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Echi dallo spazio profondo
Echi dallo spazio profondo
Echi dallo spazio profondo
E-book472 pagine6 ore

Echi dallo spazio profondo

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Info su questo ebook

Dopo tanti anni di ascolto, alla spasmodica ricerca di una prova che dimostri l’esistenza di forme di vita evolute, provenienti da mondi diversi dal nostro, ecco finalmente, un segnale nuovo.
È un impulso potente, che arriva dai margini estremi del nostro sistema solare e porta un messaggio.
Non è amichevole.
Allo stesso tempo, altri oggetti precipitano sulla terra, colpendola in uno dei suoi territori più sperduti: l’Antartide.
Saranno i ricercatori della Stazione Antartica italo – francese Concordia, tra le prime persone a venire a contatto con questi organismi sconosciuti e letali.
Con i pochi mezzi a disposizione, per loro sarà una dura lotta per sopravvivere all’aggressione di particelle grandi qualche micron e organizzate in colonie.
E mentre agli antipodi della terra degli uomini e delle donne stanno lottando per la propria sopravvivenza, nel resto del mondo la popolazione conoscerà gli effetti devastanti di un nuovo virus, capace di diffondersi attraverso il Network Internet per provocare catastrofi e sommosse.
È una nuova peste digitale: ambigua e distruttiva, arrivata dallo spazio profondo, celata sotto un falso augurio di pace.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2020
ISBN9788898555512
Echi dallo spazio profondo

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    Anteprima del libro

    Echi dallo spazio profondo - Lorenzo Pagiaro

    LANCIO!

    PRIMA PARTE

    1

    Stazione Radiotelescopio di Noto, Sicilia.

    Martedì 4 maggio 2027, ore 21:30


    Anche quella era stata una giornata piuttosto movimentata, in quella stazione radio, ancora riscaldata dal sole al tramonto, in una calda giornata primaverile. Il caldo era sempre garantito, anche d’inverno, in quel posto desolato, vicino alla cittadina di Noto, nel punto più meridionale della Sicilia. All’esterno dell’edificio, il cono d’ombra della parabola, da 32 metri di diametro, si era allungato, perdendosi tra i filari bassi delle vigne e degli ulivi.

    Alle ore 21:32, dopo ore passate davanti agli schermi, Marco Proseni si alzò togliendosi gli occhiali. Aveva gli occhi arrossati, per aver fissato troppo a lungo i monitor e per la stanchezza. Eppure, nonostante gli inviti a staccare da parte dell’Ing. Robisi, il suo capo, Marco era convinto di aver captato qualcosa di nuovo con quella parabola puntata verso un punto preciso del cielo.

    Il fenomeno era apparso una ventina di giorni prima, precisamente alle ore 16:15 del 20 aprile. Da un punto definito della volta celeste, erano arrivati dei brevi segnali, di un’apprezzabile intensità. Questi radio segnali avevano fatto avviare il programma principale per l’analisi e la decodifica degli impulsi. Poi nulla; così come si erano manifestati, con altrettanta rapidità questi segnali erano scomparsi. La frequenza misurata nel sensibilissimo ricevitore, raffreddato ad elio per ridurre al minimo il rumore elettronico, era di 8,42 GHz (Giga Hertz). All’inizio si era creduto che questo evento fosse stato provocato da una qualche anomalia dell’impianto radio, oppure del server. Di ipotesi se ne elaborarono alcune, ma poi si accantonò la questione, inquadrandola come un inconveniente di scarso rilevo.

    Finché, inquadrando l’antenna nello stesso quadrante del cosmo, gli strumenti registrarono un altro segnale, uguale al primo per intensità, frequenza e modulazione. Questo secondo episodio accadde due giorni dopo, esattamente alla stessa ora.

    Il responsabile della stazione, Ing. Fabio Robisi, si avvicinò alla postazione del tecnico radio e armeggiò sulla tastiera del computer, per ricevere l’ultimo report dal server principale.

    «Marco, lo vedi anche tu: non riceviamo più nulla su questa frequenza. Non possiamo bloccare l’antenna così a lungo nello stesso punto. Questa mattina ho parlato con i nostri colleghi delle stazioni di Medicina e di Pranusanguni. Anche loro hanno tenuto la loro parabolica puntata sulle stesse coordinate e non hanno ricevuto nulla.»

    Marco sbuffò per la frustrazione e poi replicò.

    «Lo so, ingegnere, ma quel segnale che abbiamo ricevuto per la seconda volta non può essere un incidente. Dopo il primo evento, abbiamo effettuato un’accurata verifica del ricevitore. Abbiamo anche bonificato il computer principale e tutte le periferiche da possibili virus, con esito negativo.»

    Proseni era un ragazzotto di ventisette anni, laureato da poco in ingegneria elettronica ed era arrivato alla stazione di Noto per conseguire un dottorato in radioastronomia. Anche se novizio in questo settore, lo studente si era dimostrato capace e ben preparato. Prometteva bene come astrofisico, se non altro per l’impegno e la dedizione alla ricerca. Come aspetto esteriore, non si discostava molto dai suoi coetanei; girava sempre con una camicia dai colori sgargianti, sbottonata e fuori dai pantaloncini bianchi. I suoi capelli castano chiari erano lunghi e fuori taglio, con segni di calvizie incipienti. Sotto questa capigliatura il suo aspetto era sul trascurato: sarebbe diventato un ottimo professore.

