

    En­tram­mo den­tro ca­sa. Con il suo ar­ri­vo mi sem­brò che quel­le pa­re­ti aves­se­ro ri­pre­so co­lo­re e ca­lo­re… sem­bra­va tut­to co­sì bel­lo, co­sì di­ver­so, so­lo per­ché c’era lei. Per la pri­ma vol­ta do­po tan­to tem­po ce­na­vo in com­pa­gnia.

    Par­lam­mo per tut­to il tem­po. Lei mi rac­con­tò de­gli sca­vi in Egit­to che coor­di­na­va e di co­me fos­se­ro sta­ti en­tu­sia­sman­ti i me­si tra­scor­si in Afri­ca.

    Sta­vo aspet­tan­do il mo­men­to giu­sto per dir­le che sa­rei sta­to in­sie­me a lei so­lo per die­ci gior­ni, che avrei la­scia­to gli Sta­ti Uni­ti per an­da­re in Ita­lia, ma era ta­le la sua gio­ia per il rien­tro a ca­sa che non eb­bi il co­rag­gio di dir­le una so­la pa­ro­la. For­se quel­lo non era il mo­men­to giu­sto. De­ci­si di ri­man­da­re al gior­no do­po.

    «E in­ve­ce a te, co­me va?». Mi chie­se guar­dan­do­mi con fa­re in­ve­sti­ga­ti­vo.

    «Be­ne!». Fui trop­po te­le­gra­fi­co e lei se ne ac­cor­se. Mi guar­dò con aria an­co­ra più so­spet­to­sa.

    «Sai dir­mi so­lo que­sto? So­no set­ti­ma­ne che non ci ve­dia­mo e non hai nien­te da rac­con­ta­re?».

    «Sai com’è… so­no sem­pre in ospe­da­le!».

    «Ro­bert… co­sa de­vi dir­mi? Co­sa mi na­scon­di?».

    «Mam­ma, ne par­lia­mo do­ma­ni!».

    «Di co­sa? Par­la per fa­vo­re!». Ave­va as­sun­to l’aria se­ria e au­ste­ra di sem­pre. Ero a di­sa­gio quan­do mi guar­da­va co­sì, mi fa­ce­va sen­ti­re co­me uno dei suoi stu­den­ti pron­to per es­se­re mes­so sot­to il tor­chio dal­la ter­ri­bi­le prof. Eli­sa­be­th Per­ry Ford!

    «D’ ac­cor­do! Va­do in Ita­lia!». Dis­si tut­to d’un fia­to.

    «Da tuo pa­dre?».

    «Si, da lui. Ma non va­do so­lo a tro­var­lo. Ho ac­cet­ta­to l’in­ca­ri­co di ri­cer­ca­to­re nel suo ospe­da­le! È un’oc­ca­sio­ne che non vo­glio per­de­re!».

    «Ma sta­re­sti via per me­si!». Era già pre­oc­cu­pa­ta e peg­gio an­co­ra, con­tra­ria­ta!

    «Mam­ma un’af­fer­ma­zio­ne co­sì non è da te, vi­sto che tor­ni a ca­sa po­chis­si­mi me­si all’an­no! - Fui sar­ca­sti­co e pun­gen­te. - È so­lo per do­di­ci me­si! - Di­ven­ne sem­pre più scu­ra in vol­to. - Per­ché sei co­sì con­tra­ria­ta?! In­som­ma tu sei una don­na abi­tua­ta a viag­gia­re… po­tre­sti ve­ni­re a tro­var­mi!».

    «Ho so­lo pau­ra che una vol­ta a Ro­ma, non tor­ne­rai più da me!».

    «Ma co­sa di­ci? Per­ché mai non do­vrei più tor­na­re ne­gli Sta­ti Uni­ti?». Te­me­va che una vol­ta in Ita­lia, avrei fat­to co­me mio pa­dre an­ni pri­ma.

    «Hai pre­so que­sta de­ci­sio­ne da so­lo sen­za nean­che par­lar­me­ne! Avre­sti po­tu­to aspet­ta­re il mio rien­tro! Po­te­va­mo de­ci­de­re in­sie­me!». Quel­le pa­ro­le mi in­te­ne­ri­ro­no, ma nel­lo stes­so tem­po mi ama­reg­gia­ro­no. Ades­so si in­te­res­sa­va al­le mie scel­te? Ar­ri­va­va con qual­che an­no di ri­tar­do. Ave­vo 29 an­ni or­mai e pren­de­vo le mie de­ci­sio­ni da so­lo già da un po’! Sor­vo­lai sul­la co­sa, non vo­le­vo cer­to fe­rir­la o far­la sen­ti­re in col­pa.

