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La lanterna nera
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E-book220 pagine3 ore

La lanterna nera

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Info su questo ebook

I primi vagiti della scienza e del metodo sperimentale furono accompagnati da diffidenza e sospetti di pratiche occulte; le menti più acute del XVII secolo come Galileo e Keplero non ne rimasero immuni. Ma che cosa sarebbe accaduto se a tali approcci si fosse arrischiata una giovane donna? Praga, agli inizi del XVII secolo, era la capitale dell’impero governato da Rodolfo II d’Asburgo, sovrano visionario, anarchico, amante delle arti, delle scienze e dell’alchimia. Presso lo Hradschin convergevano scienziati come Tycho Brahe e lo stesso Keplero, artisti come Giovanni Arcimboldo, occultisti come John Dee ma anche ciarlatani, truffatori e lestofanti provenienti da tutta Europa. Proprio in quegli anni si tenne a Praga pubblica dimostrazione delle potenzialità della “lanterna nera”; il dispositivo, antenato del cinema moderno, proiettava immagini che atterrirono gli spettatori dando origine a un’esplosione di paura e confusione che portò allo scoppio di un incendio. Da questo episodio trae spunto la storia di Elke che studia i fenomeni ottici utilizzando rifiuti, cocci di vetro e specchi e che, scambiata per una strega, finisce per attirare le morbose attenzioni del sovrano, il quale incarica il matematico imperiale Giovanni Keplero di investigare. Da un iniziale incontro intriso di diffidenza e ostilità nascerà lo spunto per il primo trattato di ottica della storia, che lo scienziato riconoscerà come proprio solo dopo aver affrontato una drammatica serie di imprevisti, compreso l’arresto di sua madre, accusata di stregoneria e pratica di arti magiche. Un romanzo affascinante, che conduce il lettore nel pieno del Seicento, facendogli conoscere da vicino una storia poco nota.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2020
ISBN9788868512811
La lanterna nera

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    Anteprima del libro

    La lanterna nera - Alberto Frappa Raunceroy

    pascal

    Una lettera, lo scioglimento di un nodo

    Se le vicende che sto per riferire non cadranno nell’oblio sprofondando con me nella tomba ma potranno essere conosciute e divulgate è merito di un involucro che ricevetti nel gennaio del 1631 quando da nove anni risiedevo nella città di Udine. L’involto era stato inviato da Sagan, in Slesia; frantumato il sigillo di ceralacca, scoprii con meraviglia che proveniva da Giovanni Keplero. La notizia della sua morte si era sparsa, ma il contenuto aveva viaggiato otto mesi prima di raggiungermi.

    Dischiuso il pacco, vi trovai un libro e una lettera dello scienziato che avevo frequentato a Praga quando ricopriva la carica di matematico imperiale al servizio di Sua Maestà Cesarea, Rodolfo II.

    Riconobbi una copia della Dioptrice in cui per la prima volta si esponeva una teoria geometrica della luce attraverso lenti. Rimasi sbigottito scoprendovi schemi con la descrizione di apparati ed esperimenti che permettevano di calcolare, per mezzo di formule trigonometriche, la rifrazione dei raggi di luce, dall’aria al vetro e viceversa. Il testo proseguiva stabilendo che cosa si doveva intendere per angolo di incidenza e di rifrazione ed enunciava le leggi che descrivevano tali fenomeni. Un groppo in gola mi immobilizzò: riconobbi nello scritto molti dei ragionamenti che, a livello inconsapevole ed empirico, aveva portato avanti per tutta la vita colei che era stata causa e fonte delle più grandi inquietudini e gioie della mia esistenza. Passai alla lettera che accompagnava il pacco e compresi.