    Dopo una pausa riflessiva, egli proseguì con il suo ragionamento e riprese ancora con la discussione.

    «A Medicina hanno la nostra stessa antenna, con gli stessi ricevitori. Non erano però orientati come noi. L’altra loro antenna, la Croce del Nord, è troppo diversa per ricevere sorgenti radio della stessa lunghezza d’onda in questione. La stazione di San Basilio è dotata di un’antenna grande il doppio, rispetto alla nostra. Eppure, non hanno voluto darci retta e non si sono predisposti. Quando si è verificato il secondo evento, erano girati da tutt’altra parte, in ascolto su frequenze diverse. In questo momento siamo solamente noi a sostenere l’ipotesi di una ricezione extraterrestre, ma non ci crede nessuno. Bella collaborazione.»

    Il responsabile si aspettava una simile risposta. In fondo, anche Robisi concordava con quella dissertazione. I tre principali radiotelescopi italiani erano collocati in tre punti dello stato. A nord vi era quello di Medicina, vicino a Bologna. A sud si trovava quello di Noto, in Sicilia. A formare il terzo vertice di questo triangolo stava l’osservatorio di San Basilio, costruito circa venticinque anni prima, in provincia di Cagliari. L’unione coordinata di questi tre ricevitori permetteva di ricevere segnali radio, con una capacità decuplicata rispetto ad una singola postazione. Il problema era sempre il solito: vi era scarsa collaborazione tra i team dei ricercatori. Ognuno si concentrava sul proprio progetto e accettava le altre direttive, o richieste di collaborazione, con sufficienza.

    Robisi aveva vent’anni in più rispetto a Marco e conosceva la stazione come il palmo della sua mano. Anche lui aveva scelto di impegnarsi nella ricerca scientifica, invece di arricchirsi nell’industria elettronica. Da giovane era stato un bell’uomo, ma conservava ancora un certo fascino, con i suoi capelli e occhi scuri, anche se aveva messo su un po’ di pancetta. Colpa delle troppe notti insonni, passate dentro quella sala radio, la sua casa principale.

    «Va bene Marco, domani chiederò alla gente che sta a Medicina, di rifare il puntamento alla stessa ora. E farò anche di più, manderò una richiesta alle stazioni di Arecibo, Porto Rico e di Murchison in Australia. Loro hanno antenne e strumentazione di gran lunga superiori alla nostra. Conosco qualcuno che mi deve dei favori, mi ascolterà. Tu adesso stacchi e vai a riposare. Non ti reggi più in piedi.»

    Il capo aveva ragione, Marco lo sapeva bene, perché sentiva tutta la stanchezza accumulata in tutte quelle ore passate in ascolto. E poi si sentì rassicurato da quelle promesse, da qualcuno almeno era compreso. Quindi ritornò alla postazione, chiuse il programma sul quale lavorava e ne avviò un altro.

    Si erano fatte oramai le dieci di sera e bisognava predisporre l’attività per il giorno successivo. Robisi inserì le nuove coordinate nel sistema operativo e si preparò a passare la nottata. Si piazzò sulla poltrona, con i piedi appoggiati sulla mensola della stampante.

    «Domani rientra Valentina dalle ferie, Marco. Cerca di renderti più presentabile. Mi hai sentito?»

    Fuori dalla stazione, la parabola ricevente, un mastodonte di oltre 300 tonnellate, orientato fino ad allora verso la costellazione di Ophiuchus, iniziò a muoversi. Mosse il suo grande occhio in direzione di un nuovo puntamento.

    2

    Base Concordia, Regione Dome C, Plateau Antartico, 75°06’ Sud – 123°21’ Est.

    Martedì 4 maggio, 2027, ore 20:00


    Nella stazione italo – francese Concordia, adagiata sul Pack polare, ad un’altezza di 3200 metri sul livello del mare, quella sera c’era grande attività, tra i tecnici e gli scienziati. Quella sera stava arrivando un LC 130 Hercules, un aereo datato ma affidabile, dotato di robusti pattini. Bisognava preparare la pista di atterraggio al meglio. Il quadrimotore proveniva dalla base francese Dumont D’Urville, situata mille chilometri più a Nord, in direzione dell’Australia. Nel suo ventre capace erano stipati viveri, carburante, pezzi di ricambio, farmaci, e il tanto atteso nuovo microscopio LHR TEM (Laser high resolution transmission electron microscope), dieci volte più potente dell’obsoleto microscopio della base. Aleggiava la preoccupazione che potesse succedere qualche incidente, che l’Hercules, vecchio di quasi trent’anni, finisse per schiantarsi sul ghiaccio, per via della tormenta che stava aumentando d’intensità. Un evento di questo tipo sarebbe stato disastroso per i dodici componenti della stazione, avrebbe compromesso la loro sopravvivenza, in un luogo dove la temperatura arrivava anche a 80 gradi sotto zero.

