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Garibaldi il corsaro
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E-book443 pagine5 ore

Garibaldi il corsaro

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Info su questo ebook

È il 22 settembre del 1873. Una burrasca notturna fa infrangere sugli scogli dell'isola di Caprera il veliero dell'aristocratico inglese Nicholas Richardson. Il giovane, messosi in salvo, raggiunge una strana costruzione, una sorta di fazenda dipinta interamente di bianco. Sa che qui potrà incontrare un personaggio già entrato nella leggenda, che fin da bambino l'ha sempre affascinato: Giuseppe Garibaldi. Anziano, costretto a muoversi con una carrozzina, l'"Eroe dei due mondi" non ha certo perso il carattere che l'ha accompagnato in tutte le sue imprese. Sollecitato dalla curiosità e dalle domande dell'ospite, Garibaldi si lascia andare a una rievocazione che nulla tralascia e tutto racconta. Una storia che parte dagli uomini principalmente, dal loro sogno di libertà e uguaglianza, dal desiderio disperato di porre fine, in ogni angolo del globo, al dispotismo. Giorni esaltanti e momenti tristi, lutti personali e travagli generali, ogni evento è un tassello di un grande mosaico che spiega, passo dopo passo, i primi decenni del XIX secolo, tra voglia di conservazione e istanze di rinnovamento. E lui, Garibaldi, scappato da Genova nel 1835 per sottrarsi alla morte dopo un'insurrezione fallita, è sempre al centro della narrazione, protagonista assoluto delle battaglie in Sud America, impegnato fino in fondo e al prezzo di mille pericoli a portare il suo ideale anche nei luoghi più sperduti. La sua sete di avventura e giustizia sembra non placarsi mai, neanche dopo l'incontro e il matrimonio con Anita, che anzi diverrà lei stessa guerrigliera e corsara al pari del marito. Un romanzo, il primo di una trilogia incentrata sulla vita di Garibaldi, che ci fa scoprire ancora più a fondo una figura centrale della storia non solo italiana ma mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2020
ISBN9788868512712
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    Anteprima del libro

    Garibaldi il corsaro - Pietro Picciau

    Aforismi

    Prologo

    Caprera, Sardegna, 22 settembre 1873

    «Peppino, hai visite», annunciò senza entusiasmo Francesca Armosino affacciandosi nello studio in penombra del generale. «Un inglese, giovane. Agghindato come un damerino. Dice di aver fatto naufragio.»

    «Per Dio! Dove?»

    «A Punta Galera. Stanotte.»

    «Fatelo accomodare, e dategli dell’acqua fresca! Sarà molto provato.»

    «Aspetta nella sala da pranzo.»

    «Accompagnalo qui. Voglio parlarci subito!»

    Francesca Armosino sistemò il carrozzino di fronte alla finestra che dava sul piazzale alberato della Casa bianca, come tutti chiamavano l’abitazione fatta costruire dal generale in ricordo delle fazendas sudamericane, e uscì.

    Pochi istanti dopo entrò nella stanza un giovane con il viso sbarbato e abbronzato, lo sguardo vivace. Era alto, asciutto.

    «Generale», si fece avanti per nulla impacciato, «sappia che per me è un grande onore essere ricevuto da…»

    «Non resti lì impalato! Si sieda.»

    Colto di sorpresa dai modi spicci dell’uomo sdraiato sul carrozzino munito di scrittoio, dove stavano dei fogli e una penna con il pennino gocciolante d’inchiostro, il giovane accennò un sorriso di circostanza e occupò la sedia accanto alla finestra.

    «Ha quindi avuto una nottata movimentata!», lo interrogò il generale.

    «Un incubo! Sapevo di non essere granché come marinaio. Ebbene, ne ho avuta conferma… Ma quel che conta è poterlo raccontare!»

    «Giusto, ragazzo. Salvare la pelle, prima di tutto.»

    «Lasciate che mi presenti. Il mio nome è Nicholas Richardson, nipote del duca William J. Richardson.»

    «Devo aver conosciuto un Richardson da qualche parte, anni fa… Forse in Inghilterra.»

    «Tenderei a escluderlo, generale.»

    «Per quale ragione?»

    «Alla mia famiglia non sono mai piaciute le rivoluzioni. E neppure chi le combatte. I miei avi per tradizione sono…»

    «E lei? Lei da che parte sta? Con i preti e i despoti o con chi vive in catene?»

