Caged (Wolves Vol. 2)
Di Samantha M.
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Info su questo ebook
Il suo sogno era quello di diventare un pediatra per curare i bambini ma suo padre, il colonnello a cui ha sempre dovuto rispondere solo: “Sì, signore!”, lo costringe a formarsi come ricercatore. Una volta laureato è proprio il padre a farlo assumere presso una struttura governativa di ricerca dove vengono esaminati i wolves.
L’orgoglio di Sasha per un incarico così prestigioso, però, sfuma quasi subito, trasformandosi in orrore quando scopre a quali immani torture sono sottoposti i lupi imprigionati nei laboratori…
Genere: Fantasy MM Romance
Avvertenze: cliffhanger, violenza fisica di vario tipo.
La trilogia completa dei “Wolves” è così composta:
1. Hunted (Vol. 1)
2. Caged (Vol. 2)
3. Freed (Vol. 3)
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Recensioni su Caged (Wolves Vol. 2)
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Anteprima del libro
Caged (Wolves Vol. 2) - Samantha M.
lettore.
Capitolo 1
Sono stato catturato.
Maledetti sensori del cazzo!
Chi se lo sarebbe aspettato che avrebbero inserito i rilevatori di DNA persino nei sistemi antitaccheggio dei supermercati?
Io no di certo.
Ero uscito dalla riserva per andare a comprare ciò che ci serviva e, con tranquillità, come se non fossimo la razza più ricercata e ingiustamente temuta del globo, avevo varcato le porte scorrevoli del Walmart con un sorriso sereno.
Non appena ero passato in mezzo a quelle sbarre di plastica e metallo che avrebbero dovuto salvaguardare quel posto dai furti, l’allarme si era messo a suonare in modo assordante.
Dopo, era seguito il caos.
Le guardie del servizio di sicurezza interno non mi avevano detto niente, nemmeno una parola. Avevano semplicemente estratto le loro pistole taser e mi avevano colpito con potenti scariche elettriche, fottendomi il cervello e ogni possibilità di fuga.
Avevo perso conoscenza e mi ero risvegliato in un cazzo di laboratorio, trasformato in una dannata cavia, come se fossi uno stupido topo da vivisezionare e studiare.
Privato dei vestiti e rinchiuso in una gabbia nella quale non potevo nemmeno stare in piedi, quei bastardi di dottori cercavano in tutti i modi di spogliarmi anche della mia dignità.
L’unica cosa che indossavo era un collare con la capacità di emettere una potente scarica elettrica a comando.
Sì, un dannato collare! Come se fossi un animale!
Nei primi tre giorni di prigionia si erano divertiti a tagliarmi e a osservare come la nostra capacità di guarigione mi risaldava la ferita.
Usavano un bisturi affilato per aprirmi, ma non lo spingevano in profondità per non danneggiarmi troppo. Si limitavano a incisioni superficiali.
Prima le braccia, poi le gambe e infine la schiena.
Io stringevo i denti e sanguinavo sul pavimento, mentre loro rimanevano indifferenti davanti al mio dolore, con i loro cazzo di camici bianchi e i taccuini per prendere appunti, a fissarmi finché non guarivo.
Poi si ricominciava da capo.
Il quarto giorno si era presentato un nuovo medico, mandato direttamente dal presidente in persona, con una squadra di dottori al seguito.
Abe Kingstom.
Lui aveva usato il bisturi con molta meno cautela, facendomi urlare di dolore mentre mi maciullava il polpaccio sinistro. Me lo aveva spellato, staccandomi gran parte dell’epidermide che mi copriva i muscoli.
Dopo qualche ora era passato al destro.
Avevo perso il conto di quante volte ero svenuto, ma quei bastardi non mi permettevano di rimanere privo di sensi a lungo, mi facevano rinvenire perché potessi sentire tutto.
Quella sera non ero stato rimesso in gabbia, ero stato semplicemente lasciato appeso in quella che io chiamavo la sala delle torture, bloccato con i polsi alla sbarra che pendeva dal soffitto.
Di quel passo, se non mi avessero ucciso mentre giocavano a vedere com’ero fatto dentro, sarei impazzito.
Aggrapparmi a qualcosa, qualunque cosa, mi era sembrato impossibile.
La speranza non sapevo nemmeno più cosa fosse.
Dopo una settimana, nel laboratorio ci fu uno strano fermento. I dottori avevano iniziato ad agitarsi, a complottare tra loro, a correre da una parte all’altra per sistemare i locali e, cosa più inquietante, avevano smesso di tagliarmi.