    Vi scrivo dopo una lunga e dolorosa esperienza che ha toccato la mia famiglia e ha causato in me ripensamenti e rimpianti sull’atteggiamento che tenni nei confronti di colei che a Praga tutti chiamavano la piccola strega sapiente. Come sapete, l’imperatore Mattia, fratello del nostro sovrano, dopo la morte di Rodolfo II, ebbe la compiacenza di confermarmi nel ruolo di matematico imperiale ma dato il clima che si era instaurato preferii trasferirmi a Linz, in Alta Austria, dove in una piccola scuola esercitai il ruolo di matematico distrettuale. Fu lì che ricevetti la notizia che cambiò la mia vita: mia madre Katharina era stata accusata di stregoneria; le vicende che portarono all’istruzione del processo contro di lei si protrassero per sei anni. Nel 1620 decisi di incaricarmi della sua difesa. Raccolti carte e strumenti, mi trasferii nel Württemberg, dove trascorsi un anno cercando di scagionarla da accuse infamanti e di farla uscire di prigione. Vivendo in prima persona le circostanze del processo mi tornò in mente la vostra terribile vicenda e mi resi conto di quanto aveva pesato su di me il pregiudizio. Riconobbi nelle accuse a mia madre la medesima furia che aveva azzannato la vostra piccola donna e fu allora che iniziai a rileggere gli appunti che mi inviaste. Sappiate che sono pentito perché fu per merito di una creatura ingiuriata e diffamata che compresi quanto la teorizzazione logico-matematica, non importa quanto lucida, non può garantire per se stessa la verità; che la più meravigliosa teoria logica non ha nessun significato nelle scienze naturali senza il confronto con la più esatta esperienza.

    Vi imploro di voler accettare le mie scuse per tutti i dubbi che ho nutrito verso di voi e per le umiliazioni che ho indirettamente causato a quella debole creatura dalla volontà d’acciaio. Non piangetela, perché essa rivivrà in eterno tra le righe del trattato che vi ho mandato.

    Giovanni Keplero,

    matematico di Sua Maestà Cesarea

    I

    L’avevo sempre guardata senza vederla.

    Mi rendo conto solo ora che dell’istante in cui per la prima volta appuntai la mia attenzione su Elke non rammento né il giorno né l’anno ma so per certo che ora fosse. L’orologio che avevo appena riparato segnò le sette di sera con un ritardo di tre minuti sulla ferrigna puntualità dei meccanismi più recenti: era un congegno che risaliva a due secoli prima. Il laboratorio era ingombro di segnatempo e, allo scoccare di un’ora, suonavano l’uno a distanza di qualche minuto dagli altri. Quel venerando svegliatore monastico a pesi ne accumulava di più, molti di più, per quello mio padre diceva di esserci così affezionato: era obsoleto, come lui. Al prorompere dello scampanellio lei entrò con andatura nervosa e zoppicante e, con l’orgoglio dei bambini che vogliono mostrare una meraviglia ai genitori, porse a mio padre due fogli manoscritti.

    Il vecchio afferrò le carte e dopo averle avvicinate al volto tentò di esaminarle, non riuscendoci imprecò: la sua visione era sfocata. Elke rimase sospesa in attesa di un cenno di soddisfazione o di una carezza; mio padre la ignorò, raccolse un cacciavite e cercò di stringere due viti; erano immobili lì davanti ma a lui pareva danzassero. Dovette individuarle con i polpastrelli: la vista gli peggiorava di mese in mese. Dopo alcuni tentativi riuscì ma, stremato dalla frustrazione, gettò l’attrezzo e si accovacciò furioso sul pavimento. Era un tormento vederlo ostinarsi in ciò che non era più in grado di fare, ma era sempre stato testardo. «La fortuna non è casuale», gli avevano insegnato i calvinisti, «la fortuna arride ai prescelti da Dio!»

    Ora che la sorte lo stava abbandonando si convinceva di essere stato ingannato, di essere stato in qualche modo tradito: era questo il suo tormento, non il calare delle entrate. Mi avvicinai ai fogli che mio padre aveva abbandonato su un tavolo e vi lessi la contabilità degli ultimi mesi: una cosa di cui non mi ero mai occupato e di cui ignoravo chi si interessasse. I simboli delle entrate e delle uscite erano vergati con una calligrafia goffa e irregolare ma quello che mi stupì fu la constatazione di come gli introiti coprissero a malapena le spese di casa e bottega. Fui disturbato da voci che provenivano dalle stanze delle donne e feci per andare con la scusa di cercare dell’olio lubrificante; in realtà non avrei tollerato l’ennesima sfuriata del vecchio. Elke mi precedette tagliandomi la strada.