    «Generale, lasci che le spieghi. Appena ho capito di aver fatto naufragio qui a Caprera mi sono subito messo alla ricerca della sua casa. Sono corso da voi perché, se posso permettermi una confidenza, lei per me è una leggenda. Con altrettanta onestà debbo dirvi che non saprei se mio padre nutra della simpatia per voi.»

    «Apprezzo la sua sincerità, figliolo. Non si può piacere a tutti. Dico bene?»

    «Ma a Charing Cross e poi a Eton, dove studiavo, c’ero anch’io a rendervi omaggio. Ne ho un ricordo vivissimo. Eravamo in tanti, in quelle giornate, ad applaudirla e a cercare di avvicinarla.»

    «Sì, c’era tanta gente… Che giorni, quelli…»

    «Memorabili, generale. Indimenticabili.»

    «Lei era molto giovane, allora.»

    «Un ragazzo con molti sogni. Poi si diventa grandi e… Sa che lei è stato a lungo l’eroe dei miei giochi?»

    «Mi lusinga…»

    «Generale, la sua visita in Inghilterra nell’aprile del 1864 ha rischiato di fare di me un ribelle.»

    «Sono stato quindi un buon maestro… Lo è poi diventato?»

    «No. Almeno nel senso comune del termine. Confesso però che per venire a vedere il famoso eroe Giuseppe Garibaldi fui costretto a forzare più di una regola…»

    «Immagino…»

    Il generale si accorse che il suo ospite parlava un buon italiano e vestiva con ricercata eleganza. Indossava una giacca corta e larga sopra una camicia di lino bianca con il collo montante e un panciotto dello stesso colore. Gli stivaletti neri alla caviglia erano lucidi e abbinati al pantalone beige a vita alta, lungo fino al polpaccio, con doppia abbottonatura sul davanti.

    «Il suo battello si è quindi sfracellato sugli scogli», domandò con curiosità Garibaldi.

    «Un cutter di amici, credo oramai irrecuperabile. Ho salvato poche cose che ho portato con me.»

    «Potrà essere mio ospite fino a quando sarà in grado di riprendere il suo viaggio.»

    «Le sarò riconoscente.»

    «Ma cosa dice, buon Dio! Siamo ancora capaci di ricevere come si deve degli amici. Tanto più se si trovano in difficoltà.»

    «Ero diretto in Sicilia, per affari. Navigavo al coperto. E non avevo certo intenzione di fermarmi in nessuna di queste isole. Sa che non ricordavo che lei fosse ancora a Caprera?»

    «Vivo, intende dire?»

    Nicholas Richardson arrossì.

    «Non intendevo questo, generale…»

    «I reumatismi fanno più male delle pallottole austriache e francesi. Come può lei stesso osservare mi costringono a stare spesso su questo arnese, ma per il resto sono in buona salute.»

    Garibaldi tolse il suo ospite dall’imbarazzo.

    «Vede quelle lettere accatastate su quel ripiano, alla sua sinistra? Sono soltanto le ultime arrivate. Ne ricevo a sacchi, insieme ai giornali. Ogni settimana il postale che arriva a La Maddalena ne consegna centinaia.»

    «Risponde a tutti?»

    «Ci provo. Prima se ne occupava il mio caro amico Giovanni Basso, nizzardo come me, vecchio compagno d’armi e prezioso segretario. Ora ci arrangiamo.»

    «Ha sempre tanti ammiratori.»

    «Sì, scrivono da ogni parte d’Europa e anche dalle Americhe. Mi chiedono di tutto, m’interrogano su tutto. Credono che possa risolvere i loro guai.»

    «Che genere di guai?»

    «Di ogni tipo: personali, familiari, politici. Gli italiani chiedono più di ogni altra cosa giustizia. A tutti cerco di dare una speranza.»

    L’inglese accavallò la gamba sinistra sopra il ginocchio destro e cambiò discorso.

    «Le manca l’odore della battaglia?»

    Il generale si concesse un lungo respiro, allungò le gambe sul carrozzino e, piegata la testa di lato, posò lo sguardo sul pino che sei anni prima aveva messo a dimora al centro della piazzola su cui si affacciava la Casa bianca.

    «Ho piantato l’albero che vede laggiù, quand’è nata mia figlia Clelia. Quattro mesi fa è venuto al mondo il piccolo Manlio, un regalo benedetto dal cielo. Chi ama la vita è per la pace, come ho detto in Parlamento. Ma il fatto è che sto diventando vecchio, mio giovane amico. Troppo in fretta, per avere ancora certi pensieri.»

    «Questo la rende infelice?»

    «Come può esserlo un uomo che vede gli anni volare, o un agricoltore che aspetta con trepidazione la pioggia che placherà la sete dei suoi campi.»