Qualcosa di grosso bolliva in pentola, ne ero più che sicuro!
La mattina successiva, uno dei medici si era presentato con una siringa. Non sapevo cosa volesse iniettarmi e avevo provato anche a impedirglielo, ma i miei movimenti erano limitati.
Sfuggirgli era stato impossibile e, dopo essere stato punto, avevo perso i sensi.
*****
Quando ripresi conoscenza e aprii gli occhi, mi ritrovai legato a un maledettissimo tavolo da laboratorio, sempre nudo, con almeno cinque dottori che mi giravano attorno indaffarati.
Non conoscevo quella stanza, non l’avevo mai vista prima. Era diversa dalla solita in cui venivo torturato. Era così bianca e pulita da essere abbagliante.
Il tavolo chirurgico, poi, era una novità. In genere preferivano appendermi come un quarto di bue e legarmi mani e piedi, formando una fottuta X.
«Tra quanto arriverà?» sentii dire a uno dei medici.
«Sarà qui a momenti» rispose un altro, leggermente agitato.
«State tranquilli, sarà soddisfatto del nostro lavoro» fece Kingstom, con voce più salda e sicura.
Non avevo idea di cosa o di chi stessero parlando, e poco mi importava. Oramai ero un prigioniero che stava perdendo la speranza, mentre i loro maledetti esperimenti mi stavano logorando anima e corpo.
Stavo accettando l’idea che sarei morto lì dentro.
Chiusi gli occhi per non essere accecato dalla forte luce che mi stava illuminando la faccia come se fossi una cazzo di attrazione per turisti e feci dei respiri profondi.
Sentivo il cervello leggero, intorpidito oserei dire, molto simile a quella sensazione che si prova quando bevi alcool da un po’ ma non sei ancora del tutto sbronzo.
Sicuramente mi avevano drogato per farmi stare buono, oltre all’avermi addormentato per spostarmi senza problemi.
Mi chiesi perché lo avessero fatto, dato che gli bastava premere un semplice pulsante per friggermi sul posto.
Anche se avessi sopraffatto i dottori, le guardie di sicurezza che monitoravano le telecamere a circuito chiuso, ventiquattr’ore su ventiquattro, avevano la possibilità di attivare la scarica elettrica del mio collare.
Quindi perché tante precauzioni?
A un certo punto sentii gli umani attorno a me affannarsi e sollevai lentamente le palpebre, aspettandomi di vederli pronti a torturarmi di nuovo, quando notai le porte del laboratorio aprirsi e, dal lungo corridoio, arrivare un uomo impettito in giacca e cravatta.
Non lo riconobbi subito, mi ci vollero parecchi secondi prima di realizzare chi avessi di fronte, ma quando lo capii non potei fare a meno di ringhiare dalla rabbia.
Il presidente Robert McCallister mi fissò con un sorriso divertito e maligno, sistemandosi i polsini della costosissima camicia.
«Buongiorno, signor presidente» lo salutarono tutti in coro, come un branco di pecore.
Lui non li guardò nemmeno, continuava a tenere gli occhi fissi su di me.
«Dunque è lui l’alpha che hanno trovato» affermò.
«Sì, presidente» confermò il dottor Kingstom, facendo un passo avanti.
«Quanto è puro il suo sangue?» domandò Robert.
«Dalle analisi siamo riusciti a formulare una anamnesi: è figlio di alpha da molte generazioni, perciò il suo sangue è puro al novantotto per cento, presidente.»
«Eccellente!» esultò quello spregevole uomo.
Se solo avessi avuto la forza di liberarmi, mi sarei trasformato e l’avrei sbranato vivo, ma le sostanze che mi somministravano ogni giorno mi rendevano debole come un gattino appena nato e mi impedivano di mutare.
Robert mi si avvicinò, sporgendosi un poco sul tavolo, in modo che il suo viso fosse proprio sopra il mio.
«Tu renderai le mie miracolose formule complete.»
«Vaffanculo» sibilai, con la gola talmente arida che mi sembrò di sputare sabbia invece di quella semplice parola.
Il presidente ridacchiò, sicuramente divertito dalla situazione, dato che mi trovavo nella posizione peggiore.
«Dovresti sentirti onorato della mia presenza» mi disse, presuntuoso.
«Ti ucciderò» lo minacciai, anche se, per il momento, erano solo parole a vuoto.