    Negli ultimi anni, il mondo stava assistendo e subendo un insieme di eventi climatici sempre più estremi. Sempre più spaventosi. Un decennio prima, gli Stati Uniti d’America si erano sfilati dal protocollo di Parigi, quello d’intesa mondiale sulla lotta al surriscaldamento terrestre. L’allora presidente americano, un lobbista senza scrupoli, aveva fatto carte false ed alcune promesse, pur di arrivare al potere. Al motto di "America first!", il neo eletto presidente Donald Trump aveva riaperto le miniere di carbone, quasi dismesse. Oltre al carbone, che persino la Cina stava abbandonando, questo leader aveva promosso l’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose. Simili giacimenti sono sparsi in mezza America, dal Nord Dakota alla California. Questa scelta era dettata dalla volontà di rendere il paese americano indipendente a livello energetico e nuovi oleodotti erano stati posati, attraversando le riserve indiane. Le centrali termoelettriche erano ritornate a pieno regime, a favore delle potenti lobby dei combustibili fossili, immettendo gas serra CO 2 in miliardi di tonnellate. La svolta politica di Donald Trump era in netta controtendenza rispetto gli altri paesi maggiormente industrializzati, i quali si stavano convertendo all’energia rinnovabile. Questo succedeva nel 2017 e già allora la situazione climatica terrestre dava segni di gravi scompensi, con l’innalzamento dei mari, siccità e tempeste. Tutti i climatologi e scienziati mondiali, che avevano denunciato l’azione scellerata del presidente americano, furono etichettati come catastrofisti paranoici ed i loro avvertimenti respinti o ignorati. Ora gli stessi puntavano l’indice verso i responsabili politici di quei paesi asiatici, indiani, europei e l’America davanti a tutti, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e ricevendo tutto il supporto economico per trovare una soluzione: salvare il salvabile. Ciò aveva ridato notevole impulso alla ricerca ed all’esplorazione scientifica, soprattutto nei due poli terrestri, dove il ghiaccio si stava sciogliendo a velocità crescente. Un impegno che coinvolgeva le stazioni polari di tutti i paesi nell’angosciosa ricerca di una risposa ad una domanda che tutti oramai sussurravano: si può ancora invertire il cambiamento climatico, oppure abbiamo superato il punto di non ritorno? In questa delicata ricerca, la stazione polare Concordia era in prima linea.

    «Stazione Concordia da Charlie Hotel 6-12, siamo diretti verso la vostra base. Ci siamo appena agganciati alla frequenza del vostro radiofaro. Ci ricevete? Prevediamo l’arrivo da voi tra circa due ore, verso le 22:00, passo.»

    Gli altoparlanti accesi nella sala refettorio annunciarono l’arrivo del velivolo VTCH 6-12, proveniente dalla base Dumont D’Urville, con i rifornimenti tanto attesi.

    «Questo è Jean-Marie!» esclamò René Brunell, addetto alle Telecomunicazioni, mentre correva in sala radio.

    «Charlie Hotel 6-12, qui è la Stazione Concordia, vi riceviamo abbastanza bene. Ciao Jean, sono René...»

    «Com’è la situazione meteo da voi? Abbiamo un bel carico, è importante che la pista sia in buone condizioni.»

    «La pista è in ordine e ben segnalata. La situazione meteo è discreta, in questo momento la tormenta si è spostata verso est. Condizioni di vento stabile, a cinque metri/secondo e temperatura al suolo di -46 gradi.»

    «Ricevuto stazione Concordia. Ci risentiamo tra un’ora. Se notate cambiamenti, avvisateci su questa frequenza, 122.5 MHz, oppure tramite il canale satellitare, chiudo.»

    René Brunell posò il microfono della radio trasmittente, riposizionò il commutatore sull’audio-diffusione e tornò in sala mensa, per dare la notizia agli altri del gruppo.

    René era un tecnico informatico, che si dedicava al buon funzionamento degli strumenti scientifici, computer e server, dentro la base. Era anche un esperto di TLC, e quindi aveva dimestichezza con tutte le apparecchiature ricetrasmittenti, dal satellitare alla radio a onde corte. Alto, carnagione chiara e fisico robusto, René non era un tipo adatto per crogiolarsi al sole. Con quei suoi occhi azzurri, così chiari, egli sembrava un discendente di qualche tribù scandinava, anche se era francese da molte generazioni. Davide Ubbiati, il meccanico, si alzò per primo dalla tavola ingombra di varie tazze di caffè e si rivolse a René:

    «Ehi René, hai chiesto loro se hanno imbarcato anche i ricambi per il gatto delle nevi?»

    «Cos’è successo, si è guastato ancora quel ferro vecchio? – intervenne il capo tecnico Martino Farri - È sempre il Kässbohrer, vero? Sono tre settimane che lo vedo fermo.»

    «Già, è proprio quello, da venti giorni. Metà degli angolari in alluminio, che sono fissati sulle fasce in gomma del cingolo destro, si sono spezzati, o tagliati. Non so. È la prima volta che vedo una cosa del genere.»

    Più che rispondere a Farri, sembrava che Ubbiati meditasse tra sé, pensando ad alta voce. L’aspetto fisico di Davide Ubbiati era opposto a quello dell’informatico René. Il meccanico italiano aveva una corporatura esile, solo all’apparenza. Pur essendo minuto, Ubbiati era agile e vigoroso, lavoratore instancabile. Proveniva dal sud Italia e con sé portava l’allegria di un carattere gioviale, tipico della sua gente. E Farri, seguendo il pensiero del meccanico, commentò:

    «È strana una rottura di questo genere, per dei cingolati che rotolano sulla neve. Al massimo si consumano quei profili metallici, se devi lavorare su del ghiaccio duro, ma non è possibile che si spezzino in così grande quantità.»