    Persi quasi l’equilibrio.

    «Fai attenzione, stupida!»

    Dava sui nervi quella creatura magra, pallida e deforme che ostentava una così imbarazzante vitalità. Lei si voltò e mi sorrise. Il suo sguardo allora mi si palesò come lo specchio di un’intelligenza e di una curiosità che solo mediocri volontà avrebbero potuto negare o coprire dietro le sue difficoltà di movimento. Quel suo rispondere al mio malanimo con una gentilezza, tuttavia, mi indispose ancora di più.

    Le urla si acuirono: Yolande, che nostro padre mi imponeva di chiamare Madame mère, aveva ordinato alla bambina di scendere in cantina per prendere il fagiano che aveva depositato a frollare tre giorni prima. Elke, all’epoca poteva avere più o meno nove anni, scese entusiasta le scale di pietra e un paio di istanti dopo risalì trascinando il volatile che sembrava più grande di lei e, come se avesse voluto comunicare una grande notizia al mondo, cinguettò: «Nella cesta ci sono centotredici cipolle; ne mancano otto rispetto a venerdì!»

    Madame mère illividì: «Non cominciare con le tue scemenze e consegna il fagiano a Heidelore!»

    Elke virò verso la cucina per consegnare il fagotto di piume alla cuoca che, dopo aver colmato un coccio con vino ed erbe per la marinatura, iniziò a spennarlo. Non appena si approntavano quelle manovre, Yolande chiamava a raccolta le bambine perché assimilassero dalla cuoca come cavarsela tra i fuochi: le lasciava giocare quasi tutto il giorno con bottoni, manici di scopa e stoviglie di legno, ma quando arrivava il momento, voleva che imparassero a cucinare e rassettare; erano femmine e un giorno avrebbero dovuto sposarsi: quella doveva essere la loro educazione. Quanto a me, già da due anni passavo il mio tempo nel laboratorio di mio padre per studiare il mestiere; presto anche Johannes e Klemens mi avrebbero imitato. Forse per assecondare un’intuizione vagante, ricordo che scesi in cantina e iniziai a contare le cipolle estraendole una a una dalla cesta e accatastandole di lato. Mi ci volle un po’ per giungere al numero centotredici ma non ebbi il tempo di rifletterci troppo perché mio padre mi chiamò impaziente. Risistemai le cipolle nella cesta e risalii.

    Ecco. Da quel giorno iniziai a isolare i comportamenti di Elke da quelli degli altri nostri fratelli sforzandomi di interpretare particolari che non sfuggivano di certo ai membri della famiglia; iniziai semplicemente ad attribuire loro una valenza differente. In un certo senso mi stupii di non averci fatto caso prima, ma quando si cresce in un nido con altri fratelli che litigano, urlano e fanno i capricci tutto il giorno come è normale che sia, è difficile fare caso a certi dettagli. Realizzai finalmente chi abbandonava i bastoncini che avevo notato ammonticchiati negli angoli, dietro le tende ma soprattutto infilati attorno alle provviste in cantina: erano di Elke e lei non li usava per giocare ma li contava, li raggruppava, li sovrapponeva e poi, rispondendo a chissà quali ragionamenti, rubava un tizzone spento dal focolare e usciva in cortile dove si accovacciava a terra a biffare linee e croci insozzando i muri con segnacci neri. La fuliggine sbiadiva e aveva conferito alle pareti un colorito grigiastro. Madame mère vi gettava secchiate d’acqua ma puntualmente ricomparivano. Iniziai a ragionarci su. Quando rientravo dal laboratorio la sera, lasciavo sfuggire domande a cui Yolande rispondeva infastidita: «Quella lì… sì, è lei che tiene i conti per casa e bottega! Non lo sapevi? È storpia, nessuno la sposerà e dovremo mantenerla per sempre in casa; almeno ci fa risparmiare le spese per una dote… e per un dannato scribacchino-contabile!»

