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Gli invincibili Saga
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E-book2.007 pagine32 ore

Gli invincibili Saga

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Alla conquista del potere - La battaglia della vendetta - Guerra sui mari - Sfida per l'impero

4 romanzi in 1

Un autore da 1 milione di copie

Giulio Cesare è stato appena ucciso, il suo cadavere insanguinato giace ancora caldo, sotto la statua di Pompeo. È stato pugnalato a morte a seguito di una congiura ordita da alcuni senatori. La storia di Roma e della repubblica non sarà più la stessa, perché l’omicidio segna l’inizio di una lotta feroce per il potere assoluto. Su questo scenario fosco irrompe il giovanissimo Ottaviano, l’erede designato nel testamento di Cesare. È solo un ragazzo, ma è determinato a vendicare il padre adottivo. Con l’aiuto di Mecenate, Agrippa e Rufo, forma una setta votata al culto della vendetta, con l’obiettivo di punire, uno dopo l’altro, tutti coloro che si sono macchiati del sangue di Cesare. E non solo: Ottaviano è ben determinato a sovvertire l’ordine costituito e a concludere ciò che Cesare aveva iniziato.
In quattro esaltanti romanzi, Andrea Frediani racconta l’ascesa e le sfide, la guerra civile e le battaglie (da Modena a Filippi, da Nauloco ad Azio) che portarono un giovane ambizioso a incidere il proprio nome a lettere capitali nell’eternità: Augusto. 

Un autore da oltre 1 milione copie
Tradotto in sette lingue
Vincitore del Premio Selezione Bancarella

I personaggi: 

OTTAVIANO • Giovanissimo, accetta l’eredità di Cesare contro il volere dei senatori e con il favore del popolo, e prosegue con determinazione il suo proposito di vendicare il padre adottivo, fino a trasformarsi in condottiero e, in seguito, nel primo imperatore della storia di Roma, con il nome di Augusto. 

AGRIPPA • Coraggioso e altruista, generoso e passionale, darebbe la vita per il suo amico Ottaviano. È l’anima militare del futuro imperatore Augusto per scalare il potere.

MECENATE • Giovane ricchissimo etrusco, vede in Ottaviano un vincente e sceglie di sostenerlo e di aiutarlo nella sua ascesa, mettendogli a disposizione il suo patrimonio, ma anche la sua straordinaria intelligenza politica.
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e Romani, Le grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma; 300 guerrieri, 300. Nascita di un impero e I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta, Guerra sui mari, Sfida per l’impero). L'ultimo pretoriano e L'ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2016
ISBN9788854199934
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    Anteprima del libro

    Gli invincibili Saga - Andrea Frediani

    alla conquista del potere

    i

    «Cesare è morto».

    L’annuncio del cugino Lucio Pinario, appena introdotto da uno schiavo, gelò Ottavia e le fece perdere la presa sulla piccola Claudia Marcella. La bambina cadde per terra strappando alla madre un urlo tale da coprire il suo pianto dirotto. Per fortuna Ottavia, già minuta e di bassa statura, si era sentita tremare le ginocchia e la figlia era cascata da un’altezza minima. Piangeva più per lo spavento che per il dolore, dunque, ma ciò non valse ad attenuare la disperazione della madre, che si chinò e la prese in braccio con cautela, aiutata prontamente dalla sua zelante ancella Etain.

    Quando si rese conto che Marcella non si era fatta nulla, Ottavia la consegnò all’assistente e rivolse di nuovo la sua attenzione al cugino, fissandolo con sguardo truce.

    «Non dovresti farmi questi scherzi di cattivo gusto. Lo sai che mi faccio prendere facilmente dall’ansia».

    «Vorrei che fosse un uno scherzo, cara cugina», rispose Pinario, imbarazzato. Era di diversi anni più grande di lei; ma sembrava più giovane, e solo perché Ottavia dimostrava un’età maggiore dei suoi venticinque anni. L’uomo scandì le parole, conferendo enfasi a ogni sillaba:

    «Giulio Cesare, il nostro prozio, il dittatore, è stato ucciso un’ora fa o forse meno alla Curia di Pompeo, durante la seduta al Senato. Non senti le urla per strada?».

    Lei si sentì di nuovo cedere le ginocchia e cercò una sedia. Si aggrappò a un bracciolo e vi si sedette, senza staccare lo sguardo dal cugino. Si concentrò sui suoni provenienti dall’esterno della sua abitazione sull’Aventino: in effetti, si captavano echi di grida. «Chi? Chi l’ha ucciso?», domandò costernata.

    «Si fanno tanti nomi. Nomi importanti. Di senatori. Di certo erano in parecchi. E gli altri sono stati a guardare».

    «Dimmene qualcuno».

    «Non oso farlo. Mi sembrano talmente incredibili che ancora non credo si tratti di loro. E non voglio accusare ingiustamente gente che Cesare ha perdonato dopo la guerra civile, gratificato o innalzato alle vette più alte dello Stato». Pinario appariva confuso.

    Ottavia esitò. Ancora non era convinta, sebbene il chiasso per strada aumentasse ogni momento, dandole conferma che qualcosa di grosso doveva essere successo.

    «Forse non è morto. In questi casi le voci corrono e si ingigantiscono di bocca in bocca», azzardò. «Forse è solo un attentato non riuscito…».

    «Lo hanno pugnalato in tanti, cugina». Pinario scosse la testa sconsolato. «E questo è l’unico dato certo. Si dice che il suo cadavere giaccia in una pozza di sangue, abbandonato nell’atrio della Curia, proprio sotto la statua di Pompeo Magno. Se è così, non c’è possibilità che sia sopravvissuto. E ora dobbiamo fare i conti con la nostra, di sopravvivenza».