    «Mam­ma, sen­to l’esi­gen­za di fa­re que­sta espe­rien­za e ho vo­glia di an­da­re da pa­pà! Al ter­mi­ne del mio con­trat­to tor­ne­rò a ca­sa! Pro­mes­so!». D’al­tron­de in Ita­lia, a par­te mio pa­dre e qual­che ca­ro ami­co, nes­su­no mi avreb­be trat­te­nu­to.

    «È sta­to lui a con­vin­cer­ti? Ve­ro? Il so­li­to egoi­sta!».

    «No! Non è ve­ro, a lui non l’ho an­co­ra det­to! E poi ti sem­bra co­sì stra­no che ab­bia vo­glia di sta­re un po’ con mio pa­dre?». Ave­vo col­to nel se­gno. Lei te­me­va che non sa­rei più tor­na­to.

    «Ma è que­sta la tua na­zio­ne! È que­sta ca­sa tua! È qui la tua fa­mi­glia!».

    «Qua­le ca­sa? Qua­le fa­mi­glia!? Que­sta ca­sa è sem­pre vuo­ta! Dov’è la mia fa­mi­glia!? Qual è la mia fa­mi­glia?! So­no sem­pre so­lo! A vol­te è co­me se fos­si or­fa­no… e for­se lo so­no!». Mi al­zai bru­sca­men­te da ta­vo­la e an­dai via sen­za dar­le la pos­si­bi­li­tà di re­pli­ca­re.

    Non avrei vo­lu­to dir­le quel­le pa­ro­le, ma pre­val­se il mio do­lo­re di fi­glio, che ave­va vi­sto i ge­ni­to­ri al­lon­ta­nar­si gior­no do­po gior­no, che ave­va su­bi­to il di­spia­ce­re del di­vor­zio!

    An­dai nel­la mia stan­za sbat­ten­do la por­ta. Mi sen­ti­vo ter­ri­bil­men­te in col­pa per quel li­ti­gio! Ave­vo ri­ser­va­to pro­prio un bel rien­tro a mia ma­dre! Ero mol­to av­vi­li­to, non le ave­vo mai par­la­to co­sì, per la pri­ma vol­ta eb­bi il co­rag­gio di dir­le quel­lo che pro­va­vo da tem­po.

    Ma co­me fa­ce­va a non ca­pi­re?

    Le ave­vo det­to la ve­ri­tà … mi sen­ti­vo so­lo e né lei, né mio pa­dre lo ave­va­no mai com­pre­so! Cer­to, non mi ave­va­no mai fat­to man­ca­re il lo­ro af­fet­to, ma for­se quel­lo di cui ave­vo bi­so­gno era so­lo ave­re una fa­mi­glia, co­me tut­te le al­tre!

    Mi but­tai let­te­ral­men­te sul let­to ad­dor­men­tan­do­mi con an­co­ra i ve­sti­ti ad­dos­so. Quan­do suo­nò la sve­glia al­le 06:00, a fa­ti­ca riu­scii ad al­zar­mi e a in­fi­lar­mi sot­to la doc­cia. Non ave­vo vo­glia di an­da­re in ospe­da­le quel­la mat­ti­na, mi sen­ti­vo stan­chis­si­mo.

    Sce­si in cu­ci­na, mia ma­dre non c’era for­se sta­va an­co­ra dor­men­do. Guar­dai sul ta­vo­lo e vi­di che ave­va pre­pa­ra­to la co­la­zio­ne pro­prio co­me fa­ce­va quan­do an­da­vo al li­ceo. Era sua abi­tu­di­ne la se­ra, pri­ma di an­da­re a dor­mi­re, met­te­re le to­va­gliet­te con una cio­to­la di bi­scot­ti al­lo zen­ze­ro e una taz­za di the al­la men­ta, in mo­do da ave­re tut­to già pron­to la mat­ti­na se­guen­te. Se ne era ri­cor­da­ta!

    An­dai in ospe­da­le spe­ran­do di po­ter si­ste­ma­re tut­to al mio rien­tro con cal­ma. Fu una mat­ti­na­ta lun­ghis­si­ma no­no­stan­te le mil­le co­se da fa­re in re­par­to. Guar­da­vo con­ti­nua­men­te il te­le­fo­no spe­ran­do che chia­mas­se, in­ve­ce non lo fe­ce mai! Non ave­va ca­pi­to al­lo­ra?! O for­se era so­lo de­lu­sa e ar­rab­bia­ta, pro­prio co­me lo ero io!

