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Il lato sbagliato del cielo
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E-book310 pagine4 ore

Il lato sbagliato del cielo

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Info su questo ebook

Rainer è un giovane soldato delle SS. Di stanza a Varsavia viene ferito da un ordigno e inviato, dopo la convalescenza, come guardiano nel lager di Flossenbürg. E qui il destino vuole che incontri Lucjan, giovane prigioniero, che proprio nella città polacca è stato autore del suo ferimento. Sarà lui a ricordargli, in un momento di profonda sfiducia e amarezza, che in quei frangenti era stato un eroe e aveva salvato un bambino. Rainer non ricorda l'episodio, ma il partigiano sì, e questo basta perché ai suoi occhi diventi una sorta di angelo custode. Giorno dopo giorno, tra i due, nasce un sentimento di rispetto che si tramuta in amicizia e, quando Lucjan finalmente riesce a fuggire, Rainer viene incaricato insieme ad altri soldati di catturarlo. Sarà il momento della svolta. Rainer dovrà finalmente decidersi da che parte stare, se continuare ad appoggiare un regime assassino e crudele oppure schierarsi dalla parte dei giusti.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2021
ISBN9788868513504
Il lato sbagliato del cielo

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    Anteprima del libro

    Il lato sbagliato del cielo - Laura Baldo

    sbagliato

    Parte prima – La Caduta

    (le mille diramazioni dell’Inferno)

    At once, as far as Angels ken, he views

    the dismal situation waste and wild.

    A dungeon horrible, on all sides round,

    as one great furnace flamed; yet from those flames

    no light; but rather darkness visible

    served only to discover sights of woe,

    regions of sorrow, doleful shades, where peace

    and rest can never dwell, hope never comes

    that comes to all

    john milton, Paradise Lost

    Il caos significa respingere tutto ciò che si è appreso,

    significa essere se stessi…

    e.m. cioran, Sommario di decomposizione

    1.

    Demoni, dannati e angeli distratti

    Flossenbürg, Germania, metà gennaio 1945

    Anche gli angeli caduti, mentre giacciono nel fango, possono ancora contemplare la gloria delle stelle, e pensare che un giorno vi faranno ritorno. La frase rimbalza per la mente di Rainer fin da quando si è alzato, per quanto si sforzi di ricordare da dove provenga. Gli pare che appartenga alla sua infanzia, a uno dei libri illustrati di suo fratello, o forse a uno dei sermoni di Padre Brandt, le ultime volte che è stato in chiesa.

    Scrolla le spalle, e un alito gelido gli si infila nel colletto dell’uniforme, facendolo rabbrividire e sbattere con forza le palpebre. Torna a mettere a fuoco il campo davanti a lui, che mostra da solo tutta l’insensatezza di quella frase. Lui ha visto le stelle cadere a una a una, ogni stella un angelo, ogni stella un frammento della bontà del mondo che svanisce. Finché non è calato il buio, e non è rimasto alcun paradiso a cui tornare.

    Rainer Fiehler ha 22 anni. Li ha compiuti a settembre dello scorso anno, in un ospedale militare, una settimana dopo l’esplosione di una granata.

    È Oberscharführer, sergente maggiore, nelle Waffen-ss. Un grado che si è guadagnato sul campo, in tre sanguinosi anni sul fronte orientale.

    La sua altezza raggiunge a stento i 170 centimetri richiesti dall’arruolamento; ha lineamenti minuti, capelli biondi e occhi blu, come un cielo estivo ma un po’ offuscato. Da piccolo, sua madre lo chiamava Il mio angelo.

    Ed è più o meno così che, a sua insaputa, hanno preso a chiamarlo i prigionieri: angelo della morte. Non perché l’abbiano mai visto uccidere qualcuno, ma perché ha sempre un’aria assente, distaccata, quasi ultraterrena. Un po’ come gli angeli marmorei dei cimiteri. Un angelo in incognito dietro un teschio sul berretto e una costellazione di cicatrici. Un angelo con ali bruciate dal fuoco di incendi lontani, finito chissà come all’inferno. Magari inviato da un dio indifferente a raccogliere le loro anime, o ciò che ne resta.

    Ma Rainer non ricorda di aver avuto delle ali, non ricorda i cieli estivi che un tempo erano nei suoi occhi. Non si sente affatto un angelo. Se ha un’aria distante è solo perché vorrebbe essere da un’altra parte.