    Ottavia trasalì: «Che vuoi dire?». Subito dopo, udì un tonfo che fece tremare il muro.

    «Morte ai sostenitori del tiranno! Morte ai suoi parenti!». Inquietanti minacce risuonarono per strada, facendo sussultare la donna, che tese istintivamente le braccia verso Etain e pretese la restituzione della bambina, ancora in lacrime.

    «Li senti? Troverebbero il coraggio di uscire così allo scoperto se Cesare fosse ancora vivo?», le disse Pinario. «Adesso tutti quelli contrari al suo regime, ma che non osavano protestare per paura di rappresaglie, daranno voce al loro scontento. E se è vero che a ucciderlo sono stati proprio i suoi più stretti collaboratori, non ci sarà più nessuno a difenderne i familiari. Nessuno. Siamo il primo obiettivo dei codardi che Cesare teneva a freno con la sua autorità. Dobbiamo fuggire».

    «Mia madre…», mormorò Ottavia, incapace di reagire, come spesso le capitava.

    «Da Azia è andato Quinto Pedio. Era presente all’omicidio, tra i senatori. Ha mandato uno schiavo ad avvertirmi e io ho preferito venire personalmente da te. Sapevo che non avresti creduto a uno schiavo. A parte la moglie, siamo i parenti più stretti di Cesare. Quindi siamo i più esposti, almeno finché la situazione politica non è chiara. Rischiamo più di tutti. Per fortuna, tuo fratello è in Illiria e non lo possono raggiungere».

    Ottavia voleva alzarsi dalla sedia nella quale era sprofondata e correre a mobilitare gli schiavi, far preparare loro una carrozza e raggiungere almeno la villa di famiglia di Velletri per garantirsi un minimo di sicurezza. Ma immaginarie catene la bloccavano, relegandola alla consueta impotenza che aveva contrassegnato la sua intera esistenza. Come sempre, la soluzione cui la spingeva la sua natura era aspettare un intervento altrui. «Mio marito non permetterà che ci accada nulla», si limitò a dire al cugino.

    «Ne sei certa?», replicò Pinario. «Marco Claudio Marcello era sicuramente in Senato, oggi, e non è mai stato un sostenitore di Cesare. Il dittatore l’ha graziato, durante le guerre civili, e forse, se non è stato tra gli esecutori materiali dell’assassinio, è tra quelli che ora non nascondono la loro soddisfazione. Lo prova il fatto che non è ancora tornato a casa. Non dovrebbe preoccuparsi della sua famiglia, prima di ogni altra cosa?»

    «Stai insinuando che ci darebbe in pasto alla folla inferocita?»

    «Certo che no. Ma anche se non è coinvolto, potrebbe non essere in grado di opporsi se se la prendono con noi. In questo momento, non si può essere sicuri di niente. Cesare era tutto, per Roma, e ciascun romano, anche tra i più insigni, non poteva che vivere alla sua ombra. Adesso la strada per il potere è aperta a tutti».

    «Cosa credi che succederà?»

    «Nessuno può fare previsioni. Bisogna prima capire chi ha davvero partecipato alla congiura e quanto sostegno troveranno i cospiratori tra il popolo e il Senato. Si dice in giro che si siano vantati di averlo fatto per ripristinare la legalità repubblicana, ma dubito che la Repubblica possa riprendere il suo normale corso, dopo anni e anni di velata monarchia, e con le magistrature già assegnate per i prossimi cinque anni. Ci sono troppi uomini ambiziosi, in giro; troppa gente che ritiene di poter emulare Cesare, per illudersi che tutto tornerà come prima del suo avvento. Credo che dipenda soprattutto da come agirà Marco Antonio», rispose dopo un attimo di esitazione Pinario. «Nonostante il discredito che ha presso il dittatore negli ultimi tempi, in fin dei conti è il console e il personaggio più autorevole delle istituzioni. E poi, bisogna vedere come influenzerà gli eventi Cicerone; al pari di tuo marito, se pure non ha partecipato al colpo di Stato, di certo ne gioirà, e di sicuro si batterà per ristabilire la Repubblica. Infine, alcuni cesariani non hanno tradito il capo: non saprei ancora dire quanti e quali sono, ma credo che tra essi vi siano il magister equitum Lepido, i consoli designati Irzio e Pansa, il suo amico Asinio Pollione, e i suoi più facoltosi sostenitori, come Cornelio Balbo. Che faranno? Tu hai paura, eh? Be’, ce l’ho anch’io: dubito che Roma troverà pace per lungo tempo…».

    «Ma perché… perché?», sospirò Ottavia. «Cesare ha dimostrato di saper essere clemente. E sarebbe stato via a lungo, per la guerra contro Parti e Geti. Allora perché lo hanno fatto?»

    «Perché? Secondo le voci che corrono, dicono di averlo ucciso perché voleva farsi re, e Roma non può tollerare una monarchia. Non dopo quello che, tanto tempo fa, abbiamo fatto per abbatterla. Ma secondo me, ciascuno degli aderenti alla congiura aveva qualcosa da guadagnare dall’uccisione di Cesare… O si sentiva in qualche modo danneggiato dalla sua esistenza», dichiarò in modo solenne Pinario.