    Martino Farri era il capo tecnico, sapeva di tutto un po’ ed era molto, molto curioso. Lui ficcava il naso dappertutto, si immischiava in tutte le attività. Martino passava il tempo girando per la base artica, dall’officina ai laboratori scientifici, facendo domande su domande finché, esasperati, i ricercatori lo cacciavano fuori. Allora il capo, con quella sua camminata allampanata, tipica delle persone alte, magre e dinoccolate, migrava in cucina e lì stava addosso ad Andrea Rafati, il cuoco. Per aiutarlo, diceva lui. Pur essendo così invadente, Martino Farri sapeva farsi perdonare ed accettare di buon grado perché, grazie alla sua arguzia, era capace di trovare la soluzione ai vari problemi. Come un bravo prestigiatore, lui riusciva sempre ad estrarre un coniglio dal cilindro. Le osservazioni ed i consigli suoi erano sempre tenuti in grande considerazione, tanto che il suo ruolo, all’interno della comunità, equivaleva a quello di vice responsabile.

    Il cuoco era un omone grande e grosso, sempre indaffarato attorno ai suoi fornelli, intento ad armeggiare con tegami e padelle, fischiettando. Con i suoi folti capelli rossi, sembrava il capitano di un veliero più che uno chef. E comandava come tale, a pieno diritto, dal momento che era compito suo sfamare quella ciurma variamente assortita.

    La responsabile della stazione Concordia era invece Angelique Piccard che proveniva da Marsiglia, in Provenza. Angelique era esperta in glaciologia e chimica dell’atmosfera. Tutto quello che veniva estratto dal ghiacciaio, con i carotaggi, passava sotto l’occhio elettronico del suo microscopio. Era stata proprio lei, in una precedente missione sull’Artico, a segnalare come lo scioglimento dei ghiacci procedesse ad una velocità doppia, rispetto alle previsioni elaborate otto anni prima. La competenza e le capacità della glaciologa erano così riconosciute che nessuno si permetteva di contraddirla. Nessuno osava interromperla, quando presentava le sue analisi. Al di fuori del suo ramo di competenza, benché investita del massimo grado di comando, Angelique Piccard non dimostrava alcun atteggiamento autoritario. Un po’ in sovrappeso, in quanto dedicava attenzioni e risorse al lavoro, più che alla propria persona, ella delegava volentieri il ruolo, che le era stato imposto, a Martino.

    «Angie, una volta che abbiamo terminato di sistemare il carico in arrivo, e che l’aereo è ripartito, passa da me in ambulatorio, che facciamo qualcosa per il tuo raffreddore. Non vorrei che si trasformasse in bronchite e mal di gola, non possiamo permettercelo. E questo vale per tutti. Ci siamo intesi?»

    La voce arrivò dal corridoio, da Giovanni Battista Sidoni, il medico immunologo della missione. Prima di entrare a far parte di quella spedizione, Giovanni Battista aveva prestato la sua opera in un’organizzazione umanitaria: Médecins Sans Frontieres, M.S.F.. Fin dal 1971 M.S.F. operava nei punti più travagliati del mondo, dove imperversavano conflitti armati ed epidemie di varia natura. In qualità di immunologo, Sidoni si era speso con tutte le sue energie, per aiutare le vittime maggiormente esposte a questi flagelli: le donne e i bambini. Finché, di fronte alla più grande epidemia di Ebola, scoppiata nel 2013, in un remoto villaggio della Guinea, comprese i suoi limiti. La sofferenza che vedeva attorno a sé mise in crisi le sue convinzioni e l’illusione di poter cambiare le sorti di quell’umanità, abbandonata e dimenticata dai potenti. Fu così che, dall’autunno del 2014, all’età di trentaquattro anni, Battista lasciò l’ M.S.F. per ritirarsi dal clamore di quei luoghi. Una tale e drammatica esperienza di vita l’aveva invecchiato precocemente, imbiancandogli i capelli e la barba, un tempo neri corvini. Invecchiata era anche la pelle del suo viso, che si era cotta al sole dell’Africa e appariva solcata da rughe profonde, sulla fronte e vicino alla bocca. La forza e l’intensità del suo sguardo non si erano però piegati al dolore. I suoi occhi scuri, manifestavano un carattere indomito, di chi ancora non intendeva arrendersi. Umanamente, lui aveva ancora molto da dare, certo. Cambiavano solamente il contesto e il luogo.

    Di rimando pervenne il motto scherzoso di Ubbiati, con una delle sue battute.

    «Mi raccomando Angie, fatti curare. Se ti viene la febbre in laboratorio, sciogli tutte le carote di ghiaccio, prima di esaminarle con il nuovo microscopio!»

