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La confraternita degli assassini
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La confraternita degli assassini
E-book382 pagine5 ore

La confraternita degli assassini

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Info su questo ebook

Un grande thriller storico

L’ultimo segreto della Chiesa sta per essere svelato

Roma, 1408.
Il matematico Isidoro e la sua enig­matica figlia, Nour, arrivano nella Cit­tà Eterna dopo aver lasciato Dama­sco. La speranza di Isidoro è quella di prendere servizio in una delle facolto­se corti italiane, mettendo a frutto la propria sapienza e, soprattutto, quella di Nour: la bambina è infatti dotata di un’intelligenza fuori dal comune e di una memoria straordinaria. Ma in una Roma preda delle tensioni politiche e religiose, conoscenze come le loro attirano molte attenzioni. E così, una notte, Nour viene rapita. Isido­ro si mette allora al servizio del papa nella speranza di ritrovare la figlia e, dopo anni di ricerche, i due possono finalmente ricongiungersi a Firen­ze, grazie anche all’aiuto di Filippo Brunelleschi che, notando le capacità della ragazza, decide di coinvolgerla nella costruzione della grande cupola di Santa Maria del Fiore.
Le tensioni che percorrono l’Italia non accennano a placarsi, e lenta­mente, attorno a Isidoro e ai suoi compagni cominciano a delinearsi i contorni di una sinistra congiura, vol­ta a ostacolare la riunificazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente e a impedire che il segreto “dei quattro punti armonici”, custodito da Nour, possa essere rivelato.

Entusiasmante come Dan Brown
Geniale come Marcello Simoni

Un giallo storico di straordinaria potenza narrativa
Le rivoluzionarie conoscenze matematiche di Isidoro e Nour si scontrano con l’oscurantismo religioso dell’Italia del ’400
Marcello Ciccarelli
è un ex professore di matematica, ha collaborato con l’Università di Roma La Sapienza ed è stato presidente della sezione di Latina di Mathesis.
Bruno Di Marco
insegna storia dell’arte a Latina ed è stato allievo proprio di Marcello Ciccarelli. La confraternita degli assassini è il suo terzo romanzo, il secondo scritto a quattro mani.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788822753441
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    Anteprima del libro

    La confraternita degli assassini - Marcello Ciccarelli

    Capitolo 1

    A destra tre figure in un muto dialogo si stagliano su un panorama urbano, i due uomini ai lati indossano abiti e calzature eleganti, il giovane al centro solo una tunica rossa: è scalzo. Volti silenziosi e intensi, sguardi persi in lontananza. A sinistra, in uno spazio porticato, un uomo è legato a una colonna, eternizzato in una fissità da statua, nell’infinita attesa dei colpi dei due aguzzini con le fruste levate. Quello che sembra un dignitario, assiso su un trono e con uno strano copricapo, osserva senza alcuna reazione. Una figura di spalle, con turbante e tunica bianchi, è davanti alla scena, a piedi nudi.

    La costruzione prospettica è rigorosa. Il punto di vista è basso, molto basso, ma non impedisce di cogliere il complesso e dettagliato disegno della pavimentazione che degrada perfettamente all’aumentare della profondità. Tutto nella luce nitida, tersa di una assolata mattina invernale che sembra annullare le ombre e che tutto rivela. E nonostante tutto sia perfettamente decifrabile, il mistero è denso, profondo, inquietante.

    Perfezione matematica e rigore estremo a costruire geometrie nitide, le sue figure declinate in forme pure a evocare ciò che è inconoscibile. Riga dopo riga, pennellata dopo pennellata, Piero costruisce l’atmosfera sospesa della sua Flagellazione.

    Piero, pittore. Piero, uomo del suo tempo.

    Il tempo in cui i capitani di ventura misurano le armi, i Signori delle corti le opere di artisti e letterati.

    Il tempo in cui la Chiesa, tra scismi e concili, sceglie tra la supremazia del papa e quella dei vescovi.

    Il tempo in cui Costantinopoli è l’ultimo baluardo contro l’incubo dell’invasione turca.

