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La fonte del sapere
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E-book194 pagine2 ore

La fonte del sapere

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Info su questo ebook

Zu ’Ntoni, personaggio eclettico e geniale, è il cantore di tante piccole storie che in un primo momento sembra non abbiano nessuna attinenza tra loro. Pian piano si ricostruirà una storia antica, sconcertante, nella quale la menzogna e la bramosia di potere mossero gli uomini ad azioni ignobili. Tutto iniziò poco dopo l’Unità d’Italia, quando in Sicilia vi era ancora una falange borbonica che nel contrastare i sostenitori di Garibaldi aveva assunto atteggiamenti pericolosi e sovversivi. 
Durante il secondo conflitto mondiale Frank, soldato italo americano, viene paracadutato per caso nel paese d’origine di suo padre, in Sicilia. Accolto e curato dal sacrestano e guardiano della tenuta del barone Del Segno, Zu ’Ntoni, il ragazzo stringerà un rapporto d’affetto e di fiducia con lui.
Gradualmente i tasselli della storia si incastrano e tutto si svela. Si insinua nel testo la romantica storia d’amore tra Frank e Dolce. Un amore nato per caso, ma che fin da subito rivela le caratteristiche di un sentimento molto profondo: i due ragazzi e la loro storia rappresentano l’epilogo di un passato doloroso.
Il romanzo storico La fonte del sapere, di Sebastiano Privitera, è tutto questo: dalla penna lineare e molto scorrevole, l’Autore, con competenza, tratteggia le vicende storiche e le vicissitudini del popolo italiano.
Inoltre offre al lettore l’opportunità di scegliere l’epilogo che reputa opportuno: si giungerà alla stessa conclusione, ma guardando la vicenda da angolazioni diverse.

Sebastiano Privitera è nato nel 1950 a Catania. Per motivi di lavoro, negli anni ’80 si è trasferito a Milano dove attualmente vive. Lavora come cancelliere presso il Tribunale di Milano. È appassionato di teatro, per parecchi anni ha recitato in una compagnia teatrale, ed è studioso di storia e cultura siciliana.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2022
ISBN9791220126021
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    Anteprima del libro

    La fonte del sapere - Sebastiano Privitera

    Prefazione dell’Autore

    Se i libri hanno una prefazione io, che non sono uno scrittore, propongo un’avvertenza: spiegare al lettore, e un po’ anche a me stesso, come e perché è nato questo scritto.

    Un sogno.

    Penserete: È una vita che questo pensa di scrivere un libro….

    Non è così.

    Una mattina continuava a tornarmi in mente l’immagine di un frate apparsomi durante il sonno, il quale, uscendo dal riquadro del cartellone di un cantastorie con espressione supplichevole, mi aveva detto: «Racconta quel che sai, ne avrà un gran bene la mia anima». Al momento non ci pensai troppo, ma mi rimase tuttavia impressa la stranezza di quell’invito.

    Non molto tempo dopo venne a mancare, in Sicilia, una mia vecchia zia. L’avevo vista poche volte negli ultimi anni e a lei, in quel giorno, associai gli anni della mia infanzia. A quell’epoca si viveva nella grande casa dei miei nonni, dove dopo cena nelle sere d’inverno ci si riuniva tutti intorno al braciere o d’estate sul balcone. I grandi parlavano dei fatti della giornata o di cose passate; mio padre, a volte, anche della guerra. Spaziando con i ricordi, mi tornò in mente il racconto di mio nonno riguardo alla casuale morte di un avo in convento e all’inspiegabile e immensa donazione fatta dallo stesso al padre superiore, con le successive tragiche vicende nel tentativo di riavere la proprietà.

    Ecco!, all’improvviso capii a che cosa si riferiva il frate del sogno.

    Ma perché si era rivolto a me? Ma certo: ero l’unico ancora in vita, l’ultima memoria storica!

    Ma trasformare il fatto di cronaca in un libro non mi sembrava un’impresa di cui avrei potuto essere capace. Però il frate era uscito dal cartellone di un cantastorie… Mi aveva forse dato un’indicazione?

    Presi un quaderno e una matita, divisi il primo foglio in riquadri e nel primo scrissi La guerra. Poi girai pagina. Non avevo idea di che cosa avrei scritto, ma come se stessi sentendo la voce del cantastorie, la mano incominciò a muoversi.

    Si penserà: L’antenato, il frate, l’apparizione… Costui è un imbroglione o è uno un po’ matto!.

    Non importa. Questa è un’affermazione gratuita.

