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La pagliuzza d’oro
La pagliuzza d’oro
La pagliuzza d’oro
E-book365 pagine5 ore

La pagliuzza d’oro

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Info su questo ebook

La pagliuzza d'oro: Ha un'essenza l'anima? Qual è la sua consistenza? La risposta a queste domande è leggera e preziosa come una pagliuzza d'oro che ci invita a una sua ricerca. È quello che prova a fare in questo libro Giuliano Adler, ripercorrendo alcune tappe della vita di Amedeo Bülow, evitando scelte scontate, preferendo soffermarsi su avvenimenti anche obliqui che caratterizzano la formazione dell'identità del protagonista. Un romanzo di formazione che si svolge sullo sfondo di una Trieste mitteleuropea, dove si susseguono eventi, suoni, dettagli dilatati, aneddoti e riflessioni, che non cedono alla nostalgia e che coinvolgono il lettore in questo viaggio appassionato
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2020
ISBN9788830618633
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    Anteprima del libro

    La pagliuzza d’oro - Giuliano Adler

    adler-piatto.jpg

    Giuliano Adler

    La pagliuzza d’oro

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-1863-3

    I edizione elettronica febbraio 2020

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I

    Variazioni del peso corporeo. Infinitesime, continue, nel tempo. Variazioni del peso specifico corporeo; il corpo acquista o perde peso specifico. In relazione a cosa esso si modifica, come si misura la effettiva consistenza di un corpo, quando un corpo diventa più solido ed in relazione a cosa?

    Isola di Caprera, giugno inoltrato. Sto facendo la posa del morto nella caletta deserta: il mio corpo fluttua leggermente sulla superficie perfettamente liscia dell’acqua, come sospeso, sostenuto da trasparenti dita o teso da un filo leggero.

    Non mi capitava di farla da tempo, la posa del morto. Da sempre, solo con difficoltà riuscivo a tenere la posizione, e mai per molto. Non che qualcosa andasse storto come un’onda un po’ più grossa, qualche nuotatore che passava troppo vicino, il richiamo di qualcuno: sta di fatto che dopo un po’ … affondavo; dovevo trattenere il fiato, contrarre i muscoli, piegarmi per guadagnare qualche momento. Il mio peso specifico non era quello adatto per galleggiare.

    Ora esso fluttua leggero, si lascia trasportare. Posso far correre il pensiero. Mi addormento perfino per qualche istante.

    Me ne sto lì, galleggiante, in perfetto equilibrio sul fluido, sospeso. Potrei rimanere lì all’infinito, a pensare, a lasciarmi andare, in uno stato tra il sonno e la veglia, sospeso tra terra e cielo, come un astronauta abbandonato nello spazio, o uno dei tizi che si immergevano nella vasca di deprivazione sensoriale.

    Cosa è cambiato? Sono io sempre me stesso, ho perso qualcosa? Ricordo di aver sentito di esperimenti che, alla ricerca della consistenza fisica dell’anima, pesavano un corpo immediatamente prima e dopo il momento della morte pare trovandoci una lievissima differenza, un alleggerimento. Sarà mica avvenuto questo, il sopravvenire silenzioso dell’exitus, il fatale cambiamento di status?

    Il galleggiamento in perfetto equilibrio tra i due elementi, superiore ed inferiore, si accompagna allo sfumare della percezione dei miei confini corporei, all’abbandono di sé, al rilascio delle tensioni dell’organismo e degli stress della mente.

    Qualcosa è cambiato: non sono lo stesso, questo è certo. Il mio corpo ha modificato la sua consistenza intrinseca, il rapporto tra sé e gli altri elementi, il suo punto di equilibrio, il punto in cui riesco ad essere e sentirmi meravigliosamente sospeso. Un punto magicamente ideale. L’esperimento casualmente effettuato lo comprova!

    L’età mi ha alleggerito e reso più etereo? Il passaggio del tempo rende più leggeri come si dice renda più liberi? Allora non esiste il peso degli anni ma dovremmo piuttosto parlare della leggerezza degli anni? La maturità è la vera età della leggerezza? O se non ho perso l’anima, che cosa ho perso, che cosa mi ha abbandonato? Qual è il senso di questo esperimento, ho davvero scoperto oggi qualcosa, oppure mi sono semplicemente tolto un peso di dosso?