    Il tempo in cui un sapiente e sua figlia vengono da Damasco a cercare il loro futuro in Italia. Portano con loro la scienza della Casa della Sapienza di Bagdad, le opere di Al-Hacen, di Al-Khwarizmi, di Al-Khayyam, di Nasir al-Din al-Tusi e il segreto della prospettiva: i quattro punti armonici.

    Arrivo a Roma, 9 maggio 1408

    La frusta del conducente sferza i cavalli, la carrozza ha uno strattone, i passeggeri all’interno dondolano scomposti. Isidoro controlla che Nour sia ancora addormentata. Le scosta una ciocca di capelli nerissimi dalla fronte, le accarezza la guancia. Con delicatezza sfila la tavoletta che la bambina porta al collo e le aggiusta la coperta con cui l’ha avvolta: la primavera romana regala serate più fresche della sua terra natale e la tunica di lino bianco che indossa potrebbe non essere sufficiente a scaldarla.

    «Quanti anni ha vostra figlia?».

    Isidoro è sorpreso, la mano sfiora la barba. In due ore di viaggio il frate davanti a lui non aveva mai parlato. Quando erano saliti sulla carrozza che era venuta a prenderli all’abbazia di Farfa, sedeva già dentro. Si era presentato, frate Bartolo, segretario personale di padre Agostino, e aveva osservato stranito gli abiti di Isidoro sorridendo per le sue brache di canapa lunghe fino alle caviglie e per le calzature con la punta rialzata. Aveva scosso la testa e si era richiuso in silenzio, le braccia sul grembo, ogni mano infilata nella manica opposta del grande abito bianco sotto il mantello nero che lo ricopriva: il corpo sembrava non esistere sotto quell’ammasso di tessuto da cui spuntava una testa triangolare, radi capelli, occhi infossati e rivolti quasi sempre in basso.

    «Ha sette anni, anche se sembra più grande».

    «È muta?».

    Curiosa osservazione da parte di uno così poco loquace. Isidoro lo squadra serio, senza parlare.

    «Lo chiedo perché ho notato che quando le parla lei risponde con cenni del capo o scrivendo su quella tavoletta che porta al collo», si giustifica il frate.

    Sta per rispondergli che sua figlia ha un’intelligenza precoce, una memoria straordinaria, ha già appreso molto da lui. Molti pensano sia muta, in realtà Nour parla solo con lui e solo quando non c’è nessuno che li possa ascoltare. Solo lui, Isidoro, ha il privilegio di sentire la sua voce. Da quando sua moglie è morta dandola alla luce, Nour è diventata il centro della sua vita.

    Uno scossone della carrozza richiama la loro attenzione all’esterno: stanno attraversando uno stretto ponticello. La domanda resta senza risposta.

    Il segretario di padre Agostino è sempre più nervoso, il sole è basso sull’orizzonte e la strada polverosa sembra non finire mai. Le urla del conducente a incitare i cavalli aumentano la tensione, sempre più spesso Bartolo si sporge a verificare. Scuote la testa.

    «Non ce la faremo prima del tramonto».

    «Scusate, frate Bartolo, ma non capisco la vostra ansia».

    Questa volta è l’altro a non rispondere. Il segretario sorride forzato e abbassa la testa. Isidoro è perplesso. Nour dorme. Meglio così.

    «Voi conoscete Roma?».

    Isidoro sorride tra sé, trova strano che il frate si sia deciso a fare conversazione proprio alla fine del viaggio.

    «Avrei voluto visitarla in occasione del Giubileo, ma…».

    «Quindi non la conoscete», lo interrompe il frate.

    «Ho letto molto sulla storia della città. Ho anche avuto modo di leggere il Mirabilia Urbis Romae».

    «Avrete letto uno di quei manoscritti per i pellegrini pieni di favole. La storia di questa città è molto più ricca», frate Bartolo si sporge in avanti abbassando la voce, come per non farsi sentire dal conducente. «E non mi riferisco solo alla Roma cristiana, ma anche a quella pagana. Sto scrivendo un manoscritto su questi argomenti».

    Si raddrizza e sorride compiaciuto. Isidoro è sempre più incuriosito da questo frate che si interessa al passato.