    Erano una bella squadra l’equipe messa insieme sei mesi prima dai governi italiano e francese. Ognuno dei componenti era specializzato in una particolare funzione, ma all’occorrenza, tutti si prestavano volentieri alle varie mansioni, aiutandosi vicendevolmente. In un posto desolato, come la landa ghiacciata e sconfinata dell’Antartide, dove gli avamposti delle rispettive nazioni distavano anche migliaia di chilometri, la solidarietà era un requisito indispensabile. Di quel gruppo facevano parte Serge Arnaud, l’elettrotecnico, Beatrice Oberzi, informatica per l’astronomia, Herbert Le Blanc, ricercatore biomedico. Elettronica della scienza era Gisèlle Gaillardin, che aveva un debole per Fausto Gaddia, l’idraulico. A chiudere il gruppo, Isabella Del Bo, fisica dell’atmosfera e del meteo. Quando si riunivano a tavola, chiamati tramite l’interfono da Andrea il cuoco, terminavano i pranzi o le cene in baldoria. Era vietato tenere alcolici, sulla carta, ma il capo Martino era riuscito a ricavare una buona grappa, distillando gli scarti della frutta, verdura e chissà cos’altro. Nelle ricorrenze, nei compleanni ed ad ogni buon pretesto, un bicchierino di quel liquore non mancava. L’allegria è un toccasana per chi vive agli apici del mondo, nelle notti polari.

    La sala si andò svuotando, il resto della compagnia si avviò alle proprie occupazioni e si disperse nei vari locali, in attesa dell’arrivo del cargo aereo.

    Mancava meno di un’ora a questo appuntamento e la pista d’atterraggio era pronta. Il vento polare si era placato e, in quella tarda sera, tutto sembrava tranquillo. Non ci si preoccupò troppo di rivedere il meteo.

    3

    Radiotelescopio di Arecibo, isola di Portorico

    Martedì 4 maggio 2027, ore 10:30


    Aleandro Mùniz aveva appena letto la comunicazione ricevuta dal sito radio di Noto. In quella e-mail, l’Ing. Robisi aveva sinteticamente descritto quanto avevano scoperto venti giorni prima. Il titolo stesso della lettera destava allarme, perché ipotizzava una fonte trasmittente di attività extraterrestre intelligente. Il ricercatore di Arecibo aveva notato che i due eventi si erano ripetuti alla stessa ora: alle ore 17:15, in Italia. Tenuto conto del fuso orario, significava che a Portorico dovevano mettersi in ascolto entro le ore 11:15. Mancava poco più di mezz’ora all’appuntamento. Mùniz non perse tempo, chiuse tutti i lavori relativi a un altro progetto e riprogrammò l’orientamento della gigantesca antenna, secondo le coordinate dettate dalla stazione di Noto.

    Con il suo diametro di quasi 305 metri, l’antenna di Arecibo si poteva considerare tra le più grandi esistenti. Per realizzarla si era sfruttato un avvallamento del terreno, foderandolo con pannelli di alluminio, legati e sorretti da una rete di cavi metallici. Al di sopra del suo gigantesco disco, a 150 metri, era posizionato il ricevitore, in una piattaforma pesante 900 tonnellate e sorretta a sua volta da ben 18 cavi d’acciaio. Per modificare il puntamento, si doveva agire direttamente sulla struttura del ricevitore, visto che lo specchio inferiore era fissato a terra.

    Alle 10:55, nella sala controllo della stazione, tutto era pronto. Pronto era il sensibilissimo ricevitore, raffreddato con gas elio, nella piattaforma sopra la parabola. La frequenza in oggetto era di 8,4 GHz e tutto il sistema puntava in un quadrante specifico nella volta celeste. Pronto era il server, collegato alla radio ricevente, ai monitor e alla rete globale. Pronti erano il ricercatore universitario Aleandro Mùniz, capoturno della base e Rafaél Wood, tecnico di telecomunicazioni.

    Il monitor principale riproduceva una rappresentazione grafica di quello che arrivava dal decoder – ricevitore, sulla frequenza di 8.4 GHz. Una linea verticale sottile rappresentava il valore di frequenza, esattamente al centro del monitor. Nella parte inferiore del quadro si vedevano tante piccole creste che si muovevano nervose e si accavallavano, cambiando forma ed ampiezza, come a formare un basso tappeto erboso. Quel prato irrequieto costituiva il rumore di fondo, generato dai circuiti elettronici e dalle interferenze radio.

    Il primo impulso arrivò cinque minuti dopo le 11:00. Fu molto debole, ma ben definito e distinto dal rumore di fondo. Pausa: ancora rumore di fondo.

    Ore 11:10. Secondo impulso.

    «Madre de Dìos… C’è qualcosa…»

    Mùniz si buttò sulla tastiera della sua postazione, digitò alcuni comandi. Sullo schermo principale il quadro si ingrandì nella sezione dov’era comparso quel picco, perfettamente centrato dalla riga verticale. Il fenomeno era durato poco, dieci secondi circa, ma abbastanza per essere registrato. Una registrazione che confermava quanto aveva sostenuto l’Ing. Robisi nella sua e-mail. La frequenza era esattamente 8.42 GHz.

    «Rafaél, hai visto? Abbiamo ricevuto qualcosa… E’ esattamente come ci hanno scritto da Noto… Vieni qui!»

    Aleandro Mùniz era un tipo che si agitava facilmente e si faceva prendere dalle situazioni nuove, con lo stesso entusiasmo di un bambino. Su quell’isola lui ci era nato e si sentiva messicano come i suoi antenati, anche se aveva cittadinanza americana. Suoi anche i tratti somatici latini: capelli e occhi scuri, su di un fisico minuto ed asciutto, dalla pelle color ambra.

