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Ritratto di famiglia: RDF
Ritratto di famiglia: RDF
Ritratto di famiglia: RDF
E-book328 pagine4 ore

Ritratto di famiglia: RDF

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Info su questo ebook

“Qualcosa di impalpabile ed etereo avvolgeva quella cosa, come il velo di uno spettro...”
Lo spunto di questo thriller parte da due fatti reali: ciò che accadde il 6 dicembre 1958 alla sonda Pioneer 3 e l'incidente del 28 gennaio 1986 relativo alla navetta spaziale Challenger durante le fasi di decollo. I due eventi sembrerebbero incompatibili e non solo per la dinamica o il tempo che li separa (ventotto anni!), ma anche per l’enorme divario tecnologico esistente, tuttavia essi sono legatissimi: in gioco c'è qualcosa di avveniristico e allo stesso tempo inspiegabile, e per conservare il segreto c’è chi è disposto a uccidere.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2023
ISBN9791222469294
Ritratto di famiglia: RDF

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    Anteprima del libro

    Ritratto di famiglia - Cristiano De Liberato

    © Cristiano De Liberato 2013-2023

    www.cristianodeliberato.it

    RDF | Ritratto di famiglia

    terza edizione - ottobre 2023

    Indice

    Copyright

    Inizio

    Prologo

    Cap.I-III

    Cap.IV-VI

    Cap.VII-IX

    Cap.X-XII

    Cap.XIII-XV

    Cap.XVI-XVII

    Parte Prima

    Cap.1

    Cap.2

    Cap.3

    Cap.4

    Cap.5

    Parte Seconda

    Cap.1-2

    Cap.3-4

    Cap.5-6

    Cap.7-8

    Cap.9-10

    Cap.11-12

    Cap.13-14

    Cap.15-16

    Cap.17-18

    Cap.19-20

    Cap.21-22

    Cap.23-24

    Cap.25-26

    Cap.27-28

    Cap.29-30

    Cap.31-32

    Cap.33-34

    Cap.35-36

    Cap.37-38

    Cap.39-40

    Cap.41-42

    Cap.43-44

    Cap.45-46

    Cap.47-48

    Epiloghi

    Epilogo I

    Epilogo II

    Ringraziamenti

    Booktrailer

    Precisazioni

    L'autore

    Bibliografia

    Altre storie

    …agli artefici di tutto:

    mia madre e mio padre.

    Cristiano De Liberato

    Ritratto

    di famiglia

    Nel 1990, ormai al termine

    della propria missione, la sonda

    Voyager 1, in allontanamento

    dal sistema solare

    scattò alcune immagini volgendo il proprio

    obiettivo all'indietro verso alcuni pianeti.

    A una distanza di sei miliardi di chilometri,

    la Terra appare come un minuscolo

    punto blu perso nel buio profondo.

    A questa fotografia è stato dato il nome di

    Pale Blue Dot.

    Altre fotografie ritraggono Venere, Saturno,

    Giove, Urano e Nettuno.

    Tutte queste fotografie,

    unite in una sorta di collage,

    costituiscono l'immagine che nel mondo

    accademico è nota con il nome di:

    Ritratto di famiglia.

    PROLOGO

    I

    ARC Moffet Field, California

    6 dicembre 1958

    NASA, Ames Research Center

    James Van Allen era l’unico soddisfatto. Pioneer 3, nonostante l’insuccesso verso il quale indifferente correva, un risultato l’aveva ottenuto. L’idea che Van Allen si era fatto, grazie anche alle precedenti sonde, ora diventava concreta. Tutto era confermato. Sfrecciando verso la Luna, Pioneer 3 aveva inviato quei dati, quelle informazioni che Van Allen attendeva. Intorno alla Terra, il pianeta Terra, si distendevano due fasce di radiazioni*. Fino a quel sei dicembre una sola fascia era ritenuta la più logica e l’unica, peraltro, corrispondente ai dati che la neonata NASA fino a quel giorno disponeva.

    Pioneer 3 rivoluzionava quell’assunto. Van Allen l’aveva intuito già da tempo ma, per convincere, sapeva che sarebbero serviti fatti e non più formule matematiche e ardite teorie. Ora però era tutto nero su bianco. La seconda fascia di radiazioni si estendeva a partire da un’altezza di 100 chilometri e si protendeva verso lo spazio per migliaia di chilometri.