    Rumori più forti degli altri richiamarono l’attenzione dei due interlocutori. Si sentirono voci concitate all’altezza del vestibolo. Era entrata della gente, e subito Ottavia riprese la figlia e la strinse a sé: aveva sempre rifuggito la violenza e perfino i contrasti di qualunque genere, e si era guadagnata la fama di donna più remissiva tra le austere matrone che affiancavano i senatori dell’Urbe. Non le piaceva contraddire le persone, che si trattasse di familiari, di conoscenti o perfino di estranei, e teneva molto al giudizio della gente, al decoro della famiglia e alla pace interiore. Bastava un nonnulla per metterla in ansia, e adesso che lei e i suoi cari apparivano in pericolo come mai era accaduto in precedenza, era convinta di non poter sostenere quella prova.

    Sentì di non riuscire più a trattenersi e scoppiò a piangere. Le sue lacrime inondarono il viso della figlia, che tornò a singhiozzare a sua volta. Ottavia si detestò per una simile mancanza di decoro davanti al cugino e agli schiavi. Se stavano venendo per ucciderla, avrebbe dovuto mostrarsi degna dei suoi avi e morire da vera donna romana, da Giulia quale era. Decise che, se non altro, dovevano trovarla in piedi, busto eretto e mento proteso in avanti; si asciugò le lacrime con il lembo della palla e provò ad alzarsi. Ma una forza formidabile la tratteneva a sedere. E intanto le grida all’interno della casa aumentavano. Rumori di ferraglia, suoni di scarpe chiodate che calcavano il bel pavimento marmoreo della domus, clangore di spade che cozzavano lungo i fianchi corazzati di soldati.

    Soldati?

    Ottavia sentì un brivido correrle lungo la schiena.

    Gladiatori. Il Clivus capitolinus, l’erta che conduceva alla sommità del Campidoglio, ne era pieno. Sono quelli di Decimo Bruto Albino, pensò Gaio Cilno Mecenate, con un occhio a quei nerboruti combattenti e un altro ai forzuti portatori della sua lettiga, tremanti di paura per la piega che stavano prendendo gli eventi. E, a dire il vero, di paura ne aveva anche lui, che certo non era mai stato un cuor di leone. Venuto in città dalla sua Arezzo per concludere personalmente una delicata transazione commerciale, si era trovato in mezzo a quella che sembrava una rivolta. O peggio ancora, una guerra civile.

    Cesare era morto, si diceva in giro. E i suoi assassini, tutti senatori tra i più in vista, andavano vantandosi per Roma del loro gesto, definendosi tirannicidi e difensori della libertà. Ma Mecenate, sebbene di classe equestre e non senatoria, era troppo ricco e legato da interessi economici ai grandi latifondisti del Senato per ignorare quale fastidio rappresentasse, per certe cordate finanziarie, il regime appena abbattuto. Era stata una resa dei conti, altro che gesto in favore della cittadinanza! Il dominio di Cesare era un ostacolo per i grandi magnati, non certo per il popolino, che anzi aveva tratto ampio vantaggio dalle riforme del dittatore e dalla pace da lui instaurata.

    Ma il popolo era volubile. Ed era sufficiente qualche imbonitore per orientare l’umore della folla e indurla ad approvare l’opera degli assassini, chiunque essi fossero. E adesso, la gente per strada si costituiva in gruppi, armati di randelli e pietre, e andava alla ricerca dei senatori che Cesare aveva creato, di Marco Antonio e dei suoi seguaci; di tutti coloro, insomma, che del regime erano stati un puntello. Ma altrettante bande armate di filocesariani, che rimpiangevano il dittatore, setacciavano la città alla ricerca dei senatori che lo avevano ucciso, o perfino di quelli che erano stati a guardare senza reagire; e nell’impossibilità di distinguere i fautori di Cesare dai suoi avversari e assassini, non andavano per il sottile e puntavano decisi contro chiunque indossasse una toga laticlavia.

    Perfino lui poteva vedersela brutta, in effetti: il suo abbigliamento non lo identificava come un senatore, certo, ma lo sfarzo di cui amava circondarsi poteva esporlo al livore del volgo. La sua lettiga, con i tendaggi finemente intarsiati e il legno della struttura su cui spiccavano pietre preziose incastonate, attirava l’attenzione; di solito, gli piaceva ostentare la propria smisurata ricchezza, ma in quella circostanza avrebbe preferito passare inosservato.

    Il popolo era eccitato, ed era difficile distinguere chi era contento per la morte del dittatore da chi bramava vendetta sui suoi assassini. Mecenate vedeva gente che se le dava di santa ragione, fazioni opposte che si aggredivano, cittadini che si arrampicavano sulle statue del dittatore assassinato per spingerle giù e altri che cercavano di impedirglielo, assembramenti di persone che rovesciavano i carri merci autorizzati a circolare in città prima che calasse il buio, probabilmente approfittando del caos seguito al delitto per saccheggiare. Non a caso, anche alcune botteghe erano state prese di mira da gruppi di scalmanati, e il facoltoso etrusco dubitava che fosse per ragioni politiche.

    E poi, cosa ci facevano i gladiatori sul Campidoglio? Erano schiavi, e se ne andavano in giro armati come se fossero soldati. Mecenate sapeva che erano di proprietà di Decimo Bruto perché poche ore prima, in mattinata, avrebbero dovuto partecipare ai ludi al Circo Flaminio, offerti proprio dal loro padrone per celebrare la partenza di Cesare per la guerra contro i Parti. Il senatore con cui avrebbe dovuto concludere l’affare per cui era venuto a Roma, Marco Claudio Marcello, lo aveva invitato al Circo; lì, gli aveva scritto, avrebbero potuto definire gli ultimi dettagli per il passaggio della villa di Cuma, in Campania, dalle proprietà del senatore a quelle di Mecenate. Ma l’etrusco aveva avuto un impedimento che lo aveva fatto ritardare di qualche ora, e aveva mandato avanti uno schiavo ad annunciare a Marcello che si sarebbero incontrati al Foro dopo i ludi e la seduta senatoriale.