    Rafaél Wood, il tecnico delle telecomunicazioni, si piazzò davanti allo schermo principale, fissando quel tappeto frenetico riprodotto nella parte inferiore.

    «E’ troppo poco quello che abbiamo visto, Aleandro, per dire che sia qualcosa d’interessante. Così breve, è durato solamente dieci secondi. Mah, ho già visto roba del genere. Mi ricordo ancora quella volta che stavamo…»

    Ore 11:15. Terzo impulso.

    La traccia riprodotta sul pannello virò repentinamente dal bianco al verde, per poi diventare gialla e rossa. Al centro del quadro, un picco si stagliava alto e centrale. Potente. Oltre che per l’intensità, questo segnale si distinse dai precedenti due anche per la durata, che fu di 60 secondi. Rafaél rimase a bocca aperta. Anche lui, che solitamente era un tipo compassato e tranquillo, fu scosso dal tremito dell’eccitazione.

    «Rafaél, dobbiamo avvisare le altre stazioni radio, qui c’è qualcosa di grosso. Abbiamo le registrazioni. A prima vista, così, quella mi sembrava una portante modulata. Aveva delle informazioni. Per me ci sono informazioni in quel segnale, ci scommetto.»

    Rafaél sollevò la cornetta del telefono e compose tre cifre.

    «Va bene Ale, va bene: calmiamoci adesso. Sentiamo che dice Raquel, facciamogliela rivedere.»

    Dall’altro capo del telefono, dopo diversi squilli, una voce femminile rispose. Era l’astrofisica Raquel Elivundo, responsabile del radiotelescopio di Arecibo.

    «Raquel? Sì, siamo noi. Ci puoi raggiungere in sala controllo? Adesso sì, è urgente… Davvero sì… Molla tutto, vieni qui… Non è uno scherzo, dai… Grazie.»

    Dopo aver rimesso giù la cornetta, Wood prese un fazzoletto per tamponarsi la fronte e si rivolse al collega.

    «Prepara la registrazione Ale, Raquel sarà qui tra meno di dieci minuti. Lasciamo gli strumenti così come sono, nel caso arrivi dell’altro. Dalla stazione di Noto hanno scritto di aver ricevuto un solo impulso, probabilmente perché loro non hanno un’antenna grande come la nostra.»

    Raquel Elivundo era la più anziana del team e anche la più esperta. Con la sua competenza di astrofisica, riusciva benissimo a sostenere le argomentazioni dei suoi tecnici. Anche Raquel era originaria di Portorico, anche lei aveva i tratti latini della sua gente: capelli e occhi scuri, su pelle chiara però. Non amava stare al sole. Da brava astrofisica conosceva bene il funzionamento della nostra stella principale e ne temeva gli effetti sulla pelle.

    «Ditemi cosa avete scoperto da agitarvi così tanto, e sarà meglio che sia qualcosa d’interessante.» esordì la responsabile, non appena varcò la soglia della sala.

    Rafaél rispose per primo.

    «E’ stupefacente, Raquel, lo devi vedere.»

    «L’abbiamo registrato, è qui…» incalzò Aleandro. L’astrofisica incrociò le braccia e fissò il monitor principale, dov’era appena partita la registrazione.

    «Forza, fatemi vedere, così non perdiamo altro tempo.»

    Anche per lei la visione di quell’evento fu una specie di shock, ma riprese subito il controllo senza scomporsi.

    «Va bene, ragazzi, però calma: dobbiamo confrontare la registrazione con quella arrivataci da Noto. Prima ancora dobbiamo assicurarci che questo non sia un fenomeno locale, fatto da qualche burlone.»

    Raquel si fermò a riflettere, osservò di nuovo la proiezione e poco dopo riprese:

    «Dobbiamo vedere cosa c’è dentro a quell’impulso, dobbiamo decodificarlo, capire se ci sono informazioni. Quando saremo convinti che non è una presa in giro, dirameremo l’avviso alle altre stazioni, come il FAST a Guizhou e lo SKA di Murchison. In Cina e Australia hanno dei sistemi riceventi ancora più grandi del nostro. Chiamerò la NASA, voglio sapere se stanno lavorando su qualcosa. Nel frattempo, ragazzi calma. Non parlate e non chiamate nessuno. Aspettate mie istruzioni e lasciate antenna e ricevitore così come sono.»

    Con quest’ultima raccomandazione, Raquel Elivundo lasciò i due e corse in ufficio. Raggiunta la propria scrivania, la responsabile riavviò il proprio terminale e richiamò la stessa registrazione vista poco prima, dal server principale.

    Effettivamente, sulla sommità di quel segnale, si vedeva con chiarezza che conteneva qualcosa, una modulazione. Quella ricezione non somigliava affatto a quelle ricevute dalle stelle pulsar a neutroni, oppure a una delle quasar. E se avesse avuto ragione quell’esagitato di Mùniz? Intimamente, Raquel sperava di no. Sperava di trovare gli elementi giusti per riuscire a smontare il fenomeno. Sperava proprio di non doversi impelagare in tutte quelle maglie legali e burocratiche del S.E.T.I. (Search for Extra-Terrestrial Intelligence - Ricerca di Intelligenza Extraterrestre).