    Bartolo si sporge dalla carrozza a guardare il sole morente, scuote la testa e torna dentro. Con le braccia sul ventre e le mani nascoste nelle maniche si rimette a guardare in basso mormorando tra sé.

    Prega? Si domanda Isidoro. E si ritrova a pensare a quando lo faceva anche lui prima che l’amore per la conoscenza attenuasse la sua fede.

    Isidoro era giunto da poco in Italia insieme a sua figlia, dopo essere stato costretto ad abbandonare Damasco. Le notizie sulla biblioteca dell’abbazia lo avevano attirato a Farfa. Aveva saputo di testi antichi custoditi che i monaci amanuensi riproducevano nello scriptorium. Forse, aveva pensato, in quel luogo di cultura la sua sapienza avrebbe finalmente trovato il giusto apprezzamento e lui e Nour un luogo dove fermarsi a vivere, dopo aver cercato di essere ricevuto presso le principali corti italiane. Preso alloggio presso la locanda del borgo cresciuto intorno all’abbazia, aveva cercato di incontrare l’abate commendatario. Non aveva dovuto attendere molto, la lettera di presentazione, fornitagli dal vescovo di Gerace, aveva destato la curiosità dell’abate, uomo di cultura oltre che di fede.

    Era stato invitato a visitare la biblioteca e il famoso scriptorium. Isidoro, dietro consenso dell’ospite, aveva consultato alcuni testi che gli amanuensi stavano copiando, li aveva commentati in modo minuzioso; l’abate aveva sorriso compiacendosi con sé stesso per aver capito subito il valore dell’uomo. Lo aveva invitato a restare a Farfa, avrebbe potuto consultare la biblioteca. Nel frattempo lui avrebbe scritto a una persona di sua conoscenza che forse, con la grazia di Dio, avrebbe potuto trovare il modo di valorizzare la sua sapienza. Isidoro aveva accettato, avrebbe atteso.

    Trascorso un anno l’abate lo aveva mandato a chiamare: padre Agostino, persona ben inserita nell’ambiente della curia romana, aveva risposto alla sua lettera. La conoscenza della crittografia che Isidoro vantava era stata molto apprezzata dal cardinale Oddone Colonna, nel giro di pochi giorni avrebbe mandato la sua carrozza personale a prenderlo.

    Roma, 9 maggio 1408

    Il brusco arresto della carrozza lo desta dal sonno in cui era scivolato senza accorgersene. Nour continua a dormire serena, Isidoro la accarezza protettivo. Dall’esterno voci di uomini che s’insultano a vicenda e ridono. Una mano irsuta e nervosa scosta la tenda e fa sussultare Bartolo.

    «So-sono il segretario personale di padre Agostino», si schermisce subito.

    «Lo so bene chi sei, mezzasega».

    La voce giunge da fuori mentre la mano afferra il mento di Bartolo.

    «Siete voi, messer Michele».

    «Per vostra fortuna, altrimenti non vi facevano passare, caro mezzasega. Siete in ritardo!».

    «Abbiamo fatto come ci è stato detto per evitare la via Salaria e i territori controllati dalle bande di Paolo Orsini».

    «Ma non dovevate fare soste, imbecille!».

    La mano colpisce la guancia del segretario.

    «Ho passato mezza giornata qua a ponte Mollo», continua a parlare la voce esterna. «E ho dovuto convincere il comandante dei soldati napoletani di guardia al Tripizzone a lasciarvi attraversare anche dopo il tramonto».

    «Vi ringrazio, messer Michele».

    La voce esterna scoppia in una risata, poi parla di nuovo ma suona più lontana.

    «Mi ringrazia! Hai sentito, Nasotorto? Mezzasega ha detto che mi ringrazia».

    Da fuori arriva un coro di risate, poi commenti indistinguibili che rilanciano altre risate. La mano irsuta scosta del tutto la tenda e una testa allungata, coronata da riccioli neri quasi femminei e da una barba appuntita, si introduce nel vano della carrozza. Due occhi piccoli e metallici studiano Isidoro.

    «E quindi questo sarebbe…».

    «Questo è l’ospite di padre Agostino!», interviene Bartolo.