    II

    Mi è capitato poco fa di assistere alla replica televisiva di un programma dedicato ad una serie di lezioni tenute da Leonard Bernstein insieme con la New York Philarmonic Orchestra credo negli anni ’60, nel corso della quale il Maestro intratteneva gli ascoltatori marcando le differenze di colore che gli stessi strumenti o le stesse sezioni dell’orchestra presentavano nella esecuzione di brani di diversi autori: il suono di un oboe o di una sezione di archi era diverso in Brahms, in Debussy, in Stravinsky o in Gerswhin, sempre diverso. Secondo il Maestro si poteva parlare di carattere del suono, ed in particolare si poteva distinguere un carattere tedesco distinto e diverso da un carattere francese o da un carattere americano, ciascuno di essi con caratteristiche diverse e in qualche modo riconoscibili e comuni. Non parlava di armonia, melodia o contrappunto, e nemmeno di stile, ma di puro suono, carattere del suono.

    Sempre secondo l’autorevole conduttore, il suono avrebbe un carattere suo, primigenio rispetto alla scrittura. Quasi un segno zodiacale, un accento. Insomma, se prendessimo Mendelsshon, Wagner, Schumann, Stockhausen, e si riducessero a suono cavando via tutto il resto (il bello si direbbe) riducendoli a lumicino, alla loro essenza elementare, troveremmo la stessa radice sonora, il LA primordiale germanico, la madre della essenza nascosta della musica tedesca, o di quella francese.

    Chissà se anche il suono ha un peso?

    Il carattere viene prima della volontà, e prima ancora del pensiero. Il paesaggio ha un suo carattere, primigenio ed indipendente dal lavoro dell’uomo su di esso. Ecco quindi il carattere del paesaggio italiano, inglese, tedesco. Il paesaggio è un suono, ha un suo suono preciso, ad esso associato, come gli atomi di ferro sono sempre atomi di ferro, e gli atomi di mercurio sono sempre atomi di mercurio, anche se formati da singoli protoni che mai si sono incontrati fra di loro nonostante i miliardi di scambi di elettroni avvenuti in innumerevoli reazioni che hanno fatto di quegli atomi altri atomi, o generato le più diverse molecole e composizioni di molecole, oggetti di consumo, usa e getta, alimenti per animali ed opere d’arte. Qualcuno chiama questa cosa forma, qualcun’altro carattere, Bernstein sembra chiamare questa cosa suono. Per tutta la vita un tedesco farà sempre lo stesso suono base, io ho dentro di me lo stesso suono, da quando sono a quando smetterò di essere e vibrare, come un atomo di ferro resterà sempre un atomo di ferro, qualunque trasformazione avvenga, ed emetterà sempre lo stesso suono, frinirà e vibrerà sempre nello stesso modo. Ma qual è questo suono, come lo riconosco tra i mille che emetto? È come cercare un ago in un pagliaio, o come togliere pagliuzza dopo pagliuzza le montagne di fieno e trovare in fondo la piccola festuca d’oro.

    Attraverso cosa riconosco me stesso da un altro? Come leggo il suono che mi distingue? Un piccolo gesto nascosto, sempre quello da sempre, impercettibile, forse invisibile, un certo modo di incedere – riconoscibile sia nel passo di un giovane che di un vecchio – il modo di guardare d’improvviso, aggrottando le ciglia e piegando leggermente il capo da un lato.

    Posso vivere la mia vita in diverse tonalità maggiori o minori, sviluppare dissonanze, giuocare nell’atonalità, passare da ciaccone a gighe, dal rock and roll al requiem, ma un certo suono, quel piccolo impercettibile movimento delle labbra, mi distinguerà sempre.

    Ma poi, ha tutto questo a che fare con il peso specifico? Può tutto quel fieno pesare meno di un singolo ago?

    III

    L’idea di passare una settimana al mare a La Maddalena è stata una delle migliori da molti anni a questa parte. Ed ha contribuito a rafforzare in me l’idea dell’isola.