    Co­mun­que avrei do­vu­to af­fron­tar­la di nuo­vo e for­se era me­glio non far­lo per te­le­fo­no. Il mio tur­no sta­va ter­mi­nan­do or­mai, la rab­bia era sbol­li­ta ed ero in­ten­zio­na­to ad an­da­re a ca­sa con l’in­ten­do di chia­ri­re e so­prat­tut­to scu­sar­mi! Ero ar­ri­va­to al­le por­te dell’ascen­so­re quan­do mi sen­tii chia­ma­re.

    «Ciao Ro­bert! Vai via?». Era Emi­ly. Non ci ve­de­va­mo e sen­ti­va­mo da due gior­ni. Ave­va pro­va­to a chia­mar­mi, ma io non le ave­vo mai ri­spo­sto! Non vo­le­vo af­fron­tar­la per dir­le del­la mia par­ten­za.

    «Si ho fi­ni­to! Va­do al pri­mo pia­no. Tu?».

    «Sto an­dan­do al se­sto!». Dis­se lei un po’ im­ba­raz­za­ta e con gli oc­chi lu­ci­di.

    Pren­dem­mo l’ascen­so­re in­sie­me. No­no­stan­te le aves­si det­to che sta­vo scen­den­do al pri­mo pia­no, lei pre­met­te il ta­sto per il se­sto. Mi sen­tii stra­na­men­te sul­le spi­ne. De­si­de­rai ar­ri­va­re al se­sto pia­no il più ve­lo­ce­men­te pos­si­bi­le e poi ri­tor­na­re giù per le sca­le se fos­se sta­to ne­ces­sa­rio. Ma sem­bra­va che qual­che im­be­cil­le si fos­se di­ver­ti­to a pre­no­ta­re l’ascen­so­re che pun­tual­men­te si fer­ma­va a ogni pia­no. Stra­na­men­te non vi en­tra­va mai nes­su­no.

    «Ho sa­pu­to da An­tho­ny che stai pen­san­do di ac­cet­ta­re il po­sto di ri­cer­ca­to­re in Ita­lia!».

    «Ah! Te l’ha det­to!?». Gra­zie tan­te An­tho­ny, sei un ve­ro ami­co! «Avrei vo­lu­to che me lo di­ces­si tu!». Il suo to­no di vo­ce era cam­bia­to.

    «Scu­sa­mi Emi­ly, vo­le­vo far­lo… ma è sta­ta una set­ti­ma­na ter­ri­bi­le e poi noi non ci sia­mo mai vi­sti!». Men­tii spu­do­ra­ta­men­te. Che fal­so so­no sta­to!

    «Tu pe­rò non mi hai mai cer­ca­ta! È una de­ci­sio­ne im­por­tan­te da pren­de­re e lo fai da so­lo? So­no… so­no si­cu­ra che hai già de­ci­so di an­da­re!».

    «Sì, in ef­fet­ti la de­ci­sio­ne è pre­sa or­mai. L’ho già co­mu­ni­ca­to al pri­ma­rio!».

    Si­len­zio. Ci fu im­prov­vi­sa­men­te il ge­lo tra di noi.

    Ma quan­do dia­vo­lo ci met­te­va l’ascen­so­re ad ar­ri­va­re al se­sto pia­no? Emi­ly ave­va ra­gio­ne, non mi ero com­por­ta­to be­ne, ma non ave­vo vo­glia di par­la­re di quell’ar­go­men­to… bru­cia­va an­co­ra il li­ti­gio con mia ma­dre pro­prio per lo stes­so mo­ti­vo e quel­lo non era dav­ve­ro il mo­men­to giu­sto per di­scu­ter­ne!

    «Non mi chie­di di ve­ni­re con te?». La sua vo­ce tre­mò.

    «So che non ver­re­sti mai! Poi, pro­prio ades­so che sei sta­ta mes­sa a ca­po de­gli spe­cia­liz­zan­di!».

    «Si, for­se è ve­ro! - Ab­bas­sò lo sguar­do cer­can­do di ma­sche­ra­re l’evi­den­te de­lu­sio­ne che ave­va­no pro­vo­ca­to le mie pa­ro­le. - Pe­rò sa­reb­be sta­to bel­lo sen­tir­me­lo di­re!». Dis­se qua­si sot­to vo­ce.