    L’uomo scatta ad afferrare il braccio destro del segretario facendolo sporgere dalla carrozza. Isidoro si accorge che la manica sinistra è vuota.

    «Non osare interrompermi quando parlo, mezzasega!», ruggisce Michele. «Altrimenti ti strappo anche questo braccio! Hai capito?».

    Si aggiungono altre voci dall’esterno.

    «E poi anche l’altra gamba».

    «Pure chello ca ce stà ’mmiézo?»

    «E tanto che se ne fa?».

    Nuovo coro di risate sguaiate. Anche la testa riccia scoppia a ridere e lascia andare il braccio di Bartolo.

    «Adesso ripartite», ordina Michele. «Vi scorteremo fino a palazzo Colonna, poi proseguirete da soli fino a Santa Sabina».

    Bartolo muove il capo su e giù, senza parlare. Michele lo batte di nuovo sulla guancia a mo’ di saluto e scompare dietro la tenda della carrozza. L’incitamento del conducente precede di poco lo scarto della carrozza che annuncia la ripresa del viaggio.

    I viaggiatori restano in silenzio. Isidoro scosta la tenda per osservare il paesaggio intorno nell’ultima luce rossastra del sole ormai tramontato. Una torre tozza a base triangolare precede il ponte, immagina che sia quello il Tripizzone. Vorrebbe chiedere conferma a Bartolo, vorrebbe fargli anche altre domande. Vorrebbe sapere perché soldati napoletani controllano l’accesso a Roma; perché il segretario non si è giustificato del ritardo raccontando quello che era accaduto, che era stato lui, Isidoro, a ritardare la partenza con la scusa del saluto all’abate. In realtà per un ultimo incontro con Jacopa per chiederle di andare con lui, ma alla fine gli era mancato il coraggio. Questo e molto altro vorrebbe chiedergli, ma vede che Bartolo ha il capo piegato verso il basso e, non ne è sicuro, ma gli sembra che pianga.

    Dopo il ponte, nella poca luce della sera, Isidoro riesce a distinguere prati incolti punteggiati del rosso dei papaveri, mentre procedono lungo un rettifilo che li conduce a una porta nelle mura della città. Uno dei due fornici è stato murato e le torri laterali portano i segni di antichi assedi che nessuno si è preoccupato di riparare. Gli uomini che li stanno scortando, parlano con le guardie, l’ostilità iniziale si trasforma in risate complici. Che città è mai questa? Oltrepassano la porta e dopo le mura ancora campi incolti e vigne, fino alle prime costruzioni: Roma, finalmente.

    La carrozza procede a scossoni, percorre una strada dritta pavimentata con un antico basolato ormai sconnesso e in parte mancante. Isidoro scosta ancora la tenda, la città si rivela come una serie di piccole abitazioni addossate a resti di mura antiche e possenti, improvvisi slarghi rivelano brani di colonnati semiaffondati tra zolle di terra sudicia.

    Ora la carrozza rallenta fino a fermarsi. Isidoro per un momento ha sperato che quel viaggio spossante fosse finalmente terminato, ma il segretario non si muove. Infastidito dall’atteggiamento dell’uomo, Isidoro apre del tutto la tenda e sporge la testa per capire cosa sta succedendo.

    Un grande arco restringe la strada, quello che pare un gruppo di pellegrini è stato fermato da un drappello di soldati, sembra fatichino a capirsi. Isidoro scuote la testa, ci vorrà tempo per attraversare quella struttura così maestosa. Il fornice è fiancheggiato a destra da due colonne corinzie. Sulla sinistra la luce danzante di torce appese al muro illumina un grande bassorilievo, la grande figura di un uomo seduto avvolto in una toga indica il cielo, davanti a lui un giovane sdraiato e un altare su cui brucia un grande fuoco, in alto una figura alata porta con sé una donna.

    Una pira funeraria, pensa Isidoro. Che sia per la moglie dell’uomo seduto? Probabilmente un senatore o un imperatore, chissà. Anche lui ha perso la moglie, come me. Lui sarà riuscito a ricominciare ad amare?.