    Rimettete il libro dove l’avete preso, un buon sogno a voi e tanti saluti.

    Se invece la curiosità supera la diffidenza provate a leggere, poi esprimerete il vostro consiglio. Ed è giusto che esprimiate la vostra idea anche a proposito di un possibile epilogo. Vi offro un paio di alternative, completamente diverse tra loro, che condurranno allo stesso esito ma percorrendo strade completamente diverse.

    Avete tutto il diritto di scegliere.

    La iurnata è finita

    Lui suli va a traccudari

    Nda ottu iorna vi vogghiu cuntari

    L’amuri di la picciotta e di lu militari

    Ca cento patimenti aviano a passari.

    Picchì non c’è sentimento senza turbamento

    Non c’è amuri senza duluri.

    Ascutati allura na storia di sta terra

    C’accuminciau quannu c’era a guerra…

    La giornata è finita

    Il sole va a tramontare

    In otto giorni vi voglio raccontare

    L’amore della ragazza e del militare

    Che cento patimenti dovettero passare.

    Perché non c’è sentimento senza tormento

    Non c’è amore senza dolore.

    Ascoltate allora una storia di questa terra

    Che iniziò quando c’era la guerra…

    Luglio 1943. Aeroporto di Comiso, Sicilia. Ore 14.50.

    Il tenente pilota Frank Gange si presentò nell’anticamera del comando del generale Ranson e, rivolto all’attendente, gli disse: «Potete avvisare che avete trovato l’uomo che cercavate».

    Un ok al telefono.

    «Bene, figliolo!» esordì il generale vedendolo. Poi, guardando il colonnello lì accanto, gli disse: «Ecco il siciliano che ci serve. Anche se è nato a…?».

    «Eureka, signore!».

    «E come mai conoscete così bene questa lingua?».

    «Mio padre era nato qui, e mi ha sempre parlato in siciliano oltre che in inglese».

    «Allora spero che abbiate imparato bene, perché da questo dipenderà la riuscita della missione. E anche la vostra vita».

    «Ditemi il vostro nome».

    «Frank Gange, signore».

    «Gange… Mi dice qualcosa…» mormorò il generale guardandolo e corrugando la fronte come a pensare.

    «Forse vi ricordate di quando siete venuto nella nostra proprietà a trovare Bill, con il quale avevate frequentato l’accademia».

    «Ah, ecco! Fu allora che mi presentò il cognato italiano, Gange, appunto… Che memoria che ho!» esclamò soddisfatto.

    Poi, fattosi serio, prese il telefono e disse soltanto: «C’è».

    Rimase qualche istante all’ascolto di quanto gli diceva l’interlocutore poi disse al tenente: «Si presenti domattina alle otto dal colonnello Milton. E buona fortuna!».

    Alle otto Frank entrò in anticamera, dove stranamente non c’era l’attendente, ma un civile seduto a guardare la porta che dava all’interno, sulla quale, attaccato con una puntina, c’era un foglio con la scritta Colonnello Milton. Più sotto, sempre fissato con una puntina, un altro foglio con scritto Non disturbare.

    Salutò e si sedette. Ma già dopo un minuto incominciò a guardare l’orologio; dopo cinque minuti, pensando che aspettare inutilmente non fosse il modo migliore per incominciare una missione in cui gli si prospettava di poterci pure lasciare le penne, si rivolse alla persona che stava attendendo con lui.

    «Sa con chi è impegnato il colonnello?».

    L’uomo lo guardò, ma non rispose. Era come se non avesse capito. Allora gli rifece la stessa domanda in siciliano.

    «Sono spaventato e non so nulla…» rispose l’uomo. Poi, lui stesso, incominciò a porre una serie di domande: sul perché si trovasse lì, perché fosse stato prelevato la mattina da due militari e portato in quella stanza, dalla quale gli avevano fatto capire di non muoversi. Avendo a quel punto trovato un americano che capiva – anzi voleva addirittura delle spiegazioni da lui – era rimasto sorpreso.

    Frank cercò di calmarlo, spiegandogli che se non aveva fatto nulla non doveva temere; forse il motivo per cui si trovava lì aveva a che fare con il suo lavoro.

    L’uomo rispose che faceva il sensale, ossia l’intermediario, tra contadini, allevatori e commercianti e a quel punto, come se all’improvviso si fosse levato un dubbio, quasi risollevato disse: «Magari voi americani avete bisogno di frutta, di bestiame, di pecore, di capre, di latte, di uova, di pesche, di pomodori, di arance… No, a luglio niente arance!».