    C’era malinconia nella voce del generale.

    Nicholas Richardson si accorse soltanto adesso che l’Eroe dei due mondi, come i giornali chiamavano l’uomo che aveva davanti, non aveva gli occhi cerulei ma castano scuro. Eppure i pittori lo ritraevano longilineo e con la barba, i capelli lunghi e biondi, gli occhi celesti. Anche la sua mole, ora che la osservava con attenzione, non era come l’aveva immaginata. Se l’eroe dei suoi giochi era magro e scattante, con la spada e il cappello da pirata, l’uomo che aveva davanti era robusto e pallido, con il volto scavato nonostante la folta barba rossiccia e i radi capelli bianchi. Il generale, con indosso una camicia rossa e pantaloni grigi, gli sembrava triste e stanco.

    Rimase però sorpreso quando il vecchio eroe, alzati gli occhi, gli disse con forza: «Ma se intende sapere se mi senta pronto a combattere ancora per dare la libertà anche a un solo uomo reso schiavo dalla tirannide, ebbene, mio caro amico, ecco il mio cuore disposto alla battaglia, ed ecco la mia mano lesta e decisa a impugnare la sciabola!»

    Seguì qualche attimo di silenzio.

    Il generale pareva essersi placato, mentre nella camera sembrava risuonare l’eco delle sue ultime parole. Il giovane inglese lo guardava con ammirazione, rapito dalla voce ferma ma dolce e armoniosa appena udita.

    Un trascinatore. Questo, pensò Nicholas Richardson, era ancora Garibaldi.

    Nella stanza accanto si sentivano i passi di Francesca Armosino, compagna del generale e madre di Clelia e Manlio. Nel piazzale, tra le pietre e le galline che razzolavano indisturbate sotto il sole, la piccola Clelia canticchiava.

    «Luna, romito, aereo, tranquillo astro d’argento / Come una vela candida navighi il firmamento / E in tua carriera antica segui la terra in ciel…»

    «La sua voce è miele per il mio cuore», sussurrò Garibaldi indicando con l’indice la sua piccola. «Lei e ora Manlio mi donano il piacere della vita, fanno ancora di me l’eterno sognatore nato a Nizza quando ancora Cavour non aveva deciso di barattarla con la Francia.»

    «Posso farle una domanda personale?», chiese l’inglese.

    «Certamente, figliolo.»

    «Sapeva fin da piccolo che sarebbe diventato un eroe?»

    Garibaldi socchiuse gli occhi e si abbandonò a un sorriso.

    «Mio caro amico, cos’è un eroe? Io non so che cosa sia, e non so dare una risposta a questa domanda. Posso solo dire che fin da ragazzo ho ascoltato la voce del cuore e seguito gli eventi che si sono presentati sul mio cammino. Ho sempre cercato di fare il bene, mio e di tutti gli uomini miei simili, ho odiato e combattuto i tiranni e le menzogne dei preti, sono stato e sono repubblicano perché questo è il sistema degli onesti, non imposto dai violenti e prepotenti. Anch’io ho commesso errori, ma involontariamente, per troppa generosità. Sappia che sarò sempre amante della pace, del diritto e della giustizia!»

    «Perché allora, per mare e per terra, ha combattuto tante guerre?»

    «È il modo degli uomini di lottare contro le ingiustizie. Ricordo quel che diceva un generale, tempo fa:¡La guerra es la verdadera vida del hombre!

    «E lei ha creduto a quel generale?»

    Garibaldi allentò il colletto della camicia, guardò il suo giovane ospite e gli occhi gli sorrisero.

    «Troverà la risposta in quel che ho fatto.»

    1

    Nizza Marittima, Francia, 4 luglio 1807

    Rosa Raimondi allargò le braccia tremanti e strinse a sé il bimbo che agitava le manine nell’aria.

    «Eccolo, il mio angelo biondo!»

    Era sfinita per la fatica del parto, e sebbene avesse tanto desiderato avere una femmina, non riuscì a trattenere le lacrime alla vista del piccolo.

    «Non voglio che parta soldato o vada per mare», sussurrò commossa a suo marito Domenico Garibaldi, ritto in piedi accanto al letto. «Speriamo diventi prete… O avvocato.»

    Alla lunga notte di travaglio, finita quando già all’orizzonte del porto Lympia albeggiava, in casa Garibaldi seguì una mattinata di festa. Nell’alloggio al secondo dei tre piani dell’edificio in quai Lunel, preso in affitto dai cugini Felice e Michele Gustavin, mamma Rosa e Domenico, che tutti a Nizza Marittima chiamavano padron Domenico, ricevettero la visita di conoscenti e amici, quasi tutti abitanti nel quartiere popolare sviluppatosi sulla sponda orientale che guardava verso il tratto di mare della Costa Azzurra.