    Ma andiamo con ordine.

    Mestre, hotel anonimo, identico a qualsiasi altro potresti trovare a Buenos Aires, Chicago o Kuala Lumpur, stessi arredi, stesse amenities nelle stanze, sala da pranzo altrettanto anonima, cibo idem. Tavolo di colleghi che chiacchierano nella pausa del più e del meno. Siamo quasi a primavera. Alcuni, non ricordo chi, parlano per distrarsi di che faranno nelle prossime vacanze. Annibale, il più anziano tra noi, saldamente conferma che lui da sempre va alla Maddalena, quello, dice è il suo posto. Sorrido tra me e me con un piccolo compatimento: non c’è un solo posto alternativo a tutti gli altri, dico io!

    Nel tempo, racconta, si è spostato da una casa all’altra e ne possiede ben tre sull’isola: una più grande appena acquistata maggiormente discosta dalle altre e due più piccole vicine tra loro che usa dare in affitto stagionalmente. A giugno sono libere: chi volesse di noi commensali profittarne.... Non ci ho pensato un attimo: Annibale, sai che quasi quasi....

    Ho conosciuto la Sardegna solo recentemente, in più che adulta età. Non si tratta di una meta immediata per chi come me è cresciuto nel nord est Italia, ed ho iniziato a frequentarla solo parecchio dopo il mio trasferimento stabile a Roma.

    Ero già sbarcato all’isola della Maddalena due volte; l’ultima soltanto un paio di anni prima, per poi trasferirmi l’intera settimana successiva alla adiacente Caprera, per un tardivo corso di vela sportiva su cabinati: una magnifica esperienza post-giovanile, fatta di sveglie all’alba, letti a castello e corvèe in cucina, ma oltre alla barca da governare, al vento sempre teso e alla branda non avevo praticamente visto nulla, nulla poi della terraferma, se così si può mai chiamare un’isola, figuriamoci un’isola satellite di un’altra isola.

    Già. Un’isola. L’idea di isola.

    Da un’isola parte il Pequod per la sua folle avventura, ad un’isola ritorna Odisseo dal suo peregrinare. Da un’isola si parte ed in un’isola si ritorna, in un’isola il mondo arretra e si fa piccolo, assediato.

    In un’isola si erano ritirati Napoleone e – guarda caso a Caprera – Garibaldi, vi erano stati esiliati. Lì i confini del mondo si restringono, da lì si sale sulle alture per scrutare l’orizzonte con il cannocchiale aspettando che qualcosa appaia: una nave come aspettava il giovane dell’isola del tesoro, oppure… Che un’altra isola appaia?

    Forse un’isola di carne e di viscere, che porta odori di spezie d’oriente, sa di muschio e muggisce? apparirà mai all’orizzonte quell’isola, e sarà ancora lì dopo che ci saremo stropicciati gli occhi per lo stupore? Sarà come la finestra di quella casa nella strada degli orafi di Praga, che appare in numero dispari solo in certi particolari giorni dell’anno, gli stessi giorni in cui uno strano essere silenziosamente gira per le strade del quartiere? Apparirà mai a noi il Leviatano?

    I tempi dell’isola sono diversi dai tempi della terraferma. Non so dire se siano più lungi o più brevi, sono indubbiamente diversi.

    E vi si vive con un respiro diverso. Così feci io quella settimana di vacanza su quell’isola. Vacanza – id est vacatio, mancanza, immunità, esenzione. Assenza delle cose comuni, alienazione dalla routine; se vacanza è vacatio, andare su di un’isola è frapporre una doppia e non singola barriera tra noi ed il resto, scavare un fossato intorno a noi come moderni castellani.

    In quella settimana nell’isola ho portato con me due cose essenziali: un libro e una chitarra, due oggetti non privi di relazione fra di loro.