    E in qualche modo è già così: a volte si deve sforzare per ricordare dov’è o cosa sta facendo. Vive in una sorta di nebbia grigia, soffocante eppure confortevole, gemella della coltre di gelo fumoso che avvolge le colline. La sua memoria fa spesso cilecca, e a lui sta bene così. Dà la colpa alla granata, che gli ha quasi portato via la gamba sinistra e l’ha lasciato incosciente per giorni. La verità è che ciò che si agita negli angoli bui della sua memoria ha artigli d’acciaio e canini avvelenati, ed è più sicuro lasciare che dorma.

    Da circa due mesi Rainer fa la guardia al campo di concentramento di Flossenbürg, in Baviera, a una manciata di chilometri dal confine boemo. Appena dimesso dall’ospedale l’hanno trasferito qui, perché oramai non è più utile al fronte. Gli hanno ricucito le varie ferite, sistemato in qualche modo la gamba, ma è chiaro che non correrà mai più. A stento cammina, zoppicando.

    L’inverno da queste parti è aspro e interminabile, si aggrappa con dita uncinate alle colline boscose, al terreno gelato delle cave di pietra, al filo spinato merlettato di brina. L’alba si fa strada a fatica in una bassa foschia, che sfiora con lingue gelide le cime spolverate di neve degli abeti e taglia fuori gli uomini dal cielo.

    Lentamente, i dannati emergono dalle ombre tra le baracche, in un silenzio grigio e pesante quanto i loro volti. Qualcuno si attarda, e un sorvegliante sollecito lo incoraggia ad andare più svelto, con l’ausilio di fruste e manganelli. Si riuniscono tutti nella piazza dell’appello, calpestando la neve già sudicia, anche quelli morti durante la notte, trasportati dai compagni e disposti in file ordinate a fianco ai vivi.

    Oggi c’è un gruppo nuovo, un centinaio. Quasi ogni giorno oramai ne arrivano di nuovi. Molti proseguono per Dachau o Mauthausen, o verso i campi più piccoli, come Hersbruck; quelli che invece restano si schiacciano in ogni buco libero delle baracche stracolme.

    Dagli altoparlanti risuona la Polonaise in re maggiore di Beethoven, le squadre di lavoro si avviano. Alla fine rimangono solo i nuovi. Gli sguardi guizzano attorno, smarriti o ansiosi, mentre il Lagerführer, comandante in capo della sicurezza del campo, tiene il suo discorso di accoglienza. Lo stesso a ogni gruppo, da quando Rainer è qui. E, come per gli altri gruppi, quasi nessuno parla tedesco abbastanza bene da capire quel che dice.

    Gli uomini raccolti lì davanti sono di almeno dieci nazionalità diverse, i più provenienti dai campi dell’est smantellati, mentre altri sono civili o membri della resistenza rastrellati durante la ritirata tedesca. Si riconoscono alla prima occhiata quelli che non vengono dai campi, perché hanno ancora gran parte della loro carne addosso, sotto gli informi cenci a strisce.

    Perlopiù evitano di guardare Rainer e i suoi colleghi, schierati intorno al Lagerführer. Quest’ultimo seguita con i suoi latrati, emettendo sbuffi di vapore che si condensano sul colletto inamidato dell’uniforme.

    Rainer lascia vagare gli occhi distratti sui prigionieri, che si affrettano a distogliere i loro. Uno però, di quelli più robusti e sani, incrocia il suo sguardo e lo sostiene.

    Lucjan Krasinski ha 17 anni. Li ha compiuti due giorni dopo Natale, sul convoglio di metallo sovraffollato che l’ha portato qui. Quel giorno è passato senza che lui se ne ricordasse. Sua madre non l’avrebbe dimenticato, nemmeno in una simile situazione. Lei però è rimasta da qualche parte sotto le macerie fumanti di Varsavia.

    Il resto della sua famiglia si è disperso anni prima: una sorella lontana, un fratello con la resistenza, uno zio sparito chissà dove. Lucjan è rimasto a casa per proteggere sua madre, ma quando la città è insorta ha imbracciato le armi come gli altri, anche più giovani di lui, e ha imparato a combattere.