    Non mancarono i compagni di lavoro di padron Domenico, tutta gente che bazzicava nel porto: pescatori, marinai, proprietari di piccole barche per la navigazione costiera. Si brindò con vino rosso della Savoia e furono serviti piatti fumanti di fagot e di tian, miscuglio di fave fresche e di piselli che Domenico aveva imparato a cucinare.

    «Che cresca forte e sano!», brindò Domenico all’indirizzo del suo secondo figlio maschio, addormentato accanto alla madre. «E che viva felice nella nostra città!»

    Nizza Marittima, contea francese da quando la conquistarono le armate rivoluzionarie nel 1792, vantava ventimila residenti e aveva una solida forza attrattiva per molti italiani, liguri in gran parte, ma anche stranieri.

    Già dalla fine del Settecento ricchi inglesi venivano in Costa Azzurra, attratti dalla dolcezza del clima. Non pochi malati di tubercolosi, ritenendo l’aria di Nizza terapeutica, alloggiavano nei quartieri di Magnan e Paillon ma anche della Buffa, sede della Holy Trinity Church, la chiesa anglicana. Da qui si spostavano verso il centro della città camminando lungo i sentieri costieri. Per rendere uno di questi camminamenti meno scosceso, il pastore anglicano Lewis Way aveva raccolto dei fondi e fatto allargare e lastricare la strada che dal Paillon portava alla vieille ville.

    Anche i Garibaldi avevano scelto Nizza per le occasioni che offriva. Primogenito del capitano di mare Angelo Maria, di Chiavari, arrivato con la famiglia in Costa Azzurra nel 1870, Domenico aveva sposato Maria Rosa Nicoletta Raimondi, ligure di Loano, nella Riviera di Ponente, prima di trasferirsi anche lui a Nizza. I coniugi Garibaldi erano gran lavoratori e seguivano distrattamente le vicende politiche nizzarde. Sapevano però che nel Settecento i confini tra la contea di Nizza, possesso dei Savoia, e la Francia erano cambiati più volte: la prima nel 1718, quando Vittorio Amedeo II aveva scambiato il Comune di Le Mas con l’alta valle del Varo, comprendente Entraunes e Saint-Martin-d’Entraunes. La seconda il 24 marzo 1760, quando con la copertura del Trattato di Torino i Savoia avevano ottenuto le zone di La Penna e Guglielmi in cambio della cessione alla Francia di Gattières e della parte destra del fiume Esterone.

    Le vicende del 1789 erano ancora fresche per essere dimenticate. In quel tempo Nizza era un centro controrivoluzionario ma tutto finì il 29 settembre 1792 quando entrò in città l’Armata repubblicana del Midi. Quattro mesi più tardi ci pensò la Convenzione Nazionale a ordinare l’integrazione della contea nei confini francesi e a creare il dipartimento delle Alpi Marittime.

    Sul punto padron Domenico aveva le idee chiare.

    «Con Napoleone staremo meglio che sotto i Savoia!»

    Non era, Domenico, un uomo intraprendente. Né un marinaio facile ad abbandonarsi alle fantasie. «Mangi se lavori, tutto il resto sono parole e vento…»

    Era semplice, metodico, cauto. Seguiva poco la politica, sebbene conoscesse le idee laiche e libertarie provenienti da Parigi.

    Amava il mare, padron Domenico, ma sapeva di doverne diffidare.

    «Quando meno te lo aspetti ti tradisce», sosteneva lasciando trapelare ogni volta la sua inquietudine quando intavolava certe discussioni con pescatori e marinai, seduti accanto alle reti sul vecchio molo di fronte a casa.

    Non aveva il pallino degli affari. Tantomeno – Rosa lo sapeva bene – covava nel suo animo la crepitante energia che trasforma un marinaio in corsaro.

    «Quelli alla fine li impiccano tutti…»

    Padron Domenico sapeva però navigare, e conosceva come le sue tasche le riviere di Levante e di Ponente e perfino della vicina Catalogna. Con la sua tartana, piccolo veliero da carico e da pesca, trasportava le solite merci, dall’olio agli agrumi, senza mai osare di arrischiarsi sulle acque poco sicure dell’Atlantico e in quelle oltre il mar di Sicilia, in direzione della Grecia.