    «Taci Yolande! Tais-toi et mange!», ribatteva mio padre che si esprimeva mescolando veneto, francese e tedesco. «Bisognerà pure che una di loro rimanga con noi per assisterci quando saremo vecchi: vedrai che allora non ti lamenterai più del suo aspetto o di quanto sia ripugnante.»

    Madame mère allora si voltava verso Elke, e la esaminava come fosse stata un’ospite in casa: «Non vedi come è gracile!»

    A quel punto mio padre sbatteva il pugno sul tavolo e urlava: «Donna! Proprio perché è gracile nessuno vorrà sposarsela, non lo capisci? Se non ti basta, te la farai bastare! E ora mangia Yolande, mangia e taci! Tais-toi et mange

    Nessuno rispondeva alla mia domanda sul perché una bambina storpia di nove anni trascorresse giornate intere a formare graffiti su un muro o fosse in grado di gestire una contabilità. Nessuno si fermava a riflettere quanto la cosa fosse fuori dall’ordinario: il tempo era denaro e non andava sottratto al lavoro.

    II

    L’innocenza è un tesoro inestimabile che si possiede da bambini, si dilapida da adulti e si rimpiange da vecchi; se sapessimo giungere innocenti alla morte, ci potremmo beffare di lei come di un innocuo fantoccio. Ma l’esistenza è una congiura a cui gran parte di noi partecipa: partoriti alla vita, vi siamo spinti come in un’arena dove si combatte o un teatro dove si recita. Da quel momento inizieremo a spogliarci dell’innocenza per rivestirci di malizia ed egoismo; del resto ogni commedia esige i suoi abiti di scena.

    Ma che cosa potevo sapere io dei peccati inconfessati di una famiglia e delle stoltezze del mondo? A undici anni avevo solo occhi e la mia città mi attraeva con le sue seduzioni.

    Ginevra era una grande promessa: una rosa grigia sulla riva di un lago il cui stelo scendeva dal Rodano che vi si tuffava con le sue acque gelide, le spine erano le acuminate punte dei bastioni che come prore di pietra fendevano il profondo fossato dove le acque dell’uno e dell’altro si fondevano in un anello blu. La città era stata un tempo fiore avaro che non sbocciava per tutti: si apriva solo verso il bacino dove le mura concedevano un approdo alle imbarcazioni lacustri. Di quella città e del mondo non percepivo la superbia e la presunzione. Nulla sapevo degli epocali cambiamenti che travagliavano i re di Francia e l’imperatore del Sacro Romano Impero, delle lotte religiose che angustiavano Roma e dei morsi dei lupi tedeschi. Quarant’anni prima che io nascessi un frate sassone, Martin Lutero, aveva conficcato un pugnale nel Corpo Mistico di Cristo affermando che il pontefice e i suoi avevano trasformato la Chiesa nella puttana scarlatta di Babilonia e che il papa, vero Anticristo, era la causa delle sventure della cristianità. L’Europa era precipitata nel caos: la Pace di Augusta non aveva sedato l’ingordigia dei maggiori principi protestanti; il Brandeburgo, la Danimarca, il Brunswick e la Sassonia avevano messo gli occhi sui doviziosi principati vescovili di Münster, Magdeburgo e Brema. Il Palatinato, l’Assia-Kassel, Nassau, Anhalt, Frisia non sarebbero state da meno con rendite ecclesiastiche da incamerare: se si erano attaccati al mantello di Lutero era per appropriarsi degli sterminati beni della Chiesa di Cristo. Poco importava se l’instabilità che ne sarebbe derivata avrebbe comportato violenze e distruzioni mai viste.

    Quegli stravolgimenti lontani dalla mia ignara quotidianità avevano esteso effetti sulla mia città; le sue porte si erano spalancate a quanti fuggivano da persecuzioni religiose. Ginevra aveva scalzato il vescovo dalla cattedra e al suo posto aveva chiamato a predicare un francese: si chiamava Giovanni Calvino e costui, durante gli anni che precedettero la mia nascita, vide crescere in maniera esponenziale il numero dei seguaci. Senza soluzione giungevano capifamiglia con carretti colmi di stracci e masserizie dai Paesi Bassi, dai principati germanici e dal regno di Francia. Non pochi tra questi esercitavano la professione di fabbro-orologiaio o orefice-orologiaio così che in capo a pochi anni gli scantinati e i pianterreni dei massicci palazzi ginevrini iniziarono a rimandare il discreto ticchettio dei meccanismi dentati di migliaia di segnatempo. A questi si aggiunse nel 1588 il laboratorio di mio padre che assieme ad altri che parlavano italiano giunse da Udine, capitale della Patria del Friuli, provincia della Serenissima Repubblica di Venezia.