    Ha commesso però diversi errori: ha lasciato sola sua madre nel momento sbagliato; ha anche lanciato una granata nel momento sbagliato, mentre un bambino sbucava in un vicolo ingombro di macerie. Soprattutto, dopo essere riuscito a fuggire, si è fatto catturare qualche settimana più tardi, insieme ad altri che, come lui, alla resa della città avevano scelto di mescolarsi agli sfollati civili per continuare a combattere, anziché seguire il grosso dell’Esercito Nazionale nei campi per prigionieri di guerra.

    È così che, una decina di giorni fa, è arrivato qui all’inferno, anche se lui non pare ancora rendersi conto di dove si trova. I suoi occhi sono grigi come le gelide pianure della sua patria, ma niente li offusca. Sono limpidi e attenti, come lame appena lucidate, o fari che fendono la nebbia. I capelli scuri, mossi e ispidi, ora non si vedono perché glieli hanno rasati a zero, lasciandogli anche dei piccoli tagli che gli tirano la pelle; non osa però togliere il berretto per grattarsi. È forse un po’ basso per la sua età, ma ha un fisico robusto, che le settimane di prigionia non hanno ancora iniziato a intaccare. Nella divisa da prigioniero di diverse taglie più grandi, con un triangolo rosso cucito sopra e una grossa P di Pole, sembra però un bambino con il pigiama del padre.

    È circondato da file e file di altre anime perse come lui, in piedi da più di un’ora tra le spirali taglienti del vento. Con discrezione, ritira un po’ di più le mani all’interno delle maniche, che gli arrivano fin sulle unghie; muove appena le dita dei piedi, che si stanno congelando negli zoccoli di legno impantanati nella neve fangosa.

    Quando incrocia lo sguardo della ss, ha un piccolo sussulto e non riesce a distogliere gli occhi dal giovane.

    Rainer è infastidito da questa inattesa audacia. Il discorso dell’ufficiale diviene un ronzio indistinto nel suo orecchio, l’unico ancora buono, mentre la sua attenzione si fissa su Lucjan. Lo sguardo del ragazzo polacco stranamente non contiene odio, né sfida, eppure c’è comunque un’emozione, qualcosa che non riesce a decifrare e che lo disturba.

    Il motivo per cui ne è infastidito non è, come si potrebbe pensare, che il prigioniero non mostra la dovuta sottomissione. Forse sarebbe così nel caso del caporale Otto Scholz, che avremo il dubbio piacere di conoscere in seguito. Ma per Rainer la questione è più semplice, e insieme più complessa: qualsiasi cosa che spezzi la monotonia delle procedure, costringendolo a fissare la sua attenzione, a vedere, è una minaccia al suo precario equilibrio, al sottile filo di nebbia su cui cammina, sotto il quale sono in attesa le nere fauci spalancate della follia.

    Vorrebbe andare là e colpire Lucjan, fino a fargli abbassare quegli occhi. A trattenerlo è la consapevolezza che il Lagerführer sarebbe irritato per l’interruzione, o il timore che possa ripetere il discorso da capo.

    Ora l’ufficiale sta spiegando che i prigionieri verranno affidati ai vari Blockführer, i sottufficiali a capo delle baracche cui sono destinati. Il gruppo si divide e inizia a disperdersi, e lo sguardo del ragazzo polacco torna a confondersi nel mucchio.

    2.

    Piume bruciate e schegge di granata

    Varsavia, settembre 1944

    I combattimenti durano da quattro settimane. L’aria è resa rovente dalle vampe degli incendi. Macerie di cemento e metallo ostruiscono i vicoli, il fumo nero e oleoso ostruisce il cielo.

    L’Esercito Nazionale clandestino è insorto contro l’occupazione tedesca, confidando nell’aiuto degli Alleati e dell’Armata Rossa, che si trova oramai a qualche chilometro a est della città, oltre la Vistola. I russi però, che contano di instaurare in Polonia un governo filosovietico, interrompono l’offensiva poco dopo l’inizio della rivolta, e gli scarsi rifornimenti inglesi, che riescono ad arrivare, non fanno molta differenza. Varsavia è abbandonata a se stessa.

    Settimana dopo settimana i difensori, in netta inferiorità di uomini e armi, sono stati costretti a cedere buona parte della città, ridotta oramai a un cumulo di rovine: palazzi, chiese, ospedali, tutto è stato raso al suolo e bruciato dai raid aerei, dai cannoni e dai lanciafiamme. L’Esercito, la Polizia e le più malfamate brigate ss, composte soprattutto da ex-prigionieri di guerra e criminali comuni, hanno compiuto stragi tra i civili e devastazioni in molte zone della città.