«Ne dubito.» Si chinò maggiormente, come se volesse confidarmi un segreto di Stato. «Volevo vederti prima che questi esperti si divertissero a farti a pezzetti» sussurrò maligno.
In tutta risposta gli ringhiai di nuovo contro, facendolo ridere della mia impotenza.
Drizzò la schiena e si avvicinò a Kingstom, capo dell’equipe che mi stava torturando da giorni.
«Prima che gli facciate qualsiasi altra cosa, voglio il suo sperma. E ne voglio molto.»
Il dottore sbiancò. «I-il suo sperma?»
«Hai detto che è un alpha dal sangue quasi puro, giusto? Perciò il suo sperma sarà altrettanto potente; potremo fecondare centinaia di ovuli e far nascere tantissimi altri wolves per poter continuare i nostri esperimenti.»
Il mio cuore perse un battito a sentirgli pronunciare quella frase e il mio stomaco si rivoltò dall’orrore.
Quell’uomo era un mostro.
«Quindi fate come vi ho detto» ordinò, puntando l’indice contro il dottore.
L’umano deglutì. «Ma… non vorrà mica che noi…» tentò di dire, disgustato.
«Non mi interessa come: attaccatelo a una macchina, chiamate una puttana o succhiategli voi stessi l’uccello, non mi interessa!» gridò Robert. «Il suo sperma mi darà tante altre cavie da laboratorio, perciò me lo procurerete. Sono stato chiaro?»
«Sì, presidente.»
Mi lanciò un’ultima malefica occhiata. Lui non vedeva un essere vivente in me, ma solo un mezzo per riempirsi le tasche di soldi.
Montagne di soldi, per la precisione.
«Arrivederci, mio preziosissimo alpha» sogghignò, prima di uscire dalla stanza.
I medici lo salutarono in coro senza essere degnati di uno sguardo. Quando furono di nuovo soli, si voltarono a fissarmi con disgusto.
«Che dovremmo fare, adesso?» chiese il medico stempiato agli altri.
«Io non lo tocco!» fece il più giovane, schifato.
Il vecchio Kingstom mi studiò a lungo e poi sospirò.
«Proviamo a imbottirlo di Viagra e chiamiamo una puttana» dichiarò, facendomi fremere dalla voglia di ucciderlo.
Stupidi idioti, davano per scontato che mi piacessero le femmine!
Con un po’ di fortuna, sarei riuscito a lasciarli insoddisfatti e senza il mio preziosissimo sperma.
Capitolo 2
Mio padre stava guidando il monovolume a velocità costante, poco sopra il limite consentito dalla legge, stringendo il volante con più enfasi del solito.
Aveva la schiena rigida, dritta, a malapena appoggiata al sedile e gli occhi fissi sulla strada. Poteva sembrare nervoso, ma in realtà era eccitato, proprio come lo ero io.
Eravamo diretti in un luogo isolato e privo di abitazioni, un posto protetto e sorvegliato, nel quale solo pochi eletti avevano il permesso di entrare.
Quando vidi un’alta recinzione di metallo, arricchita con ampie onde di filo spinato in cima, il mio cuore prese a battere più forte.
Finalmente era arrivato il mio momento. Potevo fare la differenza e dare il mio contributo alla causa.
«Rendimi orgoglioso, figliolo» pretese mio padre, rivolgendomi un’occhiata glaciale, prima di rallentare e fermarsi davanti al cancello di sicurezza.
«Sì, signore» gli risposi.
Lo osservai abbassare il finestrino e salutare le guardie con un cenno del capo. I due uomini strinsero con maggior vigore le mitragliatrici che avevano tra le braccia e il più giovane fece un passo avanti.
«Identificarsi!» gridò.
«Colonnello Bennett Tunner» rispose mio padre, estraendo il proprio tesserino dal taschino sinistro della camicia. Lo porse alla guardia. «Lui è mio figlio, Sasha Tunner, il nuovo assistente di laboratorio» mi presentò.
Presi il pass elettronico che mi era stato fornito e lo mostrai alla guardia.
«Ci stanno aspettando» grugnì mio padre, impaziente di entrare.
«Solo un istante, signore» ribatté la guardia.
Portò i nostri documenti nel piccolo gabbiotto adiacente al cancello, fece una verifica e tornò dopo qualche minuto.
«Potete entrare.»
Mio padre gli strappò i tesserini dalla mano con rudezza, rivolgendogli uno sguardo truce.
«Mi pare ovvio» ringhiò, prima di tirare su il finestrino.
Essendo un militare alto in grado, papà aveva sempre preteso rispetto, e non solo dai militari ma anche a casa.