    Pioneer 3 aveva trasmesso una miriade di dati telemetrici suffragando ogni intuizione dello scienziato; la sua eccitazione però strideva con le facce lunghe dei tecnici responsabili della sonda, che non aveva eseguito alla lettera un semplice comando inviatole dalla base terrestre. I motori che avrebbero dovuto fornire la spinta necessaria a far sì che la sonda raggiungesse la velocità di fuga dalla Terra, in modo che, come previsto, oltrepassasse la Luna per poi entrare in un’orbita eliocentrica, si erano inaspettatamente spenti quattro secondi prima. Un’inezia. Eppure quella spinta mancata, non solo faceva perdere l’obiettivo della missione, porre Pioneer 3 in orbita intorno al Sole ma, irrimediabilmente, destinava la sonda a un rientro forzato, senza controllo, verso la Terra. L’impatto con l’atmosfera l’avrebbe distrutta, bruciata, disintegrata.

    Qualcuno a Moffet Field stava già prodigandosi per addolcire la pillola. Alla Casa Bianca attendevano risultati. Non si poteva sopportare che i russi riuscissero dove la grande America tentennava. Il presidente Eisenhower ci teneva molto. Forse per una sorta di campanilismo o forse perché, semplicemente, gli piaceva vincere.

    Lui, da ex militare, riteneva che solo i suoi colleghi, ancora in servizio, rappresentassero la parte buona, efficiente e invincibile di una federazione da poco uscita da una guerra vinta, ma che era costata parecchio, sia in termini di denari e sia in termini di uomini. Ecco perché, non a caso, i vettori di lancio e tutto il corollario di tecnici per la gestione delle missioni spaziali erano di competenza d’una branca dell’esercito l’ABMA (Army Ballistic Missile Agency). L’energia atomica aveva posto la parola fine al conflitto e riaffermato la potenza americana a livello planetario ma ora, sullo scenario internazionale, la vetrina era lo spazio. E attori principali parevano essere i russi.

    Semplicemente inaccettabile.

    Eisenhower, al suo secondo mandato presidenziale, aveva ammorbidito un po' il proprio modo di governare. Ormai s'era convinto, anzi rassegnato, che gli USA non erano la sua caserma. Ma in lui resistevano ancora sacche d'orgoglio inglobate in modi di ragionare più adatti ai colonnelli che ai senatori. Questo a Moffet Field era ben chiaro ed era altrettanto lampante che il presidente non si sarebbe accontentato d'una semplice spiegazione, anche se illustrata e ben motivata.

    Sarebbero comunque saltate delle teste.

    Alle venti in punto, ora di Greenwich, del 7 dicembre 1958, Pioneer 3 precipitò verso il pianeta dove era nata, che l’aveva lanciata e che non avrebbe mai più dovuto raggiungere. Durante l’attraversamento dell’atmosfera terrestre la temperatura della sonda passò dai 40°C., tenuti durante tutto il suo volo, a migliaia di gradi superando i 1.800°C. Le leghe metalliche avveniristiche e le plastiche a polimeri che costituivano i sei chilogrammi della sonda fusero e mentre un’aura di gas compressi, il plasma, l’avvolgeva, da terra alcuni guerrieri africani osservavano quel piccolo Sole che basso sull’orizzonte e seguito da una scia di vapore bianchissimo penetrava nella foresta incendiando e recidendo come una lama di stregone le chiome degli alberi di tamarisco e alcuni rami d’acacia. La sonda impattò poi nel terreno penetrandovi per circa cinquanta centimetri.

    Alcuni uccelli si levarono in volo, tra strida d’allarme, allontanandosi da quella cosa strana e inaspettata.

    Joash e suo fratello Kumai quella sera avrebbero avuto qualcosa da raccontare al proprio padre. Forse anche lo sciamano del villaggio, il vecchio Habai, questa volta li avrebbe ascoltati.

    I satelliti preposti all’analisi del volo di Pioneer 3 erano stati occhi elettronici puntati sugli ultimi istanti di vita della sonda. Occhi umani invece, nella base di Moffet Field, si erano cercati prima ancora di leggere i tracciati di volo relativi al rientro della sonda.

    «Sai dov’è caduta?»