    «Emi­ly ascol­ta…».

    «No! Ascol­ta tu Ro­bert! Stia­mo in­sie­me, tra al­ti e bas­si, da qua­si un an­no or­mai, sen­za por­ci al­cun ti­po di con­di­zio­na­men­to e vin­co­lo! Ci sia­mo di­ver­ti­ti e ab­bia­mo con­di­vi­so mol­ti mo­men­ti in­di­men­ti­ca­bi­li, so­prat­tut­to dal pun­to di vi­sta pro­fes­sio­na­le. Pe­rò do­di­ci me­si so­no tan­ti ed io so­no…».

    «Ti pre­go non di­re che sei in­na­mo­ra­ta di me! Non far­lo! Sai che non è ve­ro! Ma ti ascol­ti? Sen­ti quel­lo che di­ci? I no­stri mo­men­ti più bel­li co­me cop­pia… so­no quel­li pas­sa­ti in sa­la ope­ra­to­ria!? Emi­ly! Sì, è ve­ro, ci sia­mo di­ver­ti­ti, ma que­sto cre­di­mi non è amo­re!».

    Emi­ly ab­bas­sò di nuo­vo lo sguar­do ama­reg­gia­ta.

    «For­se hai ra­gio­ne tu, quan­do di­ci che l’amo­re è una so­fi­sti­ca­zio­ne dell’uo­mo, che è so­lo chi­mi­ca… che è un istin­to ani­ma­le­sco, nien­te di più! - Non ri­spo­si. Ave­vo ri­pe­tu­to co­sì tan­te vol­te la mia teo­ria sull’amo­re spe­ran­do che lei non si le­gas­se a me e, pro­prio quan­do an­che lei se ne era con­vin­ta, stra­na­men­te mi sem­bra­ro­no tut­te ca­vo­la­te! - Quan­do par­ti­rai?».

    «Tra die­ci gior­ni!».

    «Be­ne!». Ri­spo­se con un fi­lo di vo­ce, asciu­gan­do una la­cri­ma.

    «Emi­ly… mi di­spia­ce!».

    Le por­te dell’ascen­so­re fi­nal­men­te si apri­ro­no al se­sto pia­no. Lei uscì sen­za di­re una pa­ro­la, si vol­tò e ci guar­dam­mo per qual­che se­con­do… ac­cen­nò un sor­ri­so, poi le por­te si ri­chiu­se­ro e l’ascen­so­re ri­par­tì. La mia sto­ria con lei era de­fi­ni­ti­va­men­te chiu­sa!

    Mi sen­tii stra­na­men­te sol­le­va­to e se­re­no! Ma pro­vai an­che un sen­so di tri­stez­za, non per la fi­ne di quel­la sto­ria, ma per Emi­ly! An­tho­ny ave­va ra­gio­ne, do­ve­va tro­va­re una per­so­na in gra­do di amar­la ve­ra­men­te… non uno co­me me!

    Tor­nai a ca­sa un po’ fra­stor­na­to. Mia ma­dre non c’era per for­tu­na, si­cu­ra­men­te avreb­be vo­lu­to con­ti­nua­re la no­stra di­scus­sio­ne, ed io non ave­vo vo­glia di par­la­re! En­trai nel­la mia stan­za e mi sdra­iai sul let­to, pen­sai al­la mia vi­ta e a quel­lo che sta­vo fa­cen­do. For­se sba­glia­vo ad an­da­re in Ita­lia. Sa­pe­vo che ne­gli ospe­da­li ita­lia­ni la vi­ta di cor­sia era ben di­ver­sa da quel­la ame­ri­ca­na, mio pa­dre me lo ri­pe­te­va con­ti­nua­men­te. Ma nel­lo stes­so tem­po per la pri­ma vol­ta nel­la mia vi­ta ave­vo l’esi­gen­za di an­da­re via, di scap­pa­re. Agli oc­chi de­gli al­tri ero un uo­mo mol­to for­tu­na­to, di buo­na fa­mi­glia, be­ne­stan­te, con un bel la­vo­ro, che ave­va suc­ces­so con le don­ne… ep­pu­re non ero sod­di­sfat­to, non mi sen­ti­vo com­ple­to! Pen­sai a Emi­ly e al­la fred­dez­za con la qua­le l’ave­vo trat­ta­ta. Ma per­ché mi com­por­ta­vo co­sì?