    La seduta fatale a Cesare.

    Ma ora, era impensabile andare a cercare Marcello nel Foro. Le strade si erano fatte troppo pericolose. Sarebbe stato meglio rintanarsi in una delle sue proprietà urbane, si disse Mecenate, e aspettare che passasse la tempesta.

    O almeno, che si capisse chi aveva ucciso Cesare e cosa avevano intenzione di fare tutti gli altri.

    Vide che il Vicus unguentarius – la strada verso l’Aventino, dove aveva sede la sua più prestigiosa domus dell’Urbe – era ostruito da una banda di esaltati che avevano dato alle fiamme un edificio. Si stavano guardando intorno, e Mecenate ebbe la sensazione che stessero cercando qualcuno da buttare nel fuoco per divertirsi a vederlo arrostire come su una pira.

    Si rese conto che l’avevano visto. Gridò ai suoi portatori di affrettarsi verso il Clivus capitolinus e di avvicinarsi ai gladiatori. Le loro facce truci, forse, avrebbero dissuaso i facinorosi dal rincorrerlo ancora. Gli schiavi non se lo fecero dire due volte e aumentarono il passo, dando prova di una notevole resistenza quando iniziarono a risalire il pendio. Mecenate si sporse appena dalla tendina, e vide che quelli non demordevano; uno, anzi, afferrò una pietra e gliela lanciò contro, mancando di un soffio un portatore. Per fortuna, la retroguardia della formazione dei gladiatori era ormai prossima e, quando la distanza tra quest’ultima e i sobillatori si ridusse ancora, questi ultimi rallentarono fino a fermarsi del tutto.

    A quel punto, non rimaneva che accodarsi. Mecenate fece segno ai suoi uomini di seguire i combattenti, e ciò lo costrinse a risalire il colle. Non era quello che voleva, ma non gli parve di avere scelta, se non intendeva mettere a rischio la sua incolumità.

    Ma una volta sulla sommità, vide il caos.

    Tutta Roma sembrava essersi data appuntamento proprio lì, nell’area triangolare tra il Tempio di Giove Capitolino, il Tabularium e la Rupe Tarpea. I gladiatori e anche alcuni drappelli di soldati parevano garantire l’ordine, ma la situazione dava l’idea di poter degenerare da un momento all’altro. Tra i numerosi edifici sacri disseminati sul colle, le statue e le colonne, si assiepava gente di ogni classe sociale, sebbene i senatori fossero davvero pochi e, protetti dagli armati, spiccassero su tutti gli altri.

    L’attenzione di Mecenate fu attratta dal basamento del tempio principale, quello di Giove Capitolino. Sopra, alcuni ottimati con le vesti sporche di sangue tentavano di arringare la folla. Ma nel gran vociare che rimbombava nella piazza, solo quelli delle prime file potevano comprendere le loro parole. Per il momento, Mecenate si rilassò: probabilmente in nessun punto di Roma c’erano tanti tutori dell’ordine come in quel posto; se non altro, lì poteva godere di una qualche forma di protezione, in caso di pericolo.

    Si concentrò quindi sul tentativo di capire cosa stesse accadendo e chi fossero quelli sul basamento del tempio. Essere informati, negli affari come nella vita quotidiana, era il miglior viatico per un’esistenza di successo. E lui, di successo, era intenzionato ad averne molto. Non come magistrato o uomo politico, tantomeno come conquistatore o condottiero, ma come ricco uomo d’affari in grado di comprarsi qualunque cosa o persona.

    Sognava, Mecenate, di diventare un costruttore. Ma non di edifici, né di navi o di qualunque altra cosa materiale, bensì di diventare talmente influente da essere in grado di costruire le vite degli altri, o anche solo di orientarle, plasmarle, per poter determinare il corso della società e della storia. Non era interessato alla gloria, né alla fama o alla notorietà, ma solo al potere che derivava dal rendere gli altri soddisfatti. Non era una questione di altruismo, tutt’altro: il suo era un ego talmente forte da non fargli sentire il bisogno di stare in prima fila. Gli bastava la consapevolezza di essere quello che faceva funzionare le cose. Il solo cui gli altri potessero rivolgersi per sentirsi realizzati. Era una sensazione che aveva provato la prima volta a dodici anni, prima ancora di smettere la toga pretesta. Aveva donato una cetra a un pastorello delle sue parti che aveva sentito cantare con una voce melodiosa. Quello se n’era andato felice, e lui si era sentito simile a una divinità: un dio, anzi, con il potere di cambiare la vita di qualcuno e l’impressione di essere diventato, agli occhi di chi aveva beneficiato della sua generosità, oggetto di venerazione. A quel pastorello avrebbe potuto chiedere qualunque cosa, in seguito, con la certezza di essere assecondato.

    Le informazioni, dunque, erano sempre il primo strumento per poter offrire alla gente ciò di cui aveva bisogno. E anche per anticipare i loro desideri e servirglieli su un piatto d’argento. Scrutò con attenzione in lontananza per capire chi stesse declamando alla folla. Dalle loro vesti insanguinate, era chiaro che si trattava degli uomini che avevano ucciso Cesare.

    Strinse gli occhi, aguzzò lo sguardo e non poté credere a quel che vide.

    Marco Vipsanio Agrippa uscì dall’osservatorio astronomico con un sorriso radioso. L’astrologo Teogene gli aveva predetto un futuro denso di successi, superiori a qualunque ambizione gli consentisse la sua modesta condizione. Meglio ancora: il vecchio gli aveva prospettato traguardi superiori perfino a quelli raggiunti da qualsiasi altro romano prima di lui.