    «È la celebrazione del funerale della moglie di un imperatore», la voce del segretario lo scuote dai suoi pensieri, «alcuni non la pensano come me, ma io sono convinto che sia Adriano e quella sulla figura alata la moglie Sabina1».

    «Quindi ci sono anche altri che studiano l’arte degli antichi».

    «In realtà siamo pochi. Qui non si va oltre Costantino il grande».

    «Così scarso interesse per la storia di una città grande come questa?»

    «È la paura, maestro Isidoro. C’è chi non gradisce questi studi e non esita a ricorrere alla violenza per impedirlo».

    «E voi non avete paura?»

    «Io ormai non ho più molto da perdere», la voce di Bartolo è triste e il suo sguardo corre alla manica vuota.

    La carrozza riprende la marcia. Abbandona la strada dritta che stava percorrendo e svolta a sinistra, poi di nuovo a destra. Fiancheggiano quella che sembra la facciata di una chiesa danneggiata dal tempo o da un cataclisma. Subito dopo un edificio complesso con mura merlate e una torre possente.

    «La residenza della famiglia Colonna», annuncia Bartolo che ha ritrovato un atteggiamento dignitoso.

    «Voi conoscete il cardinale Colonna?»

    «L’ho incontrato solo una volta».

    «Che potete dirmi di lui?»

    «Non posso dirvi nulla. Io sono solo il segretario personale di padre Agostino ed eseguo gli ordini».

    Dall’esterno arriva la voce di Michele che urla al conducente della carrozza che adesso deve procedere da solo, seguire la strada fino al Colosseo, passare sotto l’arco di Costantino e costeggiare il circo Massimo per arrivare sotto l’Aventino.

    La carrozza si inoltra nelle strade strette e tetre alla luce della sera ormai calata. Uno slargo sulla destra apre a un’altra visione che solo questa città può offrire: una grande falò illumina la facciata di una piccola chiesa addossata a un’enorme colonna coperta di bassorilievi che si avvolgono a spirale lungo il fusto.

    La strada ora è in discesa, all’altezza di una curva Isidoro indovina in fondo la massa scura che domina la valle. Mentre la carrozza procede, si sporge di lato a vedere delinearsi una parete curva fatta di tre ordini di archi e un quarto piano in muratura piena. Fuochi, accesi forse per scaldarsi, illuminano gli intradossi di alcune arcate, appaiono sagome in controluce di qualcuno che spia il loro passaggio.

    «Un anfiteatro! È questo l’anfiteatro dei Flavi?», chiede a Bartolo.

    «Ora lo chiamano Colosseo. Il terremoto di una cinquantina di anni fa ne ha distrutto quasi la metà, come potete vedere. Ormai è solo una cava di materiali per i palazzi dei nobili e rifugio per gli straccioni».

    La carrozza si infila sotto un grande arco con tre fornici costellato di bassorilievi di cui Isidoro riesce ad avere una visione fugace.

    «Arco dell’imperatore Costantino», spiega Bartolo, «nei prossimi giorni lo potrete osservare con calma e in ogni dettaglio. Tutto ciò che riguarda Costantino è oggetto di grande rispetto».

    Procedono dritti passando sotto il frammento di un’altra arcata parte di una lunga serie, un acquedotto evidentemente, svoltano a destra a costeggiare un avvallamento che nella luce lunare appare svilupparsi in lunghezza. Una torre ne segna l’inizio.

    «Questo è quel poco che ormai resta del Circo Massimo», e questa volta Isidoro ha avuto la sensazione di cogliere una nota di dolore nel tono di Bartolo. «Pochi ruderi tra la torre della Molfetta che appartiene ai Frangipane e una distesa di orti e vigne».

    La carrozza costeggia la valle stretta e lunga, svolta davanti una chiesa fiancheggiata da un piccolo corso d’acqua che supera grazie a un ponticello in legno, costeggia per un breve tratto il Tevere e subito si inerpica per un vicolo in forte salita. Il conducente frusta i cavalli ormai stanchi. Mura possenti in cima, la rocca dei Savelli che domina il Tevere dall’Aventino, spiega Bartolo, occorre girarci intorno ed ecco apparire una basilica, fronteggiata dalla forma massiccia di una costruzione che si indovina, più che vedere, nel buio della notte romana. Bartolo lo informa che saranno ospiti nel convento di Santa Sabina all’Aventino.