    «Stiamo ultimando i calcoli, e sembra già certo che sia finita in Africa più o meno all’altezza del tropico del cancro, e»

    «E

    «Questa volta siamo stati fortunati: non è in mare.»

    Per una volta c’era un barlume di speranza. Si poteva recuperare la sonda, o quel che ne restava. Gli astrofisici dell’ARC e della giovane NASA avrebbero avuto di che soddisfare le proprie curiosità: solitamente i relitti sprofondavano nell’oceano e il loro recupero era semplicemente impensabile, Pioneer 3 invece era ritornata sul pianeta Terra, scegliendo come approdo la foresta del Ciad.

    «Molto bene. Avvisa Kenny: voglio quel relitto.»

    * Le fasce di radiazioni che avvolgono la Terra vengono chiamate Fasce di Van Allen in onore dello scienziato che per primo le ipotizzò.

    Intorno al pianeta Terra si distendono campi di particelle che fluiscono attraverso i poli, occupando lo spazio circostante per centinaia di chilometri. Esse vengono trattenute dal pianeta, grazie al proprio campo magnetico. In particolari condizioni, tali particelle colpiscono gli strati alti dell'atmosfera terrestre, diventano fluorescenti e danno origine così, alle aurore polari. Nei voli spaziali, in special modo per i satelliti, conoscere la posizione delle fasce di Val Allen è determinante: i circuiti elettronici di bordo possono subire danneggiamenti se esposti a intensi livelli di radiazioni, perciò si tende a posizionare i satelliti in orbite più lontane possibili da tali radiazioni.

    II

    Regione di Guéra, Ciad meridionale

    8 dicembre 1958

    Riserva di Abou Telfan

    «Siete sicuri?» Il padre guardò prima Kumai, il maggiore, e poi suo fratello Joash.

    Kumai avvicinò le mani giunte al volto e si inchinò leggermente verso il proprio padre, in una reverenza che sapeva di millenni e di rispetto verso l’esperienza degli anziani.

    «Sì e sappiamo dove si trova.»

    Il vecchio Hassei fece cenno a suo figlio di avvicinarsi. Kumai fece un passo verso il padre e si inginocchiò, tenendo lo sguardo basso verso la terra scura della capanna. Hassei protese una mano anche verso Joash, invitandolo così ad avvicinarsi. Quando i figli furono entrambi prostrati, disse: «Se il Dio del blu ha scelto voi è perché vuole che voi portiate il nuovo Sole, qui.»

    «Sì padre» risposero all’unisono i due guerrieri figli di Hassei.

    «Allora andate e che lo spirito di Werai vi guidi al giusto.»

    Prima di partire, consultarono lo sciamano il quale li benedì e nel contempo li ammonì a essere rispettosi per loro, per la gente delle tribù e per gli dei. Bevvero latte di capra e sangue di gazzella. Scelsero le lance più dritte e le frecce più acuminate. Riempirono con rami di datteri e pistacchi i propri panieri, realizzati con pelle di antilope. Pregarono Werai e Kamesh affinché li aiutassero a portare al villaggio quel piccolo Sole che era sfrecciato dal cielo verso la terra dei Ghantù e ora continuava a volare nei loro pensieri, riscaldandoli.

    Dopo un giorno di cammino in direzione est, verso la casa dove nasce la luce, e poi seguendo il sentiero degli elefanti, erano ormai giunti fino alla grande spianata, dove le piante dolci dei tamarischi oscillavano indolenti, mosse dalle calde correnti convettive.

    Joash si fermò ad aspettare suo fratello. Joash correva. Sempre davanti a tutti. Pur avendo già diciannove anni non riusciva ancora a pensare alla famiglia. La sua famiglia da costruire, trovando una compagna che gli desse figli e una casa verso cui tornare. Joash era rimasto un bambino, non come Kumai che si era già trovato una donna, la stessa che, durante il parto di quello che doveva essere il suo primogenito, era morta portando con sé, nel deserto sconfinato delle anime, anche suo figlio. E così Kumai, a ventiquattro anni, si era ritrovato ad accudire suo fratello, una sorta di riscatto verso quel figlio mai nato. Non che Joash avesse bisogno di chissà che. Era forte. Un guerriero già imponente, leale e coraggioso. Quando era poco più che un bambino aveva catturato e ucciso un leopardo.