    Come Rosa, anche padron Domenico era credente, prova ne era il vessillo di san Giorgio che aveva issato sull’albero del suo legno da carico. Lo salutava ogni mattina facendosi la croce, secondo le migliori abitudini di un uomo pio, rassegnato ad accettare quel che la vita gli donava.

    Ma anche i marinai timorosi di Dio, senz’altro orizzonte che non fossero il Creatore e la famiglia, sono esposti alle bizzarrie del mare.

    Quando padron Domenico, dopo un lungo periodo di navigazioni nel Mediterraneo al servizio di piccoli armatori nizzardi, acquistò un’imbarcazione di quasi trenta tonnellate, sperimentò a sue spese non soltanto i pericoli ma anche i contraccolpi economici di un naufragio.

    La Santa Reparata, come Domenico aveva chiamato il veliero in onore della patrona di Nizza, affondò durante una burrasca e l’avvenimento ebbe l’effetto di una mazzata per le sue finanze. Lo rese ancora più guardingo sui rischi della navigazione.

    Ma l’affondamento della Santa Reparata doveva ancora avvenire quando Rosa partorì la seconda volta.

    Nel pomeriggio dello stesso sabato 4 luglio, quando la levatrice, nonno Angelo e il suo amico ex prete Honoré Blanqui si prepararono per andare in Municipio a registrare la nascita, la donna chiamò suo marito e, ancora stremata, decise.

    «Chiameremo nostro figlio Giuseppe. Anzi, Giuseppe Maria.»

    Padron Domenico non si oppose. Il nome scelto da mamma Rosa, subito modificato in Peppino, gli sembrò appropriato. Avrebbe completato con Angelo, il nome dato al loro primo figlio avuto tre anni prima, il quadretto evangelico della famiglia Garibaldi.

    A differenza del marito, Rosa aveva un carattere dolce e una natura protettiva. Originaria della Savoia, era generosa e certo molto più espansiva di Domenico. Ne diede una dimostrazione proprio quando, anni dopo la nascita di Peppino, colò a picco la Santa Reparata, fatto che gettò la famiglia Garibaldi nella più cupa disperazione.

    «Domenico, ringraziamo Dio: potevi finire anche tu in fondo al mare. Apriremo una bottega! Vedrai, il commercio ci aiuterà a tirare avanti.»

    Rosa aprì nella zona del porto una piccola rivendita di generi vari ma, non essendo del mestiere e occupando più tempo ad assistere i malati del circondario e a distribuire bevande e cibo caldo ai marinai e agli operai senza lavoro, l’impresa familiare non decollò mai del tutto.

    Per il battesimo del piccolo Giuseppe, Rosa scelse la chiesa di San Martino, dove andava spesso a recitare il rosario. La parrocchia era tra le più importanti della città vecchia, sviluppatasi tra il torrente Paillon e il dedalo di stradine polverose e poco illuminate che digradavano verso il mare.

    Il rettore Pio Papacin accolse i Garibaldi, nota come famiglia di onesti lavoratori, con affetto.

    «Giuseppe è un dono del Signore», disse ispirato il religioso, prima del saluto di rito e della breve omelia, rivolgendosi a Rosa e Domenico e ai padrini Giuseppe e Giulia Garibaldi. «Che sia benedetto e viva con onestà!»

    Subito dopo la cerimonia Rosa tornò in quai Lunel, mentre padron Domenico deviò con pochi invitati al caffè di place des Herbes, molto meno caro dell’Américan e del Royal, frequentati dai nobili e dai borghesi, come testimoniavano le carrozze ferme in attesa davanti ai locali.

    Ebbro di gioia, il marinaio alzò il bicchiere e bevve con gli amici, certo in cuor suo di condividere con Rosa un’identica convinzione: Peppino un giorno sarebbe diventato un probo uomo di chiesa o un saggio uomo di legge.

    A Nizza non successe niente per i seguenti quattro mesi. Tranne un avvenimento mondano, in prossimità dell’inverno: l’arrivo in città di Paolina Borghese, sorella dell’imperatore Napoleone Bonaparte.

    La notizia che la principessa, nonché duchessa di Guastalla, avesse preso alloggio con la sua numerosa corte nella vieille ville fece in fretta il giro di tutte le case e diventò di dominio pubblico nei centri della Provenza.

    I pettegolezzi, che non mancavano mai quando di mezzo c’era l’avvenente e infedele moglie del principe romano Camillo Borghese, diventarono oltremodo piccanti quando si seppe che Paolina, ricorrendo alla sua nota disinvoltura in fatto di amori, aveva messo da parte il suo segretario e accompagnatore, il pittore e scrittore provenzale Louis de Forbin.

