Mettici una pietra sopra
Di Anna Nihil
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Anteprima del libro
Mettici una pietra sopra - Anna Nihil
’90.
1
Non scrivo perché voglio, scrivo perché devo. Pare sia l’ultima possibilità che mi sia rimasta. Fino a poche settimane fa andavo da un analista. Va tanto di moda qui a New York. Sia chiaro: non sono il tipo che rincorre le mode. Soprattutto di seguire questa ne avrei fatto volentieri a meno. Ciò che mi aveva spinta dall’analista era stata soltanto pura e assoluta disperazione.
Primo appuntamento, con un certo imbarazzo mi sono sdraiata sul lettino e ho iniziato a parlare. Non riuscivo a crederci nemmeno io. Non ero mai stata tanto loquace in vita mia.
Secondo appuntamento, fiduciosa sono ritornata su quel lettino. Ero sicura di essere a un passo dalla soluzione. Ho iniziato a porre delle domande al mio analista, ma lui sollevava le spalle, scuoteva la testa, faceva il finto tonto. Poi, finalmente, si è degnato di rivolgermi la parola. Invece di darmi almeno una risposta, mi ha posto una domanda: Come sono i rapporti con i suoi genitori?
. Era già capitato che mi chiedessero una cosa simile e avevo sempre saputo rispondere con un fiero sorriso sulle labbra: Dei miei genitori non me ne frega niente
oppure Stiamo bene così, distanti
. Quella volta non andò come al solito. Non dissi una parola. Non ci riuscii, scoppiai a piangere disperata. Sembravo un lavandino con i rubinetti rotti. Non riuscivo a fermarmi. Sarà stata la seconda, al massimo la terza volta che piangevo in vita mia. Ma non ero mai arrivata a quei livelli! Una fontana! Era finito il tempo a disposizione e io ero ancora lì a singhiozzare. Ho lasciato lo studio, ho preso un taxi, sono tornata a casa e nella mia stanza ho ricominciato a piangere per un’altra ora. Mi sono guardata allo specchio e non mi sono riconosciuta. Non mi sono piaciuta.
Terzo appuntamento. Ero agguerrita. Volevo delle risposte, ma lui niente, zitto. Nella mia testa ha iniziato a girare sempre più rapido questo pensiero: Ti ho raccontato molto di me, mi hai vista piangere come una stupida, ti ho dato già un sacco di soldi, devi rispondermi!
. Cavolo, per ogni seduta, lui si prendeva quanto io un tempo guadagnavo in un mese! Una rabbia feroce ha iniziato a impossessarsi di me. L’ho sentita crescere, salire dalle gambe e raggiungere la cima della testa.
È stato allora che non ci ho visto più. Vuole rispondermi o no?!
gli ho urlato. Lui fermo, calmissimo, zitto. Gli ho tirato un pugno in piena faccia. Avrei continuato a massacrarlo, se non avesse chiamato la sua segretaria. Lei è entrata di corsa e ha iniziato a trattenermi le braccia. Mi ha fatto tenerezza, è una brava ragazza, ho deciso di darle retta e di calmarmi. Ho preso al volo la mia borsa e il cappotto: Lei in questo studio non mi rivedrà mai più! È un incompetente!
. Lui, che si stava rialzando aiutato dalla segretaria, appena si è accorto del sangue che gli usciva giù dal naso, ha sgranato gli occhi e mi ha gridato: La rivedrò in tribunale! Le faccio causa!
.
Parla poco il mio ex analista, ma, quando lo fa, mantiene le promesse. Siamo in causa e io, diciamoci la verità, ho scarse possibilità di vincere. Per non rischiare la bancarotta devo evitare altre spese, soprattutto ho deciso di evitare altri analisti. Non voglio aprire cause con tutti gli analisti di New York! E anche loro, dovesse spargersi la voce, non credo che avrebbero molta voglia di incontrarmi!
Eppure io devo fare qualcosa. Sento di stare anche peggio di prima. Mi spaventa tutta questa rabbia che provo.
Mike mi ha regalato questo diario, mi ha detto di scrivere. Mettere nero su bianco i miei sentimenti potrebbe aiutarmi a rifletterci su, a capire dov’è il problema e trovare una soluzione.
Diceva così anche per l’analista e sappiamo come è andata a finire! No, stavolta non volevo proprio dargli retta. Quando sono rimasta sola con questo diario tra le mani, ho notato la dedica che mi ha scritto sulla prima pagina bianca dietro la copertina: Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.