    Ora la priorità dei tedeschi è sgomberare il lungofiume, in modo da impedire ai russi di stabilire teste di ponte. A questo scopo vengono richiamati anche reparti delle divisioni corazzate che hanno combattuto strenuamente sull’altra riva per rafforzare il fronte, come quella di Rainer. Man mano che i tedeschi guadagnano posizioni, gli insorti si sono ritirati lontano dal fiume, ma sono ancora tutt’altro che sconfitti. Una mattina di inizio settembre un manipolo di soldati della terza ss-Panzer Division si addentra in un quartiere già in rovina. Qualche isolato dietro di loro la Vistola scorre pigra e indifferente sotto gli occhi stremati dei difensori, e sotto quelli impassibili dei russi sull’altra sponda.

    Rainer avanza per primo con il suo plotone, i suoi uomini sono solo qualche passo dietro di lui. Più indietro ancora viaggia l’unico Panther a loro disposizione. La zona è in mano tedesca e la strada sembra deserta, anche se in lontananza risuonano spari, urla, tonfi improvvisi di cose pesanti che si schiantano a terra.

    Tiene ben stretta la sua mp40, scruta davanti a sé con mille occhi, prima di fare un passo, ogni incrocio, ogni portone, ogni finestra rotta. Ma non può tenere sotto controllo tutto quanto.

    Non scorge il gruppo di ribelli acquattati sul tetto, un paio di caseggiati più avanti, sulla sinistra. Stanno guardando giù, in attesa. Sono vestiti e armati alla meglio, e sono tutti ragazzi, il più grande avrà forse vent’anni. Uno di loro ha capelli scuri e ispidi e occhi grigi come le pianure polacche d’inverno.

    Rainer non li vede soprattutto per un motivo: un movimento dal lato opposto della via attrae la sua attenzione, così come quella degli uomini più vicini. Lui stringe più forte la mitraglietta e rallenta.

    Da una grossa breccia alla base di un muro sbuca un’ombra. I ribelli usano spesso le cantine, collegate attraverso lavori di scavo, per percorrere dei tratti in sicurezza e uscire all’aperto solo quando necessario. La figura esce carponi dalla breccia e si rimette in piedi: è alta non più di un metro e trenta. Non è un soldato ribelle, anche se di tanto in tanto, come ora, porta messaggi per loro. Si chiama Krzysztof, ha quasi dieci anni, abitava nello stesso caseggiato di Lucjan, prima che fosse raso al suolo dalle bombe.

    La mano di Rainer si allenta un po’, lascia uscire il fiato e si ferma, incerto. Da un punto in fondo alla compagnia vengono scoppi e colpi di fucile: gli insorti li stanno attaccando alle spalle. La colonna comincia a fare dietrofront, l’ss è sul punto di tornare indietro.

    Intanto il bambino si allontana dal muro, pensa di attraversare la strada per raggiungere il palazzo di fronte e l’unità a cui deve recapitare un messaggio urgente. Sembra incurante del pericolo, o forse è abbastanza sicuro che il tedesco non gli sparerà. Ha ragione in questo caso.

    Nemmeno lui però ha visto Lucjan e i suoi compagni, o cosa stanno per fare, così come loro non hanno visto lui.

    Un istante prima che Krzysztof lasciasse l’ombra dell’edificio, qualcuno ha innescato una granata, una di quelle con il manico, rubate agli invasori nei giorni precedenti. Ora fa una curva lieve e aggraziata verso i tedeschi più vicini, distratti dalla confusione alle loro spalle.

    Il soldato sente il sibilo in avvicinamento, o forse coglie un bagliore metallico che lacera la coltre fumosa sopra la città; qualcosa in ogni caso gli ha fatto alzare gli occhi.

    La granata era diretta al carro armato, ma il tiro è corto, la mira di chi l’ha lanciata inesperta e imprecisa. Rainer dovrebbe voltarsi e correre, guadagnare qualche metro in più, solo qualche metro. O ripararsi dietro il cumulo di macerie più vicino, lì a pochi passi.