    Gaio Ottaviano e Quinto Salvidieno Rufo, entrambi in attesa del loro turno fuori dall’edificio in cima al monte che dominava Apollonia, si accorsero subito del suo cambiamento di umore. Era entrato turbato, il loro giovane compagno, timoroso di conoscere un destino infausto, e ne era uscito pressoché trionfante.

    «Cosa hai trovato lì dentro? Uno stuolo di ragazze nude che si sono date da fare per renderti felice? Io sapevo che c’era solo un vecchio…», disse Salvidieno Rufo, il suo amico più recente, che lui e Ottaviano avevano conosciuto proprio lì ad Apollonia.

    «Non sarebbero riuscite a rendermi così felice, te lo assicuro!», esclamò Agrippa, trattenendo a stento i piedi ancorati al roccioso terreno dell’aspra altura, a dispetto della sua massiccia figura, che non dava certo l’impressione di leggiadria.

    «Belle notizie per i prossimi anni?», chiese Ottaviano: con la sua lucida intelligenza, aveva subito colto il motivo di tanta gioia. Agrippa sapeva che, con lui, non poteva menarla tanto per le lunghe.

    «Altroché!», esclamò. «Se Teogene non godesse di grande stima e credibilità presso tutti i popoli stenterei a crederci e penserei che mi abbia preso in giro!».

    «Uff… e che ti avrà detto mai», lo canzonò Rufo. «Che sarai il nuovo dittatore a vita di Roma dopo Cesare?».

    Agrippa non l’aveva vista in quei termini e si rabbuiò per un istante. Immaginarsi come il successore del signore di Roma era roba da far tremare le gambe anche a un uomo ambizioso come lui.

    «Qualcosa del genere… sì», disse, quasi a mezza bocca, vergognandosene alquanto.

    Si accorse di aver turbato molto Ottaviano, con quella risposta, e si chiese se non avrebbe fatto meglio a tacere. Ma ormai era andata. L’amico, un patrizio appartenente a una delle famiglie più insigni e vetuste di Roma, era avviato verso un fulgido destino: era comprensibile che non tollerasse che un uomo di umili natali come lui ascendesse a vette ineguagliabili.

    «E allora è ovvio che ti ha preso per i fondelli», ammise Rufo. «Figurati se un povero disgraziato come te può raggiungere i traguardi di Giulio Cesare…».

    «Non ho detto proprio questo», mormorò Agrippa, imbarazzato. Intanto scrutava di sottecchi l’amico Ottaviano, per controllarne le reazioni. E il suo sguardo non gli piaceva per niente.

    «Teogene ci azzecca sempre. È risaputo», disse Ottaviano, con voce atona, guardando senza espressione un punto verso l’orizzonte. «Ci siamo venuti apposta».

    «Ma non è possibile… Cosa ha detto esattamente? E in base a cosa l’ha detto?», insisté Rufo.

    Agrippa guardò Ottaviano. Lo faceva spesso, prima di prendere un’iniziativa. Sebbene fossero amici fin da bambini, non perdeva mai di vista la differenza di rango e di classe sociale. Suo padre gli aveva insegnato a non dimenticare mai che l’amicizia con un nobile non autorizzava un plebeo a trascurare le gerarchie. In ogni frangente, doveva tenere presente che era Ottaviano a comandare, e lui doveva limitarsi a seguirne la scia, anche quando aveva l’impressione di poterlo sopravanzare.

    Un passo dietro. Sempre un passo dietro.

    D’altra parte, in quel modo era riuscito a raggiungere, a soli diciannove anni, un ruolo da ufficiale nell’esercito che si apprestava a condurre una delle più grandi campagne militari della storia di Roma: la conquista dei regni partico e dacico.

    Attese un cenno d’assenso dell’amico e solo allora parlò. «Gli ho dato la mia data di nascita, tutto qui. Poi lui ha studiato certe carte su cui erano tracciati disegni delle stelle, e mi ha detto un mucchio di cose. Che sarò un grande conquistatore, invitto in tutte le battaglie. Che lascerò l’Urbe più ricca di edifici e servizi, che darò a Roma potenza e gloria, e che rivestirò tutte le magistrature della Repubblica. E la mia stirpe raggiungerà vette ancora più alte delle mie…».

    «Ecco, lo vedi?», esclamò Rufo. «Non può essere, quindi quel vecchio è rimbecillito. Oppure l’astrologia non è una scienza esatta. Insomma, qui siamo venuti a perdere tempo. Se a te ha predetto cose simili, immagino cosa dirà a proposito del pronipote del dittatore e comandante supremo…», aggiunse ironicamente, esortando Ottaviano con un cenno della mano a entrare nell’edificio.

    Secondo Agrippa, il giovane ufficiale trattava l’illustre amico con una confidenza del tutto ingiustificata, spesso dimenticandosi che era non solo un parente stretto del dittatore, ma anche il magister equitum designato per la campagna, ovvero il prossimo secondo in comando; in fin dei conti, neppure Rufo era un patrizio, e poi la loro conoscenza si limitava all’inverno che avevano trascorso insieme ad Apollonia. Cesare vi aveva inviato il suo pronipote e anche lui, Agrippa, a prepararsi insieme alle legioni cui aveva fatto già attraversare il mare, in vista di quella che si prospettava come la sua guerra più importante, più di quella gallica, che aveva già consegnato al dittatore un posto di primo piano tra i grandi condottieri della storia.