    Il rimpiazzo non tardò a manifestarsi. Fu il direttore d’orchestra torinese Felice Blangini, che i nizzardi videro seduto accanto all’affascinante principessa nella bella carrozza bianca trainata da quattro cavalli che una domenica mattina sfilò come una cometa nella passeggiata di fronte al mare.

    A Nizza l’affascinante principessa rimase fino all’aprile del 1808. Oltre a prendere lezioni di canto e pianoforte dall’amante Blangini, si dedicò anche a qualche piccolo viaggio nel circondario.

    Un giorno, desiderosa di rivedere il castello Salé dove abitò con la madre, i fratelli e le sorelle dopo l’assedio di Tolone, pretese di essere accompagnata ad Antibes via mare.

    «Che ricordi, a Salé…», confidò alla sua dama di compagnia. «E quello Junot! Audace quasi quanto Frénon…»

    Pur con qualche difficoltà fu accontentata.

    Ad accogliere la corte, stipata su un battello, convenne nel porto spazzato dalla tramontana una folla meravigliata dall’insolito e rumoroso arrivo. Tanto affetto fu ricompensato dai saluti della capricciosa e volubile nobildonna.

    Le giornate di Paolina a Nizza furono interrotte quando il marito fu nominato governatore generale, incarico che obbligò il principe a trasferirsi a Torino.

    Il 13 aprile Camillo Borghese raggiunse Nizza e, cinque giorni dopo, ripartì con la consorte.

    «Torniamo a Torino, mia cara!»

    Anche la partenza dei principi rappresentò per i nizzardi un avvenimento fuori dall’ordinario. Il lungo convoglio fece accorrere nella via principale della città centinaia di curiosi, ammirati dall’esibizione di tanto sfarzo, che comprendeva una serie sproporzionata di lacchè in livrea, bianche carrozze con postiglioni, tirate ciascuna da quattro cavalli, e una teoria interminabile di bauli.

    La vicinanza del porto con le sue attrattive fu per Peppino ancora bambino una calamita irresistibile. Lo era forse quanto la vista delle belle carrozze che attraversavano le strette stradine del centro di Nizza o i boschetti del circondario, ricchi di mandorli e fichi, frutto di cui il piccolo Garibaldi divenne ghiotto. Certo è che Domenico e mamma Rosa faticarono fin da subito a tener testa al loro figlio. Mentre Angelo non dava problemi particolari – era ombroso e caparbio, Rosa giunse per un attimo anche a dubitare della sua perspicacia – Peppino era un piccolo demonio. Difficile stargli dietro. Era instancabile e creativo nei giochi. Non amava stare dentro casa. Preferiva attardarsi in strada o nelle banchine del porto dove, nelle giornate di burrasca, erano ormeggiati i pescherecci. Ed erano i pescatori, quasi tutti amici di suo padre, che interrogava sulla vita dei navigatori e sui misteri nascosti nei mari lontani.

    «Peppino fa bricconate, ma è buono», raccontava Rosa a Domenico quando questi, di ritorno dai suoi viaggi, s’informava sui progressi dei figli.

    Il fatto era che Peppino pensava ai giochi mentre padron Domenico e mamma Rosa già si preoccupavano di imbrigliarne l’energia indirizzandola sui libri.

    Decisero molto presto di affidarne l’educazione scolastica a due maestri, con la speranza che questi, dopo avergli insegnato a far di conto e ad amare le lettere, lo indirizzassero al seminario.

    «Don Giaccone è un nostro caro amico e gli insegnerà la grammatica e la sintassi», ragionava mamma Rosa con Domenico, «mentre il signor Arena lo renderà padrone dell’italiano, della storia e della matematica.»

    La scelta di Rosa e Domenico sembrava ben ponderata. Poggiava su una solida consapevolezza.

    «Né io né te, Domenico, saremo mai capaci di trasformarci in bravi precettori.»

    Padron Domenico sapeva che la sua attività lo costringeva a stare a lungo fuori di casa e che anche lui, come gran parte dei marinai suoi amici, mai avrebbe potuto immaginare per Angelo e Peppino, e per gli altri figli che contava di avere, un’educazione che prevedesse insegnamenti stravaganti come le lettere e la storia ma anche la scherma o la ginnastica.

    «Scherma e ginnastica sono roba da ricchi, Rosa. Noi non possiamo permettercelo.»