    Invece fa qualcosa che nessuno riesce a spiegarsi. Non i ribelli sul tetto, non i suoi commilitoni che hanno colto di sfuggita la scena. Nemmeno Krzysztof, fermo al centro della via, a guardare a bocca aperta la morte compiere aggraziate piroette nell’aria.

    Qualcuno dal tetto urla. Un’unica parola in polacco, arrochita dall’angoscia, «Nie!», e il nome del bambino. Rainer scatta in avanti, la mente del tutto vuota, è solo nervi e istinto. Si getta su Krzysztof, lo spinge con violenza verso l’imbocco del vicolo più vicino, nel momento in cui la piroetta termina. Non con un vezzoso "voilà", ma con un ruggito assordante e uno scroscio di schegge taglienti.

    La più grossa si conficca nella gamba sinistra del soldato, poco sotto il ginocchio; qualche altra lo ferisce alla schiena, alle braccia; una sfiora la tempia, ma appena appena, come un delicato soffio d’acciaio.

    Prima di perdere conoscenza coglie un movimento. Un bambino si rialza piano da terra e lo guarda in modo strano. Come si guarda un lupo con un mazzolino di fiori stretto tra le zanne schiumanti, come si guarda un demone che si fa crescere, senza preavviso, due ali bianche.

    Il silenzio ottundente inizia a dissiparsi. Per tutti tranne per Rainer, che ha un orecchio irrimediabilmente danneggiato, e al momento non sente nulla neanche dall’altro.

    La fragile bolla di immobilità scoppia, risuonano raffiche di spari, vicine stavolta. I ragazzi sul tetto si dileguano in fretta, mentre pezzi di tegole saltano via. Il bambino getta un’ultima occhiata al tedesco agonizzante tra le macerie, come per accertarsi di non averlo sognato, poi si volta e corre via.

    Rainer sopravvivrà, ma non ricorderà il bambino, né tantomeno i volti dei ragazzi sul tetto, che non è riuscito a vedere. Solo la strada sporca e sconnessa, il volo aggraziato della granata, un singolo urlo in polacco. Lo scoppio, il buio.

    Per molti giorni, dopo il risveglio in ospedale, Rainer non sa decidere se è vivo o morto, se i medici e le infermiere siano reali oppure demoni in borghese che si affaccendano intorno a lui per tormentarlo.

    Man mano che i periodi di lucidità si fanno più lunghi e frequenti, decide che sì, dev’essere ancora vivo. Lo capisce soprattutto dal dolore, che è sempre in agguato oltre la nebbia sfilacciata dei sedativi, e ogni tanto si riacutizza. La sofferenza disegna una complessa rete lungo il suo corpo, più robusta in alcuni punti, come la schiena, più lieve in altri. La gamba sinistra invece è un compatto, granitico blocco di dolore, che i sedativi a stento riescono a scalfire. Il respiro raschia attraverso la gola riarsa, tutto il suo corpo sembra bruciare; si sorprende di non vedere fiamme quando riapre gli occhi.

    Alle narici gli arriva un odore rancido di malattia, fenolo, urina e sangue stantio. Al suo orecchio destro arrivano gemiti, scricchiolii di letti, passi felpati o martellanti di infermiere e pazienti. Quando si azzarda a volgere gli occhi attorno, tutto ciò che vede sono i due letti vicini, con delle sagome inerti a gonfiare le lenzuola. Sopra di lui l’intonaco rovinato del soffitto. Non ha idea di dove si trovi, ricorda solo un lungo periodo in cui la nera incoscienza è stata disturbata da un monotono e metallico sussulto, il fischio di un treno in lontananza.

    A riportarlo del tutto al presente non è però il dolore, ma una frase colta nel dormiveglia. Si augura che faccia parte dei suoi incubi. «Se l’infezione non recede dovremo amputare. Mi tenga aggiornato, Frau.» I due non si sono ancora accorti che è sveglio. Prima che la fasciatura venga rifatta, Rainer riesce a vederla: la sua gamba sinistra è un cumulo di carne informe e violacea. La tibia è rotta poco sotto il ginocchio, spezzata a metà, e il ginocchio stesso è lesionato in più punti, è tanto gonfio che non lo si distingue.

    I giorni passano, la marea del dolore si ritira lentamente, lasciandolo svuotato. Di energia, di speranze, di volontà. Non ha idea di cosa sarà di lui, dice a se stesso che non gli importa, ma non è del tutto vero.