    La nuova campagna avrebbe consacrato definitivamente Cesare, e chi era con lui ne avrebbe tratto grandi benefici. A cominciare dal suo parente maschio più stretto, Ottaviano, e dal migliore amico di quest’ultimo. Entrambi avevano legato subito con Salvidieno Rufo, tribuno della Marzia, la legione nella quale era stato inquadrato anche Agrippa con lo stesso grado; diversamente da loro due, però, Rufo, più grande di appena tre anni, aveva già una buona esperienza militare, avendo servito come recluta sotto Cesare nella guerra di Spagna. Anche loro, in realtà, avevano partecipato al conflitto iberico, ma solo nominalmente: a causa di un malore di Ottaviano, infatti, erano giunti in terra ispanica solo mentre si teneva, a Munda, la battaglia decisiva contro il figlio maggiore di Pompeo Magno, e il loro apporto si era limitato ad assistere ai rastrellamenti e alle rappresaglie.

    Rufo, d’altra parte, non aveva mai esitato a mettere a loro disposizione quanto aveva appreso in precedenza, dispensando con generosità ai due amici il suo intero bagaglio di conoscenze acquisite sul campo. Non era molto, rispetto a quanto insegnavano e pretendevano i centurioni che li addestravano con severità e costanza – senza dubbio perché così aveva voluto il dittatore –, ma il suo atteggiamento aveva contribuito a superare la diffidenza iniziale e a cementare un’amicizia già solida dopo una sola stagione.

    «Io non vado», disse improvvisamente Ottaviano alzandosi in piedi e avviandosi verso il pendio.

    «Come sarebbe?», esclamò Rufo afferrandogli il braccio e cercando di trattenerlo.

    Ottaviano fissò il braccio bloccato e poi l’amico con sguardo di ghiaccio, senza dire una parola. L’altro si rese conto dell’affronto e lo lasciò subito, come se scottasse. Agrippa, intanto, alzò gli occhi al cielo: Rufo doveva fare ancora molta strada per capire come trattare Ottaviano.

    «Perché rinunci?», chiese il tribuno, in tono più dimesso e rispettoso.

    «Non mi va, ecco tutto», rispose ancora gelido il giovane.

    Agrippa sapeva di dover affrontare la questione con molta cautela. E come amico, doveva almeno provare a convincerlo. «Eppure abbiamo bisogno di sapere cosa ti riserva il futuro, Ottaviano», gli disse avvicinandosi. «Sei tu la nostra guida. E sarai anche una delle guide di Roma, nei prossimi anni, grazie al favore che ti riserva il tuo illustre prozio. Quindi, sapere cosa sarai da grande significa anche venire a conoscenza del destino di Roma nei prossimi decenni…».

    Ottaviano rifletté, cupo in volto. «E se così non fosse? Se gli dèi avessero stabilito per me un destino meschino?».

    Agrippa capiva cosa intendeva. Quel destino meschino stava per inferiore al tuo. Sì, sarebbe stato imbarazzante, ma ormai sarebbe stato peggio se fosse rimasto col dubbio. La loro amicizia rischiava di incrinarsi per sempre. Adesso doveva proprio andarci, da Teogene. Bisognava tentare il tutto per tutto.

    Si chiese se Rufo capisse la posta in gioco in quella partita. Probabilmente la intuiva, ma non poteva comprenderne l’essenza. Loro due erano amici da una vita, soprattutto grazie al fatto che gli equilibri non si erano mai modificati: ma adesso, se nulla accadeva a ristabilire le gerarchie, sarebbe stata la fine. Avrebbero anche potuto diventare nemici.

    «E vuoi rimanere per sempre col dubbio?», finì per dire Agrippa. Tanto valeva parlar chiaro. Erano amici, no? Almeno per il momento…

    Ottaviano taceva.

    Rufo si sentì in diritto di intervenire: «Agrippa ha ragione, amico mio. Se vuoi essere un capo e se sei destinato a esserlo, non puoi sottrarti all’occasione di veder confermata questa tua aspirazione». Sì, grossomodo il tribuno intuiva la portata del problema.

    Ottaviano capì di non avere scelta. Stette ancora qualche istante a fissare l’orizzonte, poi trasse un profondo sospiro e si incamminò verso l’entrata dell’osservatorio astronomico senza dire una parola. Anche gli altri due amici rimasero in silenzio, e nessuno dei due osò aggiungere nulla durante l’attesa. Entrambi capivano la gravità del momento: ciò che era nato come una semplice curiosità da soddisfare si era trasformato in un perverso gioco al massacro, e la loro sopravvivenza era garantita da un solo risultato utile: la vittoria di Ottaviano.

    Curioso, rifletté Agrippa mentre aspettava; per loro era iniziata solo pochi mesi prima la più straordinaria delle avventure: la partecipazione, e come protagonisti per giunta, a uno degli eventi che più sarebbe rimasto impresso nella memoria dei Romani. Cesare aveva intenzione di vendicare la sconfitta e la morte del suo sodale e triumviro Crasso a Carre nove anni prima, recuperando le aquile perdute dai Romani e conquistando il regno partico in Mesopotamia e oltre. Non pago di questo ambizioso programma, intendeva poi estendere il controllo della Repubblica all’area danubiana, aggredendo anche il regno dei Geti e dei Daci. Un’impresa che, nelle intenzioni del dittatore, sarebbe durata un quinquennio, tanto che Cesare aveva predisposto le cose a Roma e in Italia, e perfino nelle province, affinché lo Stato avesse magistrati designati per l’intero periodo della sua assenza. Tutti i suoi principali collaboratori che non avrebbero avuto un ruolo nella campagna. Gli uomini di cui si fidava – i vari Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino, Gaio Trebonio, Decimo Bruto Albino, Marco Antonio, Aulo Irzio, Vibio Pansa, Marco Emilio Lepido, Asinio Pollione – avrebbero retto la Repubblica in sua assenza in qualità di consoli o proconsoli, badando che il Senato rispettasse le disposizioni da lui deliberate prima di partire.