Ero abituato a chiamarlo signore sin da bambino e lo stesso valeva per la mamma. Non era cattivo, solo particolarmente esigente. Si era sudato il suo grado e ne era molto orgoglioso.
Il suo carattere non mi aveva mai infastidito, potevo capirlo, dato che era a sua volta figlio di un generale, ma negli ultimi anni le cose erano peggiorate, diventando quasi irragionevoli.
Aveva smesso di addestrare nuove reclute o di andare in missione oltreoceano perché aveva trovato un nuovo scopo nella vita e vi si era dedicato con tutto se stesso.
Lui dava la caccia a quelle orrende e abominevoli bestie che avevano palesato la loro presenza il giorno della Rivelazione: i wolves.
Era entrato nella PDAW, la Police Department Against Wolves, fondata dal nostro amatissimo presidente Robert McCallister, un dipartimento che puntava a stanare ogni lupo nascosto tra gli esseri umani.
Durante il suo primo anno, papà era riuscito a catturare più wolves di qualsiasi altro membro della PDAW, guadagnandosi fama e rispetto.
L’impegno e la dedizione che ci aveva messo gli avevano fatto ottenere una medaglia al valore e due nuove promozioni, facendolo lentamente ascendere al vertice.
Da poco più di un mese, papà era diventato colonnello, e non poteva che esserne orgoglioso.
Il grosso cancello di ferro si aprì e papà fece sgommare la macchina, addentrandosi nella zona protetta.
La struttura, poco distante dalla recinzione, era sorvolata da drajnos con rilevatori di DNA e droni armati.
Comunque, la scoperta dell’esistenza di questi esseri soprannaturali non aveva solo cambiato la vita di mio padre, ma di tutta la nostra famiglia.
All’inizio, papà aveva proibito alla mamma di uscire senza di lui. L’aveva segregata in casa perché temeva potesse essere aggredita da un lupo.
Ogni giorno, quando rincasava dal lavoro, ci raccontava gli orrori che aveva visto compiere da quelle bestie crudeli, senza risparmiarci alcun dettaglio.
A forza di ascoltarlo, era iniziata a crescermi dentro la voglia di poter essere utile, di aiutare l’umanità, di poterla difendere in qualche modo, proprio come faceva mio padre.
La mamma, invece, non era stata altrettanto forte e, giorno dopo giorno, racconto dopo racconto, ne era rimasta così spaventata da diventare agorafobica.
Ormai erano sei anni che non metteva piede fuori di casa, non scendeva nemmeno nell’ingresso del condominio a prendere la posta. Dovevo farlo io.
Anche la mia esistenza era stata stravolta, in un certo senso. Mio padre non aveva più approvato il mio sogno di diventare pediatra e lavorare con i bambini, mi aveva chiesto, per non dire imposto, di cambiare ramo di studi, facendomi diventare un tecnico di laboratorio biomedico.
E io avevo accettato, perché la sua richiesta aveva un senso: potevo rendermi utile. Qualcuno poteva fare la differenza all’interno del sistema e, per mio padre, quel qualcuno dovevo essere io.
Perciò mi ero impegnato. Anche se quello non era ciò che volevo fare nella vita, anche se i miei sogni erano stati altri, avevo terminato gli studi e preso la laurea.
In meno di un mese, grazie alle conoscenze che aveva fatto nel corso degli anni, papà era riuscito a trovarmi un posto di assistente in un laboratorio di ricerca.
Ma quello non era un laboratorio qualunque…
«Ho grandi aspettative, perciò vedi di non deludermi» ribadì secco, prima di parcheggiare l’auto e spegnerla. Si voltò verso di me, incrociando il mio sguardo. «Ricorda, Sasha, tu puoi fare la differenza.»
«Lo so, signore» risposi, cercando di non mostrarmi nervoso. Non l’avrebbe apprezzato.
Annuì, soddisfatto e compiaciuto, poi scese dalla macchina. Lo imitai e lo seguii attraverso il parcheggio, guardandomi attorno con curiosità.
Il parcheggio costeggiava la costruzione ed era quasi al completo. La nostra era l’unica utilitaria, le altre auto presenti erano tutte costose e tirate a lucido, ma papà aveva sempre odiato gli sprechi di denaro, preferiva donarlo al dipartimento o comprare nuove armi da tenere in casa.
Arrivati davanti alla porta principale, strisciai il mio tesserino magnetico in una fessura, sbloccando la serratura.
Prima