    La sua gamba è ancora sotto la minaccia del bisturi, quando una mattina insieme alla colazione gli vengono portate due lettere.

    La prima è una lettera di congratulazioni, che accompagna un distintivo d’argento per essere stato ferito per la terza volta. Rainer se lo rigira tra le dita per un po’, come non sapesse bene a cosa serva, poi lo appoggia sul comodino, sopra le altre medaglie e distintivi che qualcuno si è premurato di recuperare. Guarda il mittente della seconda, un indirizzo di Monaco, fa colazione, prende diligentemente le medicine. Aspetta quasi un’ora, fissando il soffitto ingrigito, cullato dal sottofondo di gemiti e colpi di tosse intorno a lui. Alla fine si tira su di scatto, afferra la busta e ne strappa con decisione un lato.

    Ilse è preoccupata perché da mesi non ha sue notizie. Vuole sapere se sta bene. Vuole sapere, anche se non lo scrive, se la loro promessa è ancora valida. Ilse è la sua fidanzata, o lo era molti anni fa, prima che si arruolasse.

    Sì, una promessa c’era stata, accanto a un portone, una piovosa sera d’ottobre del 1940, con le luci azzurrine dei lampioni che baluginavano nelle gocce di pioggia e mettevano in risalto le graziose lentiggini sul naso di lei, mentre gli occhi rimanevano in ombra. Più di una promessa in realtà: al suo ritorno si sarebbero sposati; sarebbe tornato presto, un paio d’anni al massimo. Lui intendeva mantenerle entrambe, ma una l’ha già infranta: sono quattro anni che si è arruolato, e non vede Ilse dall’ultima licenza, più di un anno fa.

    Il volto di Ilse è una delle poche cose che ci terrebbe davvero a ricordare, ma anche qui la memoria non gli viene in aiuto, la sua propensione a dimenticare non fa concessioni a nessuno. Ha una fotografia, che però non dice nulla sul modo in cui Ilse sorride, inclinando un po’ la testa bionda di lato e mostrando solo i piccoli incisivi, bianchissimi ma appena appena storti. Non dice nulla nemmeno sulla sua voce, il suono serio e quieto di un violino, con note più acute quando qualcosa la appassiona. La fotografia in ogni caso, sciupata e macchiata di pioggia, potrebbe anche essere andata persa.

    Chiede all’infermiera, Frau Gretchen, di poter scrivere. La donna ne sembra soddisfatta, lo interpreta come un segnale di guarigione. Si sbaglia. Rainer non è ancora certo che non morirà. Nemmeno Frau Gretchen in realtà, dietro il suo sorriso dai denti grandi e il sottile reticolo di rughe intorno, ne è certa. E, tra un risveglio e l’altro, in un tempo che gli è parso un secolo, Rainer ha oramai accettato che comunque vada resterà invalido.

    Non sa ancora che la sua gamba verrà salvata, più o meno, e quando ne avrà la certezza la lettera sarà già a metà strada tra Cracovia e Monaco. A dispetto degli usuali ritardi e smarrimenti nella posta, questa arriverà a destinazione, facendo piangere una ragazza testarda con gli occhi scuri e una graziosa spruzzata di lentiggini sul naso, che non si era ancora rassegnata.

    Nella lettera, oltre a dirle addio, le raccomanda di trovare un rifugio sicuro e restarci. Magari in campagna, dove la famiglia di Ilse ha una piccola tenuta. Suo padre è un ex ufficiale della prima guerra, conservatore e con scarsa simpatia per il partito nazista. Non ha mai visto di buon occhio il loro fidanzamento, non tanto perché all’epoca Rainer era nella Hitlerjugend, ma perché non possedeva un bel niente. Lui e la sorella minore di Ilse hanno lasciato la città già da un po’, ma lei, essendo testarda com’è, ha deciso di non seguirli. È rimasta a Monaco, dove due anni fa ha abbandonato gli studi di Medicina per fare l’infermiera volontaria negli ospedali.

    Ilse ha un buon cervello, ma un cuore troppo grande, per questo Rainer è preoccupato, anche se non ha scritto niente del genere. La lettera è fredda e distaccata, come se il destinatario fosse un conoscente che si spera in buona salute. Tutto il contrario di quella di lei, che in un angolo reca traccia di goccioline sospette, che forse è pioggia ma forse

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