    Solo che i suoi diciannove anni spesso prendevano il sopravvento facendo riaffiorare in lui una spensieratezza che non si addiceva alle regole e le tribolazioni di una vita da trascorrere tra savane, armi e gerarchie secolari.

    L’oggetto magico inviato dagli dei, era stato trovato proprio nell'area della pianura dove i due fratelli pensavano fosse atterrato. Per Kumai e Joash, giunti dopo due giorni di cammino nella zona, era stato assai facile ripercorrere con l’immaginazione la traiettoria che il loro piccolo Sole aveva percorso negli ultimi istanti, quelli precedenti il proprio affondare nell’arido terreno rugoso della spianata dei tamarischi.

    Joash, con la sua solita irruenza, si era ferito mentre tentava d’estrarre quella strana cosa dalla cavità del terreno; l’aveva interpretato come il prezzo da pagare per la conquista, simile all’unghiata di un leone prima che soccomba al coltello del guerriero. Kumai invece pensava che, se mai ce ne fosse bisogno, si trattava di una ulteriore conferma dell’immaturità del fratello. Entrambi comunque su una cosa erano concordi: quell’oggetto era magico e dotato d'una potenza sconosciuta. La ferita di Joash ne era la conferma. Qualcosa di impalpabile ed etereo avvolgeva quella cosa, come il velo d’uno spettro.

    La notizia si era diffusa tra le tribù e presto il villaggio di Hassei era diventato meta di pellegrinaggi. Anche le genti più distanti ardevano dal desiderio di rendere omaggio e se possibile toccare quel segno degli dei.

    III

    Julian Hodge, l’americano, appena sceso dall’aereo che l’aveva catapultato dalla tranquillizzante Sunnyvale californiana in quell’immenso continente, che dal suo punto di vista era tutto catalizzato in quel caotico e maleodorante aeroporto di Fort-Lamy, la capitale ciadiana, era stato immediatamente riconosciuto e avvicinato da Themans, l’olandese. Questi non si poteva dire fosse proprio pervaso da sentimenti professionali volti all’accoglienza dei propri clienti, ciò che davvero lo interessava erano i mille dollari promessigli da un funzionario dell’ambasciata americana. L’incarico, quando gli era stato proposto, pareva relativamente semplice: recuperare, senza troppi schiamazzi, ciò che rimaneva di un satellite artificiale made in USA.

    Il Ciad era un pezzo di Francia e nessuno voleva che ai sudditi di René Coty* fosse fatto quel regalo, servendogli su di un piatto d’argento un condensato degli ultimi materiali e tecnologie, costate anni di studi e che ora il destino pareva voler diffondere ad altri a costo zero. Oltretutto in ballo c’era anche l’orgoglio d’una nazione che avrebbe venduto l’anima al diavolo per primeggiare in quella sfida che il mondo intero conosceva come conquista dello spazio.

    Themans e Hodge si erano trovati in Ciad. Uno come mercenario e l’altro come fattorino per conto NASA.

    Sulla Land Rover dell’olandese, Hodge rifletteva. Alternava i propri pensieri sulla condizione di quello schifo di auto e sulla propria vita. Che cazzo ci faceva lì? Il suo capo non poteva mandarci qualcun altro in quel porcile? Da quanto tempo non pioveva in Ciad? A giudicare dalla carrozzeria della jeep, quelle lamiere l’acqua non l’avevano mai vista. E quell’elementol’olandese, chi cazzo si credeva di essere? Doveva chiudere la faccenda il più presto possibile.

    * René Coty, è stato il 17° presidente della Repubblica Francese dal 1954 al 1959. Incapace nella gestione degli eventi a seguito della crisi con l'Algeria, di fatto s'adoperò affinché il suo mandato cessasse anzitempo. L'8 gennaio 1959 affidò le sorti della Francia nelle mani del generale Charles De Gaulle.

    IV

    Il caldo era opprimente. A Hodge pareva d'essere in gita dentro il cratere d'un vulcano. Doveva andarsene immediatamente. Tornare a casa subito. Il suo posto era in California. Lì c'era il suo futuro. Il vero obiettivo della sua vita.

    «Credi ci vorrà molto per trovarlo?»