    E al termine di quei cinque anni di guerra, lui e Ottaviano sarebbero tornati a Roma carichi di gloria, e ancora giovanissimi, con i loro ventiquattro anni, per iniziare quel cursus honorum che – ora lo sapeva – avrebbe portato almeno lui ai vertici della Repubblica.

    Era già tutto avviato. Erano le idi di marzo, ed entro tre giorni il dittatore sarebbe partito da Roma alla volta di Brindisi, per imbarcarsi verso la costa illirica, dove li avrebbe raggiunti con il resto delle legioni destinate all’impresa. Tempo un mese, e la marcia verso Oriente di un esercito sterminato e potente avrebbe avuto inizio. E alla testa di quell’esercito sterminato e potente ci sarebbero stati anche loro.

    Un rumore proveniente dall’edificio lo fece trasalire. Guardò in quella direzione e vide Ottaviano uscirne a grandi passi accostando la porta. Il giovane patrizio si avvicinò ai due amici, l’espressione indecifrabile, come sempre: neppure Agrippa era in grado di capire mai cosa gli passasse per la mente. Cedette all’impulso di chiedere, ma se l’amico non avesse voluto parlare, non sarebbe riuscito a cavargli nulla.

    «Allora? Gli hai dato la tua data di nascita?», gli domandò Agrippa con voce rotta dall’emozione. Era il 23 settembre, lo sapeva benissimo: si pentì di non aver avuto la prontezza di chiederlo lui stesso a Teogene, finché era dentro.

    Ottaviano annuì.

    «E?», lo incalzò Rufo, consapevole ormai anche lui di come le loro vite dipendessero da quello che avrebbe risposto Ottaviano.

    Il pronipote del dittatore attese in silenzio ancora qualche istante, poi disse: «Si è inginocchiato davanti a me».

    ii

    «In nome del magister equitum Marco Emilio Lepido assumo il controllo di questa domus!», dichiarò solennemente Gaio Cherea, irrompendo nella lussuosa abitazione di Marco Claudio Marcello senza neppure attendere che il custode interpellasse i padroni. Il drappello di soldati che guidava lo seguì con la cieca obbedienza che lui aveva saputo conquistarsi come centurione giovane, e con l’efficienza di legionari esperti e disciplinati, forgiati dalle campagne di Giulio Cesare.

    Non temette la prevedibile lavata di capo del padrone di casa. Doveva proteggere a ogni costo i familiari di Cesare, e aveva dalla sua gli ordini del vicecomandante del dittatore appena ucciso, di una delle massime autorità esistenti in quel momento di apparente vuoto di potere, dove non era chiaro chi fosse a comandare: i consoli? Il magister equitum? Il Senato? I pretori? Gli stessi che, si diceva, avevano ucciso il dittatore?

    Ma non solo. Il suo zelo era causato da motivi ben più personali. D’altra parte, era stato proprio lui a suggerire al suo comandante di provvedere alla protezione dei parenti di Cesare, non appena si era reso conto che il caos seguito all’assassinio rischiava di risucchiarli prima di chiunque altro in una spirale di violenza. E il giovane ufficiale avrebbe fatto qualunque cosa per evitare che accadesse.

    Qualunque. Pur di farsi perdonare da Ottavia.

    Sentì dietro di sé rumore di oggetti che cadevano a terra e si frantumavano. Si voltò e vide che i suoi soldati, pur abituati a procedere in formazione e marciando guardinghi, non potevano fare a meno di urtare le statue e le suppellettili lungo le pareti del vestibolo. Alzò le spalle: in quei momenti, a Roma poteva succedere ben di peggio. Irruppero nell’atrio, e la vista di Etain che veniva loro incontro gli fece sobbalzare il cuore.

    Era sempre stata coraggiosa. Ottavia non avrebbe potuto trovare un’ancella migliore e un’amica più fidata: ci voleva fegato per andare incontro a un gruppo di soldati che irrompeva nella casa della propria domina. D’altra parte, la padrona l’aveva scelta come sua assistente e segretaria, e ciò la diceva lunga sulla sua dedizione alla casata dei Giuli.

    Cherea vide l’espressione della ragazza farsi d’improvviso più rilassata, non appena si rese conto che alla testa del drappello c’era lui. Non ci sarebbe stato bisogno di spiegarle che era venuto per proteggerli, ma dovette farlo per non dare ai presenti l’impressione che la conoscesse già. E anche per rassicurarla, se possibile.

    «Sono il centurione Gaio Cherea, attendente del magister equitum Marco Emilio Lepido. Chiama il tuo dominus», fece alla giovane schiava. «Digli che ci sono disordini in città dopo la morte del dittatore. Abbiamo l’incarico di proteggervi e di metterci a disposizione del senatore. Prendiamo pertanto in consegna questa abitazione». Sperò che la situazione non sembrasse quella che intendeva Lepido: il magister equitum, mostrandosi in apparenza solerte interprete della volontà del dittatore, intendeva in realtà procurarsi degli ostaggi o una merce di scambio, nel caso in cui gli assassini del suo capo avessero guadagnato un vasto consenso e se la fossero presa anche con lui. Ma intanto il giovane centurione era lì a proteggere Etain, e avrebbe impedito che le facessero del male.