    Forse non tutti sanno che il padre del grande Neil Young fosse uno scrittore, credo anzi che lo sapessero solo pochi intimi prima della uscita della autobiografia del musicista, che, sull’isola, mi sono dedicato a leggere avidamente, così come avidamente avevo letto quella di Keith Richards. Beh, il padre di N.Y. diceva al proprio ragazzo: scrivi tutti i giorni, e ti stupirai di quello che verrà fuori, e me ne sto convincendo. Come sono altrettanto convinto circa le proprietà autoterapiche della scrittura, specie di quella che viene oltre la metà della vita… Sono o non sono un concittadino di Zeno?

    In realtà si può scrivere solo due volte nella vita, ovviamente laddove non si sia scrittori professionisti: al principio (dove il principio è la giovinezza dei vent’anni, quando si aprono le porte e si comincia a viaggiare), e all’inizio del secondo tempo, a cinquant’anni, ed in effetti questi sono stati i momenti in cui ho sentito presentarsi in me il bisogno della scrittura.

    Scrittura e viaggio: ecco altre due parole che vanno molto d’accordo insieme. Il bisogno della scrittura si presenta in noi – ripeto non per gli scrittori professionisti – come il bisogno di vedere la parte liquida del mondo che si presentava periodicamente ad Ismaele come modo di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione. Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto¹. Il giovane Gordon Pym si imbarcò, seguito da Ismaele, e quindi, o vai per mare, o scrivi!

    E dove si va? "Il posto - diceva Melville - non è sulle carte, i veri posti non compaiono in alcuna mappa", ci sono e basta! E chi ne sapeva più di lui?

    Viaggio dentro un’isola. Moto entro luogo circoscritto.

    Il mio moto entro il luogo circoscritto di quell’isola – o quella coppia di isole Maddalena/Caprera legate insieme dall’artificiale cordone ombelicale di un piccolo ponte, era un lento moto circolare e ciclico, rassicurante come un respiro lungo un giorno: mattinata in una caletta a leggere e balneare; pranzo in casa seguito da un po’ di musica, pomeriggio in altra caletta a balneare (stavolta senza leggere), e quindi – indossata una pesante felpa marinara per difendersi dal forte vento dell’isola reso più frizzante dal sopravanzante calare del sole - a suonare la chitarra nella stessa spiaggia rigorosamente deserta fino a tramonto inoltrato; sonni nei quali ogni tanto un sogno faceva capolino. Una ciclicità rassicurante ed ipnotica, che si vorrebbe durasse stagioni intere.

    Nessun posto quale un’isola è in grado di rassicurare con la sua compatta, solida ciclicità. In altre isole mi sono intrattenuto: beninteso l’isola in questione deve essere tale per dimensione da poter essere abbracciata con uno sguardo o poco più. Così ho passato del tempo autentico anche nelle isole Di Martha’s Vineyard, di Nantucket, di Sitna, di Rügen e di Sylt.

    Su quest’isola questa volta sono venuto da solo.

    Avevo voglia di starmene per un po’ per conto mio. E la cosa mi risulta da qualche tempo abbastanza facile, direi naturale.

    L’età prosciuga, disperde e fa evaporare i liquidi.

    Con l’età le acque si ritirano. Due isole, simili all’interno dell’arcipelago, restano simili per anni, vi crescono boschi, vi piove e vi scende la neve nelle medesime stagioni, sono frequentati dalle stesse mandrie di animali. Gli anni passano, le foreste crescono, i vecchi alberi sono sostituiti dai nuovi e le due isole stanno lì, vivono e crescono accanto, alimentate dallo stesso mare.

    Poi, arriva una stagione in cui, lentamente, le acque iniziano a ritirarsi. Spanna dopo spanna, metro dopo metro, inesorabilmente e sempre più velocemente. Ed emergono le parti sommerse. Passano le stagioni fino al punto in cui ci troviamo di fronte a due isole irriconoscibili e diverse tra di loro: là dove in una sono emerse montagne, nell’altra comparse valli e fiumi, dove nella prima sono emerse foreste, nell’altra appaiono deserti. Il vento non scava più nello stesso modo le diverse rocce. Se un esploratore le sorvolasse ora troverebbe di fronte a sé due nature completamente diverse: solo l’attento osservatore riconoscerebbe in quei due antichi cocuzzoli qualcosa di comune; nel tempo anche gli animali che le abitavano si sono distinti e non potrebbero neanche più incrociarsi fra di loro, mentre i nativi hanno iniziato ad adorare idoli diversi. Chiamiamolo effetto Galapagos. Possiamo anche semplicemente chiamarlo effetto del tempo. Nessuno se ne è andato, nessuno ha fatto nulla, nessuno ha voluto nulla, tutto è accaduto in modo naturale, senza che intervenissero maremoti o sconquassi, ma oramai stanno lì due isole del tutto diverse, che vivono ciascuna di vita propria.