    Themans estrasse dal taschino della camicia un pacchetto di Gitanes e compiendo gesti da giocoliere, mentre guidava la Land Rover sulla malconcia strada che li stava conducendo in hotel, s’accese una sigaretta con l’aiuto d’un accendino d’oro che stonava con il grezzo aspetto del mercenario. Soffiò fuori dal finestrino il fiato divenuto visibile e guardò l’americano: «Intendi il tuo satellite?»

    Hodge annuì con movimenti del capo che si mischiarono con gli scuotimenti dovuti alle buche che la jeep si ostinava a percorrere indomita, cercando di non perderne nemmeno una.

    «Sono piuttosto fiducioso» L’olandese lanciò un sorriso ironico che prevedeva una continuazione: «Ad Abou non si parla d'altroil problema se vogliamo è un altro»

    «Problema? Quale cazzo di problema può mai esserci?»

    Themans aveva inchiodato, frenando appena in tempo. Una donna aveva attraversato la strada senza curarsi dell’auto e da come ora guardava gli occupanti della jeep pareva proprio ritenesse la ragione essere dalla propria parte.

    L’olandese innestò la marcia che grattò rumorosamente facendo vibrare tutta la macchina. Da dietro qualcuno suonò impaziente un clacson.

    «A dire il vero i problemi sono due» Accostò la Land Rover sul margine della strada. Agitò il braccio dal finestrino rivolgendo quei gesti all'auto che li seguiva, invitando così l'autista a superare e proseguire.

    «Allez, allez» Poi si voltò verso Hodge.

    «Il tuo satellite qui è stato scambiato come una specie di idolo e purtroppo è già nelle mani di una tribù che lo venera proprio come fosse un dio.»

    «E quindi» Hodge non si capacitava.

    «Quindi? Dovremo rubarlo, è ovvio. Problema uno.» Hodge stava per controbattere ma Themans lo zittì con un gesto categorico della mano.

    «Le voci si diffondono velocemente qui. Anche senza bisogno di telefoni e radio. Se la notizia arriva alle orecchie dei francesi, potremmo avere qualche difficoltàProblema due.» Gli agitò davanti al volto l'indice e il medio a formare una V. In altri contesti il gesto sarebbe stato interpretato come un segno beneaugurante, di vittoria, ma nel loro caso…

    Themans fece ripartire la Land immettendosi nuovamente sulla strada, guardò Hodge e mentre agiva sulla leva del cambio, sigaretta penzoloni dalle labbra, gli disse: «Ho paura che mille dollari non siano più sufficienti. Confido molto in quanto vorrai fare per rendermi piùinteressante questo lavoro.»

    «Ma io, non so se posso. Non ho l’autorità»

    «Capiscomettiamola così allora: sei stato tu a chiedermi quanto tempo ci vorrà per recuperare il tuo satellitela mia risposta è che dipende solo da te, da voi, da chi diavolo rappresentate. Se non mi fate avere almeno tremila dollari, la tua permanenza qui sarà piuttosto lunga.» Arrestò la jeep davanti ad una costruzione che Hodge intuì essere l’hotel. Themans gli consegnò un pezzo di carta con un numero di telefono scarabocchiato a mano.

    «Aspetto tue notizie»

    Hodge scese dall’auto piuttosto contrariato.

    Ma perché non è venuto qualcuno dell'ambasciata a prendermi? Il suo viso era una maschera di collera che mischiata alla stanchezza del viaggio gli alterava i lineamenti e la lucidità di pensiero. Sbatté la portiera in modo deciso, con l'intenzione di tirar dritto senza voltarsi, ma Themans lo chiamò.

    «Ah, Hodge?» L'americano si voltò di scatto, confidando che il suo gesto risolvesse per sempre la questione, incenerendo l'olandese.

    «Che vuoi, ancora?»

    «Benvenuto in Ciad.»

    V

    Hodge varcò la porta di quella stamberga che qualcuno, forse, riteneva essere un albergo. Un sudato panzone in canottiera, il cui aspetto, nella sua totalità, trasmetteva un'immediata voglia di prenderlo a calci nel culo, degnò con uno sguardo svogliato e brevissimo il nuovo arrivato. Poi riprese immediatamente la lettura dello spiegazzato foglio del giornale locale. Senza rialzare più gli occhi, continuando così a dissetare la propria voglia di notizie, allungò la mano verso un ripiano del tavolo davanti a lui. Ne estrasse un foglio che posò, insieme a una penna Bic, sull'alzatina in legno stinto di quello che doveva essere il banco reception.