    In fon­do non cre­de­vo nean­che io al­la mia "teo­ria sull’amo­re". Ep­pu­re con­ti­nua­vo a com­por­tar­mi in ma­nie­ra di­stac­ca­ta e fred­da con le don­ne, sen­za strin­ge­re mai le­ga­mi du­ra­tu­ri! Ave­vo la fa­ma del Don Gio­van­ni e que­sta co­sa, che mi ave­va inor­go­gli­to per mol­to tem­po, ini­zia­va a star­mi stret­ta!

    Per un at­ti­mo pro­vai un sen­so di rab­bia e ran­co­re ver­so i miei ge­ni­to­ri. Mi ave­va­no in­se­gna­to e da­to tan­to, ma in­vo­lon­ta­ria­men­te mi ave­va­no tra­sfe­ri­to an­che un al­tro in­se­gna­men­to… con i lo­ro con­ti­nui li­ti­gi, i me­si di lon­ta­nan­za l’uno dall’al­tra e in­fi­ne il di­vor­zio, ave­vo im­pa­ra­to che le fa­mi­glie non re­sta­no uni­te, che l’amo­re tra un uo­mo e una don­na non è per sem­pre, che l’amo­re por­ta so­lo sof­fe­ren­za! Ma­ga­ri la chia­ve del mio com­por­ta­men­to era tut­ta lì, non cre­de­vo nei rap­por­ti du­ra­tu­ri e nell’amo­re, per­ché mi era sta­to in­se­gna­to co­sì. Non sa­pe­vo ama­re per­ché non sa­pe­vo co­me si fa­ce­va ad ama­re ve­ra­men­te una don­na!

    For­se sta­vo sba­glian­do tut­to o for­se no! Ma­ga­ri an­da­re in Ita­lia era l’oc­ca­sio­ne giu­sta per ri­co­min­cia­re dac­ca­po, per cam­bia­re aria! Di si­cu­ro avrei smes­so i pan­ni dell’uo­mo fred­do e in­ca­pa­ce d’ama­re, for­se sa­rei sta­to fi­nal­men­te me stes­so… chiun­que io fos­si!

    3

    Pas­sa­ro­no i gior­ni. Più si av­vi­ci­na­va la da­ta del­la mia par­ten­za, più au­men­ta­va il ner­vo­si­smo e la ten­sio­ne tra me e mia ma­dre! Ero pro­fon­da­men­te mor­ti­fi­ca­to e mi sen­ti­vo ter­ri­bil­men­te in col­pa, so­prat­tut­to per le pa­ro­le che le ave­vo det­to. Si­cu­ra­men­te le pen­sa­vo, ma po­te­vo evi­ta­re di dir­glie­le, non fe­ce­ro al­tro che au­men­ta­re i suoi sen­si di col­pa … co­me ma­dre e co­me mo­glie. For­se non ave­vo ge­sti­to la co­sa nel mo­do giu­sto, ma la de­ci­sio­ne era pre­sa or­mai. Non ero abi­tua­to a tor­na­re sui miei pas­si, do­ve­vo as­so­lu­ta­men­te cer­ca­re di riap­pa­ci­fi­car­mi o sa­rei an­da­to via con un pe­so enor­me sul cuo­re! Non mi ri­vol­ge­va la pa­ro­la da quel­la ma­le­det­ta se­ra e so­prat­tut­to fa­ce­va in mo­do di evi­tar­mi, in pra­ti­ca vi­ve­va­mo nel­la stes­sa ca­sa, ma non ci in­con­tra­va­mo mai ed io ero stan­co di quel ge­lo, non ne po­te­vo più!

    L’oc­ca­sio­ne giu­sta la eb­bi al suo com­plean­no, tre gior­ni pri­ma del­la mia par­ten­za! Sa­pe­vo che quel­la se­ra sa­reb­be usci­ta con la sua ca­ra ami­ca, Gre­ta Pe­ter­son. De­ci­si di sfrut­ta­re la co­sa a mio van­tag­gio e chia­mai Gre­ta per ren­der­la mia com­pli­ce. Na­tu­ral­men­te ac­cet­tò di aiu­tar­mi, pec­ca­to so­lo che fui co­stret­to a sor­bir­mi an­che le sue pa­ro­le di rim­pro­ve­ro, vi­sto che sa­pe­va tut­to del no­stro li­ti­gio! Un giu­sto prez­zo da pa­ga­re tut­to som­ma­to!