    Ed ecco che qui me ne sono venuto da solo.

    Me ne giro con la bicicletta e con la chitarra, e faccio meno fatica a parlare con me stesso. Così poca fatica che ho ricominciato a scrivere.


    1 Hermann Melville, Moby Dick.

    IV

    Si chiamava Flavia.

    Prima di andarsene da casa, mio padre aveva comperato per noi – e credevamo a quel tempo anche per sé – una piccola casa al mare, che rimase anche successivamente nella disponibilità di mia madre; era – ed è tuttora – in una palazzina di una mezza dozzina di appartamenti circondata da un piccolo giardino, e raggiungibile in un’ora scarsa di auto da Trieste. Iniziai a passarvi le lunghe estati a partire dai primi anni del liceo. Noi avevamo l’appartamento al piano terra che dava sul retro della strada, e che mia madre aveva scelto poiché disponeva di un tranquillo seppur piccolo giardino esclusivo. Erano gli anni ’70.

    Quelle estati erano lunghissime e solitarissime. Non conoscevo nessuno lì e la mia timidezza al limite del patologico mi impediva di profittare delle occasioni che si presentano naturalmente ad un adolescente in una località di villeggianti.

    Andavo sì alla spiaggia, ma solo per camminare da una estremità all’altra della stessa e tuffarmi di tanto in tanto in acqua per allontanare la calura. Convinto che tutti mi stessero ad osservare, non volevo far vedere che ero solo, già che me ne vergognavo da morire. Ricordo bene che passavo le ore più calde del pomeriggio a leggere e rileggere gli stessi fumetti (anche libri alle volte, ma non troppo spesso) sulla sdraio nella terrazza. La sera ascoltavo la radio. Quando il caldo era meno opprimente prendevo la bicicletta, una bici da gran turismo Motobecane verde a quindici rapporti, e facevo con essa dei grandi giri; me ne andavo per i lunghi stradoni pianeggianti ed assolati, deviavo per i paesini e sfioravo le fattorie. Stavo via per ore ed ore, interi pomeriggi. I posti dopo un po’ erano sempre quelli, ma io fantasticavo, quello sì. Ho sempre fantasticato.

    Flavia era la figlia della coppia dell’ultimo piano.

    Non era particolarmente bella, era quello che si direbbe un tipo. I nostri genitori si conoscevano abbastanza bene, pur essendo la loro una frequentazione occasionale, infatti avevano un po’ legato avendo acquistato la casa nello stesso periodo ed essendosi occupati insieme di una serie di cose pratiche legate alla casa. Non si davano del tu: allora non si usava. Lui poi, un triestino piccolo borghese – bancario con non molto in più da fare e cui pensare che controllare lo stato delle grondaie o il livello dell’olio della sua Alfa Romeo Giulia, vero gioiello di cui andava orgogliosissimo, amava occuparsi all’ossessione delle questioni condominiali, e spesso se ne stava in vedetta, sul terrazzo dell’ultimo piano, ad assicurarsi che tutto filasse liscio, quasi quello fosse il suo personale ponte di comando. La moglie era una donna bassa e tondetta dall’aspetto molto dimesso. Non lo era Flavia.

    Io la vedevo passare quando usciva e poi quando rientrava a casa. Ora non saprei dire quanto mi piacesse o quanto la desiderassi. Forse ero più attratto dalle due disinvolte sorelle dell’appartamento di fronte, del tutto più appariscenti, pullulanti di ragazzi automuniti con cui si favoleggiava combinassero chissà che. Forse, infatti, forse... e invece... qualcosa di indefinibile in lei mi attrasse, perché finì così, o solo lasciai che succedesse. Non feci davvero assolutamente nulla per averla, ed anzi cercai addirittura di sfuggirle, terrorizzato come ero dall’idea di dover affrontare una ragazza con i miei soli mezzi.