    Ma anche senza insegnanti il piccolo Peppino di scherma cominciava a intendersi. Giocare ai pirati era la sua predilezione. Quando sfuggiva al controllo di Rosa e del fratello Angelo, che invece sui libri ci stava senza protestare, andava a nascondersi tra gli scogli e a rotolarsi nella sabbia del porto, trasformando le reti stese ad asciugare e le barche tirate a secco dai pescatori in uno scenario perfetto per le sue fantasiose scorribande corsare.

    L’obiettivo dei Garibaldi si stava però delineando con chiarezza: di Peppino ne avrebbero fatto un prete, e affidarsi agli insegnamenti di don Giaccone, uomo di chiesa e di lettere, sembrava la via più sicura ed economica.

    Come ogni mamma affettuosa con il proprio figlio, Rosa adorava Peppino. Era un bambino delicato e ispirava tenerezza. Cresceva in modo armonioso ed era sano e di corporatura robusta.

    All’età di sette anni successe un fatto che confermò a mamma Rosa quanto Peppino fosse sensibile e amasse gli animali. Una sera lo trovò in camera sua che si disperava.

    «Ho spezzato una zampetta a un grillo, ma non l’ho fatto apposta!», piangeva Peppino. «Volevo soltanto portarlo a casa…»

    Il bambino aveva una buona indole e una luce speciale nello sguardo. I capelli biondi gli scendevano sul collo e, altra caratteristica che mamma Rosa colse in suo figlio, Peppino aveva una voce melodiosa, e sapeva parlare con calma. Riusciva anche a essere persuasivo.

    «Mamma, sei così bella…»

    Utilizzava l’arma seduttiva anche quando chiedeva ai pescatori giù al porto di farlo giocare nelle loro barche.

    «Fatemi contare le cime…»

    Peppino sceglieva i velieri più grandi e, immaginandosi un corsaro, si arrampicava agile e saltava sulle sartie senza provare la minima paura.

    «Pirati, seguitemi!»

    Quando non impugnava a dovere i cordami si spellava le mani e certi lividi, a mamma Rosa, non sfuggivano. Ed erano rimproveri.

    Peppino imparò presto a nuotare. La pratica lo fortificò. Anzi, diventare un esperto nuotatore lo portò ad avere un singolare sprezzo della paura.

    «Un pirata non teme le tempeste e rischia la vita per salvare i compagni finiti in mare!», urlava sporgendosi pericolosamente dai pescherecci ormeggiati di fronte a casa.

    Un pomeriggio, all’età di otto anni, rientrò a casa a capo chino. Era bagnato dalla testa ai piedi, pronto ad affrontare una nuova sfuriata di sua madre.

    «Ho salvato una lavandaia! Io, da solo…», disse anticipando uno scappellotto di Rosa.

    Per vincere l’incredulità della mamma, incline alla benevolenza ma anche sospettosa, si prodigò in particolari su quanto gli era capitato mentre rientrava con suo cugino da una battuta di caccia lungo il fiume Varo.

    «Mi sono fermato sull’orlo di un fosso, dove le donne si ritrovano per lavare i panni. Una poveretta, non so perché, è caduta con la testa in giù e io mi sono subito gettato in acqua!»

    «Ma era pericoloso, Peppino. Tu sei ancora un bambino…»

    «Dovevo lasciarla lì, a morire? Quella donna ora sta bene. Ma io mi sono tutto bagnato…»

    Non era un bimbo fifone, Peppino. Per la sua età era fin troppo esuberante. Rosa era fiera che avesse questa qualità, sebbene dai giochi fuori di casa suo figlio rientrasse spesso con i pantaloni e la camicia stracciati.

    «Sei la mia disperazione!», si sgolava Rosa, raddolcendosi subito dopo davanti allo sguardo affettuoso del figlio.

    Peppino amava anche la caccia.

    «Mamma, le valli sotto il Mongrosso sono piene di pernici…»

    In fondo era la stessa Rosa a insegnare al figlio l’audacia e la generosità.

    «Peppino, fare del bene al prossimo rende persone migliori: non dimenticarlo mai.»

    Rosa, poi, non si limitava alla predica. Appena poteva dava dimostrazioni pratiche di quanto sosteneva a parole: pur svolgendo i suoi compiti di madre e casalinga, esercitava la misericordia con i poveri e i malati del quartiere. Pregava, ma non si sentiva una bigotta. I rosari in parrocchia facevano parte della sua osservanza di buona cristiana, che comprendeva prima di tutto l’educazione dei figli.