    Isidoro non risponde e il frate sente il bisogno di sottolinearne l’importanza e specifica che quella è la sede dei frati predicatori, i domenicani, l’ordine di padre Agostino.

    Il conducente apre la carrozza e aiuta Bartolo a scendere. Il segretario si avvia verso il portone di ingresso ritmando il percorso con il suono della sua gamba di legno. Due frati escono ad aiutarli con i bagagli.

    Dopo lunghi giri in corridoi stretti e umidi, giungono in un’ala dell’edificio che appare quasi disabitata. Bartolo bussa alla porta. Appare un volto grasso, con due occhi che faticano a restare aperti e la bocca dischiusa, incorniciato da una stoffa bianca che ricade sui lati. Isidoro, inquieto, vorrebbe chiedere perché ci sia una suora in un convento di frati. Il segretario non gli dà il tempo di fare domande, si volta e se ne va.

    Ormai è tardi. La suora, dondolando il corpo rotondo, fa strada fino alla cella assegnata. Isidoro chiede una candela.

    «Per le orazioni?».

    La domanda lo coglie impreparato, Isidoro si ritrova ad annuire.

    Più tardi, davanti alla candela, Isidoro parla alla bambina che ascolta con attenzione e poi scrive sulla tavoletta di cera. Il padre legge, sorride e l’accarezza, l’abbraccia e spegne la candela.

    La suora che, arrampicata su una scala precaria, li stava osservando di nascosto da uno spioncino sopra la porta, si porta la mano davanti la bocca, come a soffocare un grido, si fa il segno della croce, scende e corre a bussare a una porta in fondo al corridoio.

    1 L’arco di Portogallo era stato eretto lungo la via Lata. Era decorato con due bassorilievi che adesso sono conservati nei musei Capitolini. L’arco è stato demolito nel XVII secolo.

    Capitolo 2

    Roma, 16 maggio 1408

    La carrozza li attende fuori dal convento. Isidoro e Nour vengono invitati a salire, anche questa volta frate Bartolo è già seduto dentro. Nessuno parla durante il viaggio. Il segretario guarda in basso, come sempre, e Isidoro cerca di sfuggire ai suoi dubbi concentrandosi sulla figlia.

    È una settimana che sono ospiti nel convento, ancora nessun incontro con il cardinale o il suo misterioso ospite, padre Agostino. Forse questa è la volta buona, almeno così ha detto Bartolo quando è andato a chiamarli.

    L’uscita di questa mattina è la prima novità che rompe la monotonia dei giorni trascorsi all’interno del convento, a studiare e a fare lezione a Nour: di giorno nel chiostro, vicino all’arancio che secondo i frati sarebbe stato piantato da Domenico di Guzmán, fondatore dell’ordine, duecento anni prima; di notte nella cella loro assegnata alla luce di una candela che ogni sera la suora con un’espressione di rimprovero consegnava a un perplesso Isidoro.

    Nour gli sorride, si accuccia contro il fianco del padre. Il tragitto è un breve tratto a ritroso del percorso fatto all’arrivo.

    Una pattuglia di soldati napoletani li blocca davanti al Colosseo. Mentre Bartolo dialoga con il comandante, Isidoro sposta la tenda. Alla luce del sole le ferite della massa muraria gli appaiono più drammatiche della visione notturna di una settimana prima. Una parte consistente della parete esterna non esiste più. Spurghi di vegetazione infestano le rovine. Isidoro si risistema all’interno della carrozza con la sensazione di aver contemplato un cadavere sventrato.

    Bartolo ha terminato la sua trattativa con il capopattuglia, lo guarda e sorride di lato, come suo solito. Isidoro reprime a fatica un moto di stizza, si sente deriso. Più per sottrarsi a questa sensazione che per vero interesse, chiede a Bartolo il motivo della presenza dei soldati napoletani a Roma.

    «Ladislao, il re di Napoli, si è autonominato protettore di Roma».