    Fu lei in qualche modo a scovarmi, a portarmi allo scoperto, a prendermi.

    Un giorno ci trovavamo tutti nel nostro appartamento – genitori e figli intendo perché di solo ragazzi al tempo non se ne parlava proprio – una visita di passaggio, rientrando, di pochi minuti, ce ne stavamo tutti in piedi nel mezzo della sala e qualcuno nominò una discoteca che avevano aperto proprio a pochi passi da casa nostra. Passava, dicevano, per un locale rinomato, assai in voga, e ne discutevano alla nostra presenza i nostri genitori. Io tacevo come al solito, lei interveniva annuendo di tanto in tanto. Cominciai a sentire puzza di bruciato. Strano, vero? Venne fuori che quella sera lei ci sarebbe andata, con la sua compagnia, sta di fatto che ad un certo punto tutti: proprio tutti si girarono verso di me e mi chiesero perché non ci vai anche tu con loro?. Sembrava una congiura, ma era come se di colpo mi si dischiudessero le porte della vita sociale, e al suo più alto livello di intensità: non avevo una compagnia neanche per andare in gelateria e non ero mai stato con amici in pizzeria e ora, improvvisamente, direttamente in una discoteca? E con una ragazza! Era chiaro che ci sarei andato con lei come accompagnatore perché anzi, ora ricordo meglio, prima fecero il conto dei maschi e delle femmine, e uscì che lei non avrebbe avuto un accompagnatore . Ero letteralmente terrorizzato. Il salto dalle scogliere di Acapulco. Tutti aspettavano la mia risposta fissandomi in silenzio. Dopo qualche istante, che durò non so quanto, mi uscì un ci penso che fu seguito da un boato non so se di risa o che. Cedetti alla folla. Non ho mai capito se si trattò di una combine o accadde tutto in modo casuale, ma andò proprio così.

    L’attesa che arrivasse la sera e poi l’ora dell’appuntamento fu devastante. La luce del giorno se ne andava e il momento si avvicinava. Mi sentivo come un condannato all’esecuzione capitale. Pensavo a mille scuse, forse le anche esternai con mia madre ma finirono in nulla; cosa avrei indossato? Cosa avrei detto? Come mi sarei comportato con i giovanotti e ragazze della compagnia più grandi di me? E questa discoteca, cosa mai era? Cosa c’era lì dentro? Lo immaginavo come un luogo segreto e peccaminoso come il ventre di una madre, un orrore di luci e di suoni? L’antro di Polifemo. Mi misi delle scarpe a punta rosso scuro con frangia, ultimo grido, e jeans a zampa di elefante, e poi una maglietta vagamente rosata. In quel genere di cose sono sempre stato al passo.

    L’appuntamento era di fronte alla gelateria del paese. Mi sedetti ad osservarmi la punta delle scarpe sulla ringhiera della gelateria, in attesa dell’arrivo della ganga. Uno dei primi ad arrivare fu un tizio a bordo di una vespa grigio-metallizzato che non abbandonò se non per entrare nel locale, se mai vi entrò. Costui accompagnò la colonna infame dalla gelateria alla discoteca sfrizionando ed impennandosi in continuazione e sciorinando battute salaci e sessualmente allusive. L’unica cosa che mi riuscì di dire quella sera fu che il vespaiolo aveva consumato più benzina in quei 200 metri di quanta da lì a Trieste e ritorno. Per il resto della serata credo che non proferii parola.

    Fu una prova terribile che subii senza superarla, e mi aspettavo già da subito una bocciatura inappellabile, ma la mattina dopo intorno alle 10 lei suonò alla nostra porta per invitarmi alla spiaggia. E così nei giorni a venire, per tutta l’estate.