    Era già successo un fatto, più di cinquanta anni prima, che aveva messo il radiotelescopio al centro di dibattiti e critiche mondiali. Il 16 novembre 1974, da quella stazione, il dottor Frank Drake, docente della Cornell University, aveva trasmesso verso lo spazio un radio messaggio. Il Messaggio di Arecibo era stato diretto verso la galassia Ercole M 13, distante ben 25000 anni luce. Si trattava di un messaggio realizzato con codici binari e chi l’avesse mai ricevuto e decodificato, sarebbe risalito alle informazioni fondamentali della vita sulla terra. Informazioni sui numeri atomici dell’idrogeno, del carbonio, dell’azoto, dell’ossigeno e del fosforo. E poi ancora nozioni su come è fatto il nostro DNA, il disegno della nostra figura umana e il sistema solare nel quale orbita la terra, con il numero dei suoi abitanti di allora. A suggellare la provenienza terrena, il Messaggio di Arecibo si concludeva con la rappresentazione della grande antenna, sull’isola di Porto Rico. Per realizzare questa comunicazione, il dottor Frank Drake si era fatto aiutare da un altro personaggio importante, anche lui impegnato per l’invio di messaggi verso le stelle e collaboratore nei progetti Pioneer e Voyager: Carl Sagan.

    L’eco delle reazioni e delle polemiche generate dal timore di scatenare l’interesse da entità extraterrestri poco benevoli, ancora non si era completamente sopito. Raquel sperava di non essere proprio lei, dopo cinquantatré anni, a riaccendere questa disputa.

    Bisogna coinvolgere altri ricercatori, meditò l’astrofisica. non ci penso proprio di presentarmi da sola al S.E.T.I., per raccontare questa storia, no davvero. Quello che avevano ricevuto a Porto Rico, ammesso che fosse vero, si poteva decodificare anche da altre parti del mondo. Era meglio aver testimonianza da più ricercatori.

    Raquel si mise alla tastiera del suo terminale e iniziò a preparare il testo da inviare in posta elettronica, che fosse lo stesso per altri tre radiotelescopi.


    Da: Radiotelescopio di Arecibo


    A : Radiotelescopio SKA di Murchison Widefield

    A : Radiotelescopio SKA di Karoo Desert South Africa

    A : Radiotelescopio di Guizhou, Contea Ping Tang, Cina


    Oggetto: Richiesta di collaborazione, per la ricezione di xxxxxxxx possibile fonte radio di origini sconosciute.

    4

    «Stazione Concordia da Charlie Hotel 6-12, siamo a circa 50 chilometri da voi, in avvicinamento. Ci ricevete? Prevediamo di atterrare tra trenta minuti. Attivate le luci della pista. »

    Per Jean-Marie Cloudet, primo pilota del VTCH 6-12, quello era un volo simile a tanti altri, fatti sul Pack antartico, oltre i confini della terra abitata, su quella landa desolata. Con i suoi ventiquattro anni di esperienza aeronautica, iniziati nell’Armée de l’Air francese, Jean-Marie era un veterano. Come pilota di caccia, aveva partecipato al primo attacco aereo francese in terra libica, per fermare le forze di terra di Gheddafi, nella località di Bengasi. Sotto la bandiere delle Nazioni Unite, a bordo del suo caccia bombardiere Dassault Rafale B, assieme ad un altro velivolo uguale, Cloudet era intervenuto all’ultimo bombardamento su di una colonna di auto, in fuga dalla Sirte. Quei veicoli, una ventina, erano quanto rimaneva del convoglio che scortava il dittatore libico Mu’ammar Gheddafi, diretto verso  l’area tribale di Wadi Jalif e da lì verso il Niger e la salvezza. Fu proprio la bomba sganciata dal suo aereo, un ordigno a guida laser di 250 chilogrammi, a fermare l’auto blindata del Ràis in fuga, che fu estratto vivo dalle lamiere accartocciate, per finire massacrato poi dai ribelli. Quel tragico fatto, accaduto il 20 ottobre del 2011, aveva sconvolto Cloudet, facendogli maturare la decisione di lasciare il servizio militare e dedicare la sua opera a missioni più importanti: come salvare il pianeta Terra.

    All’età di 32 anni, l’ormai ex pilota da caccia si era messo ai comandi di un grosso quadrimotore turbo elica. A 48 anni, Jean-Marie conosceva il suo velivolo come i palmi delle mani e si sentiva simile a questo aereo, con i suoi capelli grigi, un fisico attempato ma ancora robusto e agile; proprio com’era quel LC 130 Hercules.