    Proprio per dare ad Angelo e a Peppino l’esempio, Rosa si teneva aggiornata sugli avvenimenti che interessavano Nizza e i dintorni. Non era raro, anche quando Domenico rientrava a casa con il magro risultato del suo girovagare con la tartana, trovarla con un romanzo di Walter Scott in mano.

    «Peppino, leggi e studia. Don Giaccone e il signor Arena ti daranno la conoscenza necessaria per andare avanti nella vita.»

    Don Giaccone, di suo, ci mise tutta la forza, la pazienza e la volontà possibili. Ma Peppino non si mostrò altrettanto assiduo e diligente nello studio. Rientrava a casa ogni volta stanco e sudato per aver giocato in spiaggia o aver rincorso con i suoi amici, scapestrati come lui, le carrozze dei signori che sfrecciavano nelle strade della vieille ville e raggiungevano la Terrasse.

    Mentre il signor Arena, reduce dalle guerre napoleoniche e anche lui vecchio amico di famiglia, riusciva a interessare Peppino sulla storia romana, la poesia epica e i testi classici, il povero don Giaccone faticava non poco a convincere il suo allievo che anche la grammatica latina, come la lingua francese, erano strumenti preziosi per diventare qualcuno nella vita.

    Forse ispirato dalle gesta degli eroi incontrati nei testi classici mandati per buona parte a memoria, ma più probabilmente per sfuggire a un futuro di prete che padron Domenico e mamma Rosa gli stavano cucendo addosso, un giorno Peppino – aveva appena compiuto dodici anni – fece una proposta mirabolante ad alcuni suoi amici.

    «Fuggiamo a Genova! Lì cercheremo un imbarco come mozzi.»

    «E dove andremo?»

    «All’avventura! Ci sono tanti bastimenti che vanno in America.»

    Cesare Parodi, Raffaele De Andreis e Celestino Bermaund non avevano bisogno di pretesti per tentare la fortuna. Anche loro rischiavano di essere avviati dalle loro famiglie alla vita ecclesiastica.

    «Meglio marinai che preti!»

    Come Peppino, che elessero capo del gruppo, amavano il rischio.

    «Ma bisogna organizzare tutto, per essere sicuri di farcela…»

    Peppino, che nella cerchia di amici che bazzicava nella zona del porto era sempre considerato una guida, non avrebbe derogato proprio adesso alla sua regola, che ripeté come monito ai tre amici: «Mai intraprendere un’avventura senza avere la certezza della vittoria!»

    Quale fosse questa vittoria rimaneva sempre un prospettiva vaga.

    Gli aspiranti fuggiaschi passarono dalle parole ai fatti. Una mattina poco dopo l’alba s’impadronirono di un battello, v’imbarcarono un po’ di viveri, dell’acqua e attrezzi per la pesca acquistati con i loro risparmi e salparono verso levante.

    «A Genova!»

    Navigarono tranquilli e felici per un buon tratto. Giunti in vista di Monaco, l’amara sorpresa. Un veliero stava procedendo verso di loro.

    «Corsari!», disse Peppino aguzzando la vista.

    Era suo padre.

    Informato da un amico abate, testimone involontario della partenza del figlio e dei suoi compari, padron Domenico aveva trovato una barca più veloce della sua tartana e in breve aveva raggiunto i fuggiaschi.

    «Sciagurati! Tornate subito indietro!»

    Nell’alloggio al secondo piano di quai Lunel il giovane Garibaldi scoprì quel giorno due cose: che anche mamma Rosa poteva arrabbiarsi e dare qualche sberla a suo figlio, e che dei preti non bisognava fidarsi.

    «Ci ha traditi un abate, è lui che ha fatto la spia…», confidò Peppino avvilito e con l’animo ferito agli amici, anche loro ricondotti a casa dopo il fallimento della fuga verso Genova.

    2

    Peppino Garibaldi era nato quando Nizza Marittima apparteneva alla Francia. Ma nel 1814 il Buon Governo piemontese, come era chiamata a Torino l’amministrazione sabauda, era tornato in possesso della città. Dopo la campagna di Russia la stella di Napoleone non riluceva più e il 30 maggio di quell’anno, sui muri di tutta Nizza, era apparso un proclama dal contenuto inequivocabile, firmato dal conte Dubouchage, per dodici anni prefetto francese: annunciava l’heureux changement, il felice cambiamento di sovranità.

    Nizza era tornata tra i possedimenti del Regno di Sardegna.

    I mutamenti non mancarono. Nelle scuole il liceo di impronta napoleonica fu sostituito dal Collegio reale, affidato ai gesuiti. Fu anche imposto l’immediato ritorno all’insegnamento

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