    Ogni volta che elencava un prodotto cercava di mimarne la forma, come pensando che l’americano non capisse. Ma questi invece rispondeva immancabilmente: «L’aia caputu!».

    Lui però continuava: «C’è racina, tanta uva, buona e dolcissima…».

    Il tenente, un po’ per rassicurarlo un po’ per distogliere il pensiero da quello che voleva sapere sulla missione, gli ripeteva: «Aia caputu, aia caputu…».

    Improvvisamente la porta si aprì e il colonnello uscì ridendo insieme al suo attendente.

    «Abbiamo ascoltato tutto!» disse rivolto al tenente. «Del siciliano noi non abbiamo capito nulla, ma lei invece a quanto pare sì; la conferma l’avremo comunque dal professore Zaccà, che è la persona con cui lei ha parlato e che è stato messo qui apposta: è un docente di lingua inglese in una scuola di Ragusa e ci potrà dire se lei è in grado di capire e parlare il siciliano, in modo tale da poter essere confuso in mezzo ai siciliani».

    «Sembra un siciliano, uno vero. Non sembra nemmeno americano…» fu la sentenza.

    A quel punto il colonnello, congedato il professore, si rivolse nuovamente al tenente: «Mi segua, tenente. Da lei ci aspettiamo molto… ».

    Nella stanza del colonnello vi era, su un tavolo, un’enorme cartina della Sicilia. Un dado da gioco era posato su una città: Ionia.

    «Vede» disse il colonnello «questa città è nata per ordine di Mussolini, dall’unione delle due città di Giarre e Riposto».

    «Lo so» rispose il tenente Gange «mio padre era proprio di Riposto».

    «Ora dovete ascoltare bene quello che bisogna fare. Bisogna far credere ai tedeschi, che si sono attestati nella piana di Catania con grandi armamenti, in grado di bloccare per lungo tempo l’avanzata verso nord, che stiamo cercando di attaccarli con uno sbarco in quella zona e che quindi stanno per essere accerchiati. Voi vi imbarcherete su un b17 in abiti civili e partirete domani all’alba. L’azione sarà così congegnata: saranno due i b17 che, arrivando dal mare, lanceranno un po’ di paracadutisti in acqua. Non vi preoccupate, non vogliamo ucciderli… Sarà quasi l’alba e ciò che paracaduteremo saranno in realtà solo divise riempite di paglia e pietre, in modo che vadano a fondo. Un secondo gruppo sarà paracadutato sopra il santuario di San Tommaso; in questo caso le divise saranno riempite di sola paglia: in questo modo si spargeranno in un ampio raggio e di conseguenza i tedeschi perderanno più tempo per la ricerca. Attaccato a uno di questi finti soldati ci sarete voi. Quando toccherete terra prenderete la sacca con l’esplosivo e vi dirigerete verso il mare. A circa cinquecento metri si trova il mercato della frutta e verdura, dove comprerete qualche cesta di merce per occultare tutto quello che vi siete portati dietro. Poi troverete un posto dove nascondervi in attesa del primo bombardamento».

    «Mi dirà lei come individuare il posto?».

    «I nostri ricognitori hanno visto, entrando dal mare, che dalle 4.52 il sole illumina la cupola dorata del santuario, che si trova in cima alla collina che sovrasta il paese; successivamente viene illuminato anche tutto l’abitato. I due b17 continueranno a salire verso l’Etna, per effettuare il lancio dei paracaduti in mezzo ai boschi di castagni», che trovandosi a quota duemila-duemilacinquecento metri, saranno ben illuminati: i tedeschi avranno così l’impressione che sia in corso un grande attacco da terra, in attesa di un probabile sbarco sulla costa. Abbiamo intenzione di entrare nel porto di Riposto. Avranno probabilmente un intervallo di qualche ora di dubbi, finché non ci sarà la conferma che anche quelli paracadutati in montagna sono manichini; allora penseranno che l’attacco sarà dal mare e lei nel frattempo dovrà rafforzare questa loro convinzione facendo saltare in aria, durante la notte del secondo bombardamento, i punti sul torrente lungo la statale 114 e sulla ferrovia. I comandi attestati nella piana di Catania saranno convinti di poter essere accerchiati e forse ciò li spingerà ad abbandonare la difesa della città. Quindi lei dovrà aspettare nascosto, in attesa del nostro arrivo per liberare il paese».