    «Protettore di Roma? Avevo notizie che Papa Gregorio aveva consolidato il soglio pontificio e anche avviato trattative con l’antipapa Benedetto per risolvere la questione dello scisma».

    Bartolo sorride prima rispondere.

    «Questa è una città in perenne conflitto, caro maestro. Vedrete che anche Roma è una città ricca di torri. Ognuna rappresenta una potente famiglia nobile in competizione con le altre. Da quando la curia papale è tornata da Avignone, la lotta tra le varie fazioni è diventata più aspra».

    «Ma il Comune del popolo non ha alcun potere?»

    «Notabili e magistrati si sono sistemati sul Campidoglio ma comandano ben poco. Re Ladislao, con la scusa di riportare la pace a Roma, l’ha fatta occupare dal suo esercito. Ma la situazione non è affatto tranquilla come potete vedere».

    Si fermano davanti a una costruzione imponente, quella che Bartolo gli aveva indicato come la residenza della famiglia Colonna. A fianco la facciata distrutta di un edificio religioso attira lo sguardo di Isidoro. Bartolo nota il suo interesse.

    «Era la basilica dedicata ai Santi Apostoli».

    «E adesso?»

    «Adesso è un rudere. Anche questa per il terremoto di cinquant’anni fa».

    «Che città è questa?», Isidoro non riesce a capire. «Lasciate i vostri templi in stato di abbandono, vi combattete tra di voi».

    «Questa è la città di una Chiesa in crisi da quasi quattro secoli, caro maestro, da quando i patriarcati orientali non hanno voluto riconoscere la superiorità del vescovo di Roma», risponde amaro frate Bartolo. «E adesso la stessa chiesa di Roma si è spaccata con uno scisma interno, esiste un papa e un antipapa. Tutto questo mentre i turchi premono su Costantinopoli, l’ultimo baluardo contro la loro invasione di tutta l’Europa. Voi vi chiedete che città è mai questa, maestro. Vi posso rispondere che questa città è l’immagine in cui versa oggi tutto il mondo cristiano».

    Davanti al portone due uomini armati parlano tra loro a voce alta e ridono, senza alcuna considerazione per la carrozza appena arrivata. Il segretario è costretto a sporgersi e gridare.

    «Sono il segretario di padre Agostino. Costoro sono con me».

    A sentire il nome dell’ecclesiastico, i due tacciono e si guardano come a decidere chi deve aprire il portone. Il più basso si alza con una smorfia di disappunto accompagnato dal ghigno dell’altro. All’interno del palazzo frate Bartolo guida Isidoro e Nour attraverso stretti corridoi e scale altrettanto strette fino a un salone che ospita una folla vociante.

    Pochi tra i presenti badano ai nuovi arrivati, per un momento incuriositi dalla bambina con quella strana tavoletta appesa al collo, e subito tornano a discutere tra loro. Solo un uomo alto li guarda fisso, con attenzione. Sorride in modo sfrontato, ha il volto allungato, capelli ricci e neri. Ma sono le mani che Isidoro riconosce subito, soprattutto per la peluria che le ricopre, le stesse che avevano scostato le tenda della carrozza la sera del loro arrivo. E se avesse bisogno di conferme, gli basterebbe guardare il volto di Bartolo, completamente privo di colore, e il saluto deferente che rivolge a quell’uomo: «Messer Michele», mentre china il capo.

    Michele non risponde, ride e batte la mano sulla spalla dell’uomo al suo fianco. Quando si volta Isidoro nota il volto asimmetrico a causa del setto nasale deviato a sinistra.

    «Frate Bartolo, perché non salutate anche messer Cola da Velletri detto Nasotorto? Volete forse offenderlo?», lo canzona Michele.

    Bartolo china il capo e inizia a scusarsi ma i due gli danno le spalle e si allontanano ridendo tra loro.

    Il segretario per riprendersi dall’imbarazzo richiama l’attenzione della persona davanti a loro battendogli sulla spalla.

    «Stanno per cominciare?».

    L’interpellato, prima di rispondere, squadra Bartolo che al solito abbassa lo sguardo.

    «Si attende solo l’arrivo del notaio».

    Isidoro chiede chiarimenti. Questa volta Bartolo si concede.