    La mattina andavamo sempre al mare, in genere vi trovavamo le due sorelle e ci sdraiavamo lì con loro, le sorelle Materassi le avevamo nominate, non senza ironia. Ed io nel giro di pochi giorni ero passato da camminatore solitario a bellimbusto che se ne stava lì a pavoneggiarsi ammirato con ben tre ragazze!

    Era chiaro che lei ed io eravamo una specie di coppia di fatto, e venivamo trattati come tale, ma nessuno di noi due aveva fatto alcun passo. Un giorno andammo a fare il bagno più in là, Flavia doveva fare da balia ad una specie di nipotina. Nell’acqua bassa scherzavamo tutti a coprirci di schizzi ed a spingerci reciprocamente, lei mi sorrideva quando la spinsi per rituffarla di nuovo sott’acqua, quando mi trovai il suo viso sorridente di fronte e d’un tratto la baciai. Ricordo perfettamente quell’istante, le luce bianca del sole, il colore vivido dell’acqua, i rumori dei bagnanti d’intorno, la sensazione tattile che le sue labbra mi diedero, i suoi occhi che si aprivano, e dietro di lei il viso imbarazzato della bambina che aveva intuito come davanti a lei fosse successo qualcosa di speciale.

    Quella sera tornammo nella discoteca, noi due da soli, bevemmo un Alexander, ci raccontammo quali gruppi musicali ci piacesse ascoltare – non ne avevamo ancora parlato - ci baciammo profondamente ed a lungo. Ricordo i suoi pantaloni di lino bianchi come i suoi denti splendenti nelle luci ad effetto del locale.

    L’estate finì, ed io mi sentivo diverso. Continuammo a vederci in città. Abitavamo vicini anche lì, anche se non così vicini, ma di nascosto dai suoi genitori che, sebbene avessero subodorato qualcosa, non avrebbero apprezzato che la figlia stesse con un ragazzo tanto più giovane di lei: io stavo per iniziare la terza liceo e lei era già all’università. Alle volte andavo a studiare alla biblioteca della sua facoltà. Per non destare sospetti io le telefonavo a casa esattamente ad una certa ora concordata dopo pranzo, tipo le 13,32, in modo tale che lei si potesse trovare vicino al telefono dell’ingresso pretendendo di mettere a posto qualcosa. Fingeva fossi la sua amica e ci accordavamo per vederci. Facevamo coppia fissa con questa sua amica, una incredibile stangona dai capelli biondi lunghissimi, ed il ragazzo di lei, un marinaio che navigava davvero, Bruno, ancora più grande di lei: credo che allora avesse qualcosa come 32 anni. Anche i genitori dell’amica avversavano la loro relazione, ma per la ragione opposta alla nostra (oltre che per il fatto che lui fosse un marinaio). Giravamo con l’automobile di lui, un’Alfa 2000, e mi sentivo un re.

    Ero un po’ a rimorchio in quella compagnia di gente molto più grande di me, forse mi consideravano una specie di mascotte, ma nessuno me lo faceva pesare. Alcuni li frequento ancora.

    Dopo quella prima estate arrivò il momento in cui dovetti, come in ciascuno di quegli anni, tornare in collegio. Anche da lì le telefonavo, non di certo tutti i giorni ma credo una o due volte la settimana, sempre usando il medesimo trucco.

    Per telefonare da lì avevamo degli orari precisi ed un posto preciso. Accanto all’ingresso principale della struttura, a fianco della portineria, c’era un centralino telefonico interno con una operatrice fissa addetta ed una serie di cabine telefoniche. Era questa una macchietta di mezza età, Beatrice o qualcosa del genere, con i capelli ricci grigi e degli occhiali spessi come fondi di bottiglia che parlava come una mitragliatrice. Nelle fasce orarie in cui erano confinate le telefonate era quello il luogo più frequentato, ed anche di gran lunga il più fumoso. Si scriveva il numero telefonico ed il proprio nome su di un modulino e lo si passava attraverso una feritoia alla operatrice la quale poi arrivato il proprio turno attraverso un microfono chiamava: Boglione alla cabina 4, oppure Bülow sulla 7, e lì ci si infilava a parlare per delle ore, finché

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