    Durante quella lunga spiegazione Frank non aveva fatto altro che annuire; non aveva posto alcuna domanda, sicuro che tutto sarebbe andato come programmato. Diede un ulteriore sguardo alla cartina e chiese di poterne avere una più piccola, da studiare con calma nel suo alloggio.

    «Era già previsto» gli disse il colonnello Milton allungandogliene una che si trovava accanto a quella grande.

    Il tenente Gange salutò dicendo: «Ci vediamo a Ionia».

    I due b17 decollarono alle 4.00.

    Su quello che trasportava il tenente Gange, appoggiate alle pareti nelle posizioni più strane, le circa venti divise imbottite di paglia sembravano chiacchierare tra loro. Frank, abituato a stare in cabina di pilotaggio piuttosto che a fare da passeggero, andò a parlare con i piloti, mentre i quattro avieri che avrebbero dovuto poi paracadutare i manichini se li stavano giocando a poker.

    «Dieci minuti al lancio!» disse il comandante.

    Tutti si misero all’opera e ciascuno degli avieri si preparò per il lancio. Frank indossò il suo paracadute e, come d’accordo, comunicò ai militari che si sarebbe lanciato per undicesimo.

    Uno degli avieri gli chiese a che cosa servissero e soprattutto che cosa ci facesse lui tra questi. Frank rispose che non aveva la minima idea di che cosa andassero a fare i manichini, ma in quanto a lui aveva un appuntamento con una ragazza.

    «E non potete farla aspettare ancora un po’?» gli chiese l’aviere.

    «No! Voglio arrivare prima di tutti gli altri… Non voglio correre il rischio che qualcuno me la porti via!».

    Risero per smorzare la tensione, mentre si sentiva il primo colpo alla contraerea.

    «Un minuto al lancio!» disse il comandante, mentre il primo aviere, con il portellone già aperto, era pronto a lanciare il suo manichino e ad azionare l’apertura del paracadute.

    «Go!» esclamò il comandate.

    In una confusione di uomini e manichini che si muovevano come automi, si procedette al lancio.

    «Go! Go! Go! Go! Go! Go! Go! Go! Go! Go!».

    Il tenente, improvvisamente colpito dall’aria fresca, accanto al suo manichino guardava verso terra, cercando la cupola dorata che non si vedeva. Sotto di lui il buio; mentre scendeva vedeva solo un lontano riflesso del mare dato dalla luna al tramonto e in alto, verso l’Etna, già illuminati dal sole, gli aerei che prendevano quota. Guardò nuovamente il mare, riguardò sotto di sé e quasi miracolosamente scorse un bagliore, prima leggero, poi sempre più acceso. Ecco la cupola: nell’arco di tempo di circa un minuto era diventata splendente. Vide che le era quasi sopra, ma la brezza mattutina lo spingeva verso il mare, per cui agitandosi cercò di dirigere il paracadute verso la meta prefissata. Improvvisamente, quando pensava di essere ormai arrivato, sentì dei colpi. Non capiva se fossero diretti a lui, ma sapeva che se così fosse stato avrebbe fatto un gran bel botto qualora un proiettile avesse colpito l’esplosivo che trasportava nello zaino.

    Udì una seconda scarica e avvertì come degli strattoni. Stavano sparando contro di lui e avevano colpito il paracadute, ma fortunatamente nel frattempo era arrivato dietro alla cupola, che a quel punto gli fece da riparo. Sentì altri colpi, ma oramai aveva toccato terra.

    Arrivò un po’ scomposto, cadendo in avanti proprio sopra a quell’insolito compagno di viaggio. In pochi secondi si riprese: si trovava proprio in fondo al grande cortile davanti alla chiesa. Si liberò del manichino e, ritrovandosi circondato da possenti mura, cercò una via d’uscita per raggiungere il mare, dove avrebbe trovato il mercato. A quel punto incominciò ad avvertire una fitta al braccio sinistro; perdeva sangue: se ne accorse vedendo alcune gocce che cadevano sulla terra nera. Se i tedeschi le avessero viste lo avrebbero trovato. Allora strappò la camicia e cercò di tamponare la ferita; non sembrava grave, ma le tracce di sangue che aveva lasciato potevano essergli fatali, perché i tedeschi avrebbero capito.

    Nel frattempo la luce del sole aveva incominciato a illuminare la parte del cortile, tanto che si vedeva chiaramente il paracadute con il manichino. Pensò che lo avrebbero scoperto presto, soprattutto quando vide il cancello del retro della chiesa aprirsi.

    Uscì un uomo con una lanterna in mano che gli chiese: «E tu chi sei?».

    «Sono un contadino… Sono

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