    «Si tratta di una disfida tra maestri d’abaco2».

    «Sapienti che si sfidano! E perché mai?»

    «La famiglia Colonna ha emesso un bando per assumere il nuovo maestro d’abaco. Il vecchio maestro è morto da poco. Sarà scelto chi darà le risposte migliori ai quesiti che stanno per leggere».

    Isidoro si guarda intorno. Non può fare a meno di confrontare gli aspiranti con gli istitutori di Damasco. Anche quando non lavoravano a corte, erano sempre persone di prestigio, ben pagati dalle ricche famiglie, con un’alta considerazione. Qui vede uomini con un berrettino e un soprabito frusto, vecchio di qualche giubileo, e fogli arrotolati spuntare da logori sacchetti.

    «Come vedete sono in molti, il lavoro è ben remunerato ma richiede molte conoscenze matematiche», gli spiega Bartolo. «Il vincitore avrà il suo da fare. Dovrà insegnare l’arte dell’abaco ai giovani della famiglia, saper misurare la terra per le compravendite dei terreni e infine deve istruire gli amministratori dei feudi che la famiglia Colonna possiede a Palestrina, Genazzano, Capranica.

    Il mormorio della sala cala improvviso.

    «Ecco il notaio, ora si comincia».

    La folla si accalca intorno al tavolo al centro della stanza. Isidoro rimane indietro per proteggere la figlia, così non riesce a vedere i protagonisti della sfida. La voce del notaio che riferisce le regole gli giunge soffocata e poco distinguibile, a volte coperta dai commenti che i presenti continuano a scambiarsi. Qualcuno delle prime file riporta quanto detto. Nella giornata di oggi saranno letti i quesiti per la cui soluzione si concedono due giorni. Il notaio apre la prima busta e dà lettura del quesito. Il silenzio ora è assoluto e la voce giunge nitida.

    «La cosa moltiplicata con sé stessa e sette cose agguaglia nove cose. Quanto vale la cosa? Si risolva in modo che ogni problema simile sia risolvibile3».

    Nuovo mormorio della folla, i presenti si confrontano tra loro in piccoli gruppi, gesticolando e sovrapponendosi con le voci. Isidoro si accorge che qualcuno gli tira la mano. Nour vuole mostrargli la sua tavoletta. Isidoro abbassa lo sguardo a controllare. Sulla prima riga ha scritto ya varga yu 7ya eq 9ya e sotto ha scritto 2.

    Dopo un momento di sorpresa Isidoro annuisce, sorride e le accarezza la testa. Dietro di lui, un altro ha visto per un momento la tavoletta. Bisbigliano, credono di non essere ascoltati nel vociare della folla che attende il secondo quesito. Ma Isidoro riesce a sentirli.

    «Pippo, hai visto che ha scritto la bimba?», chiede quello magro e alto.

    «Di quale bimba parli?», risponde quello basso e rotondetto.

    «Questa davanti a noi».

    «O bella, che può aver scritto di tanto straordinario?»

    «Numeri arabi mischiati a strane parole mai viste!».

    Isidoro, infastidito, chiude la tavoletta a Nour e fa cenno a Bartolo di spostarsi lontano da quei due. Si volta a guardarli e chiede al segretario chi siano. Questi alza le spalle e spiega con noncuranza:

    «Sono due forestieri, fiorentini mi pare. Vanno in giro a scavare e misurare rovine, per la gente sono cercatori di tesori».

    «E secondo voi, frate Bartolo?»

    «Credo anche io che cerchino tesori, ma non quelli che crede la gente».

    Il notaio ha letto il secondo e il terzo quesito, di nuovo la stanza si riempie di voci. La folla intorno al tavolo si allenta, tutti commentano. Isidoro avanza nello spazio che si è liberato, osserva le persone intorno al tavolo, ora visibili, e rimane a bocca aperta.

    Bartolo è sempre accanto a lui, nota la sua espressione.

    «Avete visto qualcuno di vostra conoscenza?»

    «Sì, un mio antico rivale, Baldassarre di Damasco».

    «Anche lui di Damasco?»

    «Ha vissuto a Damasco fino a che ha abbracciato la

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