    Di fatto crebbi all’interno dei laboratori di artigiani-profughi. Frequentavo i figli di mastro Philippe Bon e mastro Bayard che erano giunti in città dalla Lorena, quelli di mastro Somellier che era arrivato con la sua famiglia e i suoi sette figli da Dieppe, quello dell’abile Laurent Drondelle approdato da Parigi e quello di Pierre Charpentier fuggito da Orléans. A loro volta i figli di questi maestri venivano a giocare e curiosare insieme a me nel laboratorio di mio padre. Quasi tutti costoro avevano letto un solo libro nella loro vita: l’Istituzione della religione cristiana di Calvino, pubblicata in francese nel 1541, uno scritto che li aveva resi sensibili alle idee riformate. Molti di loro avevano deciso di lasciare il proprio paese a causa dell’ostilità manifestata da re Francesco e dal successore Enrico II: ostilità che avrebbe dato inizio a interminabili conflitti religiosi. Il nuovo governo ginevrino non solo li accoglieva ma iscriveva questi forestieri nella categoria dei borghesi. In cambio di tasse cospicue guadagnavano il diritto di voto e la cittadinanza. Il risultato fu che l’economia di Ginevra subì un’immediata ed esponenziale accelerazione. Soldi. Solidi. Santi. Subito. I protestanti non erano contrari ai soldi, erano contrari che andassero a Roma; la Riforma consistette nello scoprire che tenerli nelle proprie casseforti era meglio che lasciarli ai successori di San Pietro.

    Visto l’effetto che la nuova invenzione aveva sulle masse, Ginevra implementò la stampa e il commercio dei suoi scritti: nel giro di un decennio, l’editoria moltiplicò il numero dei titoli e delle copie di Calvino. I Parlamenti francesi, particolarmente quello parigino, reagirono emettendo una serie di decreti riportanti elenchi di libri proibiti, più della metà dei quali risultava essere stampata a Ginevra, senza riuscire a fermare un flusso continuo nel mercato clandestino. E così, oltre al battito dei segnatempo, la mia città iniziò a rimandare il vigoroso cigolio dei torchi da stampa. Altri rumori, altre urla, più prosaici, provenivano dal riparo dove ero cresciuto sicuro e circondato da una nidiata di fratelli e sorelle. Quattro erano nati dopo di me: due femmine, Elke e Annelore, e due maschi, Johannes e Klemens. Quel prolifico scompiglio era stato favorito da un’improvvisa prosperità. Il benessere era entrato dalla porta principale della nostra casa ed era testimoniato dalle pesanti tende di velluto color muschio sfrangiate in oro che ornavano i due passaggi tra la sala da pranzo al piano nobile e le camere. Le sale erano riscaldate da tappeti di lana in colorati arabeschi provenienti dai Paesi Bassi e da massicci mobili scuri che conferivano ai cameroni un aspetto severo ma confortevole. La cucina al pianoterra rimandava le voci concitate della cuoca Heidelore e di un’aiutante e sfavillava di tegami e pentole in rame. All’ora di pranzo e cena venivano estratte dalle madie posate di princisbecco e ceramiche bianco-azzurre acquistate da mercanti olandesi. Mia madre condivideva malvolentieri il ruolo di padrona di casa con una donna che ci facevano chiamare zia; entrambe utilizzavano nell’intimità semplici abiti di lana, ma quando uscivano al mercato o per le commissioni adottavano gli austeri abiti delle borghesi ginevrine senza altri orpelli che qualche collo di martora o catene d’oro prive di fronzoli. I colori più vivaci erano il verde muschio o un blu cobalto. Unica alternativa concessa: il nero.

    A differenza di mio padre e mia madre,

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