    L’ap­pun­ta­men­to che mia ma­dre ave­va con lei era al­le 19:30 nel ri­sto­ran­te ge­sti­to dai fi­gli di Gre­ta al 107° pia­no del­la Tor­re Nord del WTC. Na­tu­ral­men­te al po­sto di Gre­ta ci sa­rei sta­to io; spe­rai che quel­la trap­po­la mi avreb­be da­to l’oc­ca­sio­ne di par­lar­le e so­prat­tut­to scu­sar­mi!

    Ave­vo cu­ra­to tut­to nei mi­ni­mi par­ti­co­la­ri, uti­liz­zan­do per la se­ra­ta tut­to ciò che le pia­ce­va mag­gior­men­te. Pri­ma di tut­to pre­gai Chri­stian, il fi­glio mag­gio­re di Gre­ta, di uti­liz­za­re del­le sto­vi­glie spe­cia­li, le por­cel­la­ne di Li­mo­ges, mia ma­dre le ado­ra­va! A ca­sa ave­va­mo un ra­ris­si­mo e pre­zio­sis­si­mo ser­vi­zio da the del 1800 che non usa­va mai per pau­ra di ro­vi­nar­lo, non lo fa­ce­va toc­ca­re a nes­su­no nean­che al­la do­me­sti­ca quan­do fa­ce­va le pu­li­zie! Bec­cai una pu­ni­zio­ne di un me­se quan­do da ra­gaz­zi­no le rup­pi una taz­zi­na gio­can­do a pal­lo­ne den­tro ca­sa! Mi sen­tii ter­ri­bil­men­te in col­pa per­ché sa­pe­vo che non avrei mai po­tu­to ri­me­dia­re ac­qui­stan­do­lo di nuo­vo, vi­sto che ave­va­no un co­sto a dir po­co proi­bi­ti­vo per un ra­gaz­zo del­la mia età! Per­ciò usa­re le sto­vi­glie di Li­mo­ges era un mo­do per far­mi per­do­na­re per la bra­va­ta di al­lo­ra. Per il re­sto mi af­fi­dai com­ple­ta­men­te a Chri­stian che co­no­sce­va mol­to be­ne i gu­sti di mia ma­dre, vi­sto che spes­so an­da­va nel suo ri­sto­ran­te con Gre­ta.

    Con­ti­nuam­mo a evi­tar­ci an­co­ra, fi­no al gior­no del suo com­plean­no che or­mai aspet­ta­vo con im­pa­zien­za. Quel­la se­ra ar­ri­vai pun­tua­lis­si­mo al ri­sto­ran­te in­dos­san­do il mio com­ple­to gri­gio pre­fe­ri­to! Tut­to era pron­to, Chri­stian ave­va su­pe­ra­to se stes­so, re­stai sba­lor­di­to dall’ele­gan­za e dal­la raf­fi­na­tez­za del no­stro ta­vo­lo, che era im­pre­zio­si­to da un bou­quet di tu­li­pa­ni, i suoi fio­ri pre­fe­ri­ti. In ef­fet­ti la co­no­sce­va pro­prio be­ne!

    Man­ca­va so­lo lei. Ar­ri­vò fa­cen­do­mi aspet­ta­re po­chis­si­mi mi­nu­ti (la pun­tua­li­tà era una co­sa che ci ac­co­mu­na­va!).

    «Ro­bert!». Gli oc­chi le si riem­pie­ro­no di lu­ce!

    «Ciao mam­ma!».

    «Ma co­sa ci fai qui?! - Si bloc­cò per un se­con­do co­me se aves­se già in­tui­to la ri­spo­sta al­la sua do­man­da. - Gre­ta! Lo sa­pe­vo che c’era qual­co­sa sot­to! Non le sa pro­prio di­re le bu­gie!».

    «Di­spia­ciu­ta per lo scam­bio?».

    «No! Te­so­ro mio!». Dis­se af­fet­tuo­sa.

    «Pre­go, ac­co­mo­da­ti!». Le sco­stai la se­dia e si ac­co­mo­dò. An­dai dall’al­tra par­te per pren­de­re po­sto e no­tai che asciu­gò ve­lo­ce­men­te gli oc­chi. Mi sen­tii mo­ri­re, ma nel­lo stes­so tem­po fui con­ten­to. La mia im­prov­vi­sa­ta l’ave­va re­sa fe­li­ce. Mi se­det­ti an­ch’io e la fis­sai

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