    «Sono dieci dollari al giorno. Compilare il modulo e lasciare un documento. Pagamento anticipato.»

    Tutto era stato recitato con un tono, una specie di litania, che sapeva di un menefreghismo posto a livelli talmente elevati che Hodge stentava a credere a ciò che aveva appena udito e soprattutto che quell'agglomerato di lardo si stesse rivolgendo proprio a lui.

    Un ventilatore da soffitto, sbilenco e con le pale storte, a ogni giro emetteva un gemito che si trascinava in attesa del successivo. I rumori della strada, di colpo, all'americano parvero giungergli attutiti. Non sentiva nemmeno più caldo e il sudore che invece copioso gli colava all'interno della camicia e sul viso la diceva lunga sulla tempesta che stava per scatenarsi. Su una cosa Hodge non transigeva mai. Il rispetto. Quel panzone pelato aveva passato un limite a cui l'americano teneva molto. Per di più il lardoso era un francese e quindi Hodge s'aspettava un trattamento un po' più occidentale. Non voleva certamente salamelecchi ma solamente… rispetto. Rispetto per un cliente. Rispetto per chi viene e ti dà del denaro per un servizio. Rispetto per chi ti dà una ragione d'essere, una ragione di vita in quell'inferno.

    Hodge si avvicinò al banco con l'intenzione di dare sfogo alla propria frustrazione che prima Themans e ora quello stronzo gli avevano scatenato dentro.

    Rigagnoli d'acqua grigia scorrevano sull'assito del pavimento, provenienti da tubature marce dell'impianto idrico di quella reggia. Il francese se ne stava assorto nella sua lettura senza curarsi affatto dell'americano.

    A Hodge sarebbe bastato dare un colpo a quella testa pelata per stampargli l'impronta dentale sul foglio di giornale.

    Toh, adesso leggi un po' quest'ultima notizia…

    Ed era proprio questa l'idea dell'americano. Dopo avrebbero potuto discutere. Poi avrebbe anche compilato il modulo allegando il documento d'identità.

    Tutto come voleva il concierge!

    Proprio mentre stava per concretizzare il tutto dando una realizzazione pratica ai suoi pensieri, giusto un istante prima, qualcuno entrò nella costruzione. L'aprirsi e il successivo richiudersi della porta enfatizzati, prima dal rumore amplificato della strada e, subito dopo, attutito dal serrarsi dell'uscio, distolsero Hodge dal suo proposito. Inoltre una voce americana lo chiamava.

    «Julian Hodge?»

    Hodge si voltò verso il nuovo arrivato. Il concierge invece emise un grugnito restando sempre assorto nella lettura di quel quotidiano che evidentemente doveva essere per lui carico di vitali informazioni.

    Oh, finalmente un umano.

    Fu questo il primo pensiero che attraversò la mente di Hodge. Davanti a lui s’era materializzato un uomo sulla cinquantina, pantaloni di lino color panna, maglietta Lacoste blu scuro e un paio di scarpe da tennis bianchissime. Il fatto che avesse appena parlato, dissipava comunque ogni dubbio: non era un manichino d'una vetrina di Rodeo Drive. Infatti, si stava avvicinando sorridendo. I due si strinsero la mano mentre lo sguardo interrogativo di Hodge, espresse in modo repentino e univoco il dilemma: ma tu chi diavolo sei?.

    «Ben arrivato mister Hodge, sono Sinatra - come il cantante - ma io mi chiamo Roy. Sono dell'ambasciata americana, l'aspettavo… Tutto bene?» Anche Sinatra aveva recitato un evidente litania (una filastrocca, quella del suo nome e la similitudine con l'interprete di My way ma, per la miseria, almeno lui aveva sorriso!).

    «Quasi bene… Ma che cazzo di posto è questo?» Hodge, con un cenno della testa, aveva indicato il francese alla reception.

    Sinatra sorrise. Prese sottobraccio Hodge e lo invitò a seguirlo fuori dall'albergo.

    «Non si crucci… Posso offrirle da bere?» Poi si rivolse verso il concierge: «Florian, torniamo subito. Lasciamo qui i bagagli, okay?»

    «Pas problème» recitò il francese con la solita cantilena.

    Quando furono fuori, incamminati verso una meta nota

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