Ho riconosciuto la citazione tratta dal Macbeth di William Shakespeare.
E se lo dice Shakespeare, io obbedisco.
Darò parola al mio dolore, anche se il mio cuore è già a pezzi.
2
Non mi sta puntando una pistola alla tempia, ma quasi. Mike se ne sta lì a fissarmi severo.
Devo scrivere. Non mi lascerà in pace finché non riempirò almeno una pagina. Ma perché non se ne va e mi abbandona come tutti gli altri? Sarebbe così semplice per lui, prendere quella porta e dirmi addio. Cosa vuoi da me, Mike? Cosa ti aspetti? Non c’è niente che possa darti. Avevi creduto in me e ti ho deluso. Nonostante i miei buoni propositi, non sono riuscita ad accontentarti nemmeno con questa cosa del diario/terapia. Ammettiamolo, non può funzionare. Ho finito per comportarmi come quelli che si riempiono la casa di attrezzi sportivi, sicuri di poterli utilizzare più di quanto farebbero in palestra, e invece li abbandonano in un angolo della casa a prendere polvere. Se non fossi venuto a trovarmi, a insistere, questo diario sarebbe rimasto chiuso in quel cassetto. E appena te ne andrai, ci tornerà.
Il punto è che uno, a casa sua, vuole solo chiudere i guai fuori dalla porta e rilassarsi.
Invece, con questo caspita di diario, tu vuoi costringermi a pensarci! Non ne ho voglia.
Voglio solo che mi lasciate tutti in pace.
Quando dormo non ho problemi, è per questo che non ho fatto altro nelle ultime settimane.
Mike continua a stare lì e a guardarmi. Sa che sto per arrendermi. Non voglio deluderlo per l’ennesima volta!
Mi hanno sempre descritta come una ragazza decisa, coraggiosa, sfrontata, adesso sento di non valere nemmeno un decimo di quella che ero. Come riuscivo a stare su un palco a esibirmi davanti a un pubblico? Al solo pensiero, adesso mi vengono i brividi.
Eppure mi piaceva, fino a qualche mese fa io ero… sì, mi definivano un animale da palcoscenico
. Qualche mese? Mi sembra un secolo! È successo tutto così rapidamente… forse è questo quello che dovrei fare. Rivedere tutto ciò che è accaduto, capire dove ho sbagliato, cosa è andato storto. Mettere in ordine la mia vita.
Tutto è cominciato da quelle lingue lunghe dei fratelli Carroll. Una sera, in un pub, attaccarono bottone con un newyorkese in vacanza. Tra chiacchiere e diversi boccali di birra, erano venuti a sapere che il newyorkese era il proprietario del RockRoad66, un locale pazzesco che aveva portato fortuna a diverse star della musica che si erano esibite sul quel palco. Era l’occasione che sognavamo. A Londra stavamo iniziando ad avere un nostro pubblico, ma vuoi mettere New York? Se c’era un posto al mondo in cui i sogni si realizzavano era l’America, la terra delle opportunità! I fratelli Carroll hanno organizzato tutto: hanno invitato il newyorkese ad ascoltarci, gli siamo piaciuti e abbiamo avuto un contratto per quattro mesi e un appartamento dove poter stare. Era un buco lercio quell’appartamento! Ma non ci importava.
Quando siamo giunti a New York ci sentivamo già realizzati, felici come non mai.
Il rumore del traffico spariva quando scendevo le scale ed entravo nel locale. Luci basse, un odore di birra e noccioline nell’aria. Il mio piccolo palco in fondo alla sala. I ragazzi della band subito accordavano gli strumenti.
Appena iniziava ad arrivare gente, tutto prendeva vita. Finalmente aveva senso per noi suonare. Cantavo come se fossi stata già una vera diva del rock. Ci sentivamo forti, invincibili, incredibilmente fortunati a essere lì.
Chi se ne importava se ricevevamo un compenso da fame! Se a breve tutto sarebbe finito! Stavamo vivendo un sogno, un’occasione unica.
Una sera mi si avvicina un tipo. Vecchio, basso e calvo. Però aveva lo sguardo buono e intelligente. Per questo non gli ho risposto in malo modo, come avevo fatto con altri, e ho accettato il suo appuntamento. Niente di romantico, era un incontro di lavoro. Se piacevo al suo capo, forse avrei firmato un