    Vincent Outret invece, il secondo pilota, aveva avuto dei trascorsi di carriera più tranquilli. Molto più tranquilli. Coetaneo di Jean-Marie, anche Vincent Outret aveva iniziato a volare per le forze armate francesi. Nella marina, per essere precisi. Solo che, dopo aver ottenuto il brevetto, Vincent si era congedato per entrare nell’aeronautica civile. All’età di 26 anni Vincent era stato assunto nella grande compagnia low cost privata della Ryanair. Per lui tutto era filato liscio, stando ai comandi degli aeromobili Boeing 737-800. Poi le condizioni lavorative erano divenute sempre più pesanti. Via via che la compagnia aerea aumentava il proprio giro d’affari, di pari passo aumentava il carico del lavoro, con turni sempre più massacranti e un accumulo di ferie sempre più difficile da smaltire. Verso la fine del 2017, assieme a tanti altri colleghi, Vincent Outret aveva deciso di lasciare una Ryanair in crisi, collassata dal peso del suo vorticoso sviluppo. Prima di entrare a far parte dell’equipaggio VTCH 6-12, l’ex ufficiale di volo privato si era riciclato come istruttore di volo, si era rilassato e aveva messo su qualche chilo di troppo. Con alle spalle un matrimonio di breve durata, rovinato da troppe scappatelle e una situazione economica compromessa da investimenti sbagliati, Vincent aveva trovato un po’ di pace lontano dalla frenesia della civiltà. Lontano dall’ex moglie e da suo figlio. Con un po’ di pancetta e le guance paffute, con la sua presenza Vincent infondeva sicurezza e capacità. I suoi occhi chiari, cerchiati da poche rughe, erano sempre vigili e non si lasciavano sfuggire particolari insoliti. Anche per lui, la soluzione di pilotare quel vecchio velivolo si era rivelata una scelta azzeccata. La migliore certamente, se non fosse per le condizioni meteo a quelle latitudini, sempre così mutevoli. Sempre così precarie.

    Guillaume Fabrés era il meccanico e terzo componente dell’equipaggio, a bordo del VTCH 6-12. Ingegnere meccanico e tutto fare. Era anche il più anziano del gruppo, quello con più ore di volo su quel tipo di aereo. Anche Guillaume aveva iniziato la sua carriera nell’Armée de l’Air, con il ruolo di manutentore e collaudatore dei vari velivoli in forza alle diverse brigate. Per molti anni era stato spedito in giro per il mondo, con il compito di garantire il buon funzionamento dei caccia Mirage, Alpha Jet e Rafale. Successivamente, Fabrés si era impegnato sul buon funzionamento degli elicotteri Aérospatiale SA 330 Puma, anche questi distribuiti sui quattro cantoni del mondo. Di anni Guillaume ne aveva compiuto sessanta e già da venti si era stufato degli ambienti militari. Se n’era andato dall’Armée de l’Air, aveva messo su famiglia, e ora si preparava alla pensione, lavorando per conto di questa missione scientifica. Parlava poco Guillaume, e lo faceva per lamentarsi di questo o di quello, ma nel suo lavoro aveva competenza da vendere ed era un buon diavolo. Alto di statura e un po’ tarchiato, Fabrés aveva l’abitudine di piazzarsi sempre in mezzo al passaggio per accedere alla cabina di pilotaggio, dietro le poltrone dei piloti. Quest’abitudine se la portava dietro da sempre, per poter monitorare la strumentazione di bordo, assieme ai piloti. Il rapporto di un meccanico nei confronti dell’aereo condotto è diverso da quello di un pilota, sosteneva Guillaume. Il pilota conduce il velivolo; il meccanico lo ascolta. In quel momento, il vecchio LC 130 stava sussurrando che il carico era notevole, che il terzo motore non stava dando il massimo di sé stesso e che i venti in quota spingevano il velivolo alla deriva, facendogli aumentare i consumi. Poco male, oramai erano arrivati e stavano per atterrare, li aspettava una cena tutta italiana.

    «Charlie Hotel 6-12, qui è la Stazione Concordia, siamo pronti al vostro atterraggio, la pista è pronta, illuminata.»

    René Brunell era incollato ai comandi della radio e oramai contava i minuti che mancavano all’atterraggio.

    «Bene Concordia, vi vediamo. Faremo una virata di 180°, così ci accertiamo delle condizioni al suolo e poi atterriamo. Siamo molto carichi e ci serve la pista in tutta la sua lunghezza. Passo e chiudo. »

    «Vai tranquillo Jean, le condizioni meteo sono stabili, per almeno un’ora, i ragazzi ti aspettano. Chiudo.»

    L’Hercules scese di quota e si avvicinò alla pista, lunga più di tre chilometri e contrassegnata da luci, alternate a paletti rossi. Jean iniziò la delicata manovra ed azionò il comando idraulico, che avrebbe estratto il carrello delle ruote, con i pattini. Da uno strumento si accese una luce.

    «Ehi Guillaume, guarda qui: abbiamo un problema nel terzo motore.»

    Il meccanico si avvicinò e scosse la testa.

    «Ho visto, era da un po’ che mi ero accorto che non andava bene, prima ancora che si accendesse l’allarme. Non preoccupiamoci di questo adesso Jean; anche se si ferma, non abbiamo problemi per atterrare. Una volta giù, con calma, farò dei controlli. Sicuramente è l’alimentazione.»

    Fabrés tornò alla sua poltrona e agganciò la cintura di sicurezza. Erano agli ultimi metri, a momenti avrebbero toccato la neve battuta. Le condizioni al suolo erano buone, ma persisteva un forte vento, che muoveva cristalli di ghiaccio, confondendo la vista di chi stava ai comandi di una macchina volante pesante 50 tonnellate. Il pericolo maggiore, in queste condizioni, era rappresentato dal fenomeno del "white-out" (sbiancamento). Ovvero una condizione nella quale si vede tutto bianco e non si distingue la linea tra cielo e terra, perdendo i riferimenti e rischiando di schiantarsi. Fortunatamente, i piloti erano esperti, avevano eseguito queste manovre molte volte. Il velivolo toccò il suolo, sollevando nuvole

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