    «Il dominus non è in casa. Andrò a informare la domina», gli rispose l’ancella, con uno sguardo che a lui parve d’intesa.

    Gaio si sentiva già teso per l’incontro, che aveva atteso per nove anni. Era entrato in quella casa con un groppo alla gola e lo stomaco invaso dalle fiamme. E ora, l’assenza di Marco Claudio Marcello, che Lepido gli aveva chiesto espressamente di trattenere, lo innervosì ulteriormente: era nota l’ostilità del senatore nei confronti del dittatore, ed era possibile che avesse perfino appoggiato i congiurati, o che stesse facendo causa comune con loro. E ciò complicava le cose.

    La comparsa di Ottavia, seguita da Etain con una bambina in braccio, lo mise improvvisamente di fronte alla responsabilità di dover affrontare la situazione che aveva temuto e allo stesso tempo sperato per nove anni.

    Per gli dèi, com’era cambiata! L’aveva lasciata poco più che bambina, e adesso era una donna fatta. Gli venne da pensare, ironicamente, che anche lui era responsabile di quella trasformazione. Non era diventata bella come i suoi tratti e la sua grazia promettevano da adolescente, ma aveva mantenuto il portamento elegante, tipico della sua famiglia, quella dolcezza nell’espressione che faceva venire voglia di proteggerla, e quel nasino a punta che, per un breve ma irreparabile momento, gli aveva fatto perdere la testa.

    «Ebbene, centurione Gaio Cherea, cos’è questa irruzione? Siamo davvero in pericolo di vita?». Ottavia parlò con una voce piena di apprensione che Gaio stentò a riconoscere. Era la voce di una donna, ma il tremolio che vibrava in essa gli fece ricordare quella della bambina che aveva conosciuto. Si chiese se fosse turbata dal loro incontro oppure dagli eventi drammatici che stavano segnando la sua famiglia. O da entrambi.

    Solo allora si accorse che accanto a lei c’era un altro aristocratico con la toga da senatore. Era poco più anziano di lui e aveva un’aria di famiglia: i Giuli possedevano tutti, chi più chi meno, tratti con cui si sarebbero potuti raffigurare statue degli dèi. Non per niente si vantavano di discendere nientemeno che da Venere. Il che, se era vero, significava che anche la stirpe dei Cherea avrebbe avuto sangue divino.

    Ottavia si accorse che Gaio guardava l’uomo al suo fianco. «Costui è mio cugino, Lucio Pinario Scarpa. Parla, dunque».

    Gaio annuì. Conosceva Lucio Pinario come uno dei parenti più stretti di Cesare, ma non poteva ricordarsi il volto di tutti i senatori. Conosceva bene l’altro cugino di Ottavia, Quinto Pedio, perché era stato un buon comandante sotto il dittatore e si era conquistato una certa fama, ma quel Pinario non era poi tanto celebre tra i militari come lui.

    Quando parlò, sperò di non tradire la propria emozione: «Come ho già detto alla tua ancella, domina, siamo qui per proteggervi. Avrai saputo dell’atroce delitto di cui è stato vittima il tuo prozio. Roma non è sicura, al momento, a maggior ragione per la famiglia del dittatore…».

    «E Lepido è così premuroso da mandarci una scorta?», disse Pinario in tono ostentatamente ironico. «Davvero gentile da parte sua… cautelarsi contro ogni evenienza».

    Non se l’era bevuta. Quel che il saccente non sapeva era che lui aveva davvero interesse a salvare Ottavia, e quindi – al di là delle intenzioni di Lepido – la scorta avrebbe avuto davvero una funzione protettiva.

    «Senatore, siamo qui esclusivamente per la salvaguardia della famiglia del dittatore», specificò, rispondendo a Pinario ma fissando Ottavia, con la speranza che lei capisse la sua posizione. Ma la donna aveva gli occhi velati di lacrime. Cherea la ricordava fragile, e adesso vedeva che il tempo non le aveva infuso maggiore fiducia in se stessa.

    Eppure, la donna lo stupì trovando la forza di fare qualche passo verso di lui. Si fermò a breve distanza dal centurione rivolgendosi ai presenti: «Accettiamo la protezione offertaci dal magister equitum», disse, inframezzando le parole con qualche singhiozzo. «In attesa che torni mio marito, lascio che sia tu, centurione, a decidere cosa fare al riguardo», aggiunse, fissandolo negli occhi solo per un istante, per distogliere lo sguardo subito dopo.

    «Grazie, domina», si sentì in dovere di dire Gaio Cherea, che poi si rivolse ai suoi soldati: «Disponetevi a coppie ai due lati del portone, e poi sul retro, lungo il muro di cinta del giardino posteriore. Io vi raggiungo dopo aver ispezionato la casa in cerca di eventuali punti da presidiare».

    «Questo è un sopruso!», strepitò Lucio Pinario. «Non ne avete il diritto! Farò le mie rimostranze al magister equitum! E anche al console Marco Antonio!». Ottavia, invece, allungò una mano e gli prese il braccio, cercando di calmarlo.

    «Siamo in una situazione, senatore», gli rispose Gaio ergendosi in tutta la sua robusta figura, «in cui domani non si sa a chi dovrai farle, le tue preziose rimostranze. L’autorità potrebbe cambiare di ora in ora, e forse non ti è chiaro che siamo di nuovo di fronte allo spettro di una guerra civile, per giunta di tutti contro tutti, perché non è ben chiaro chi sta con chi. L’unica cosa che conta, adesso, è preservare dal caos chi potrebbe rimetterci di più».

    Pinario aprì la bocca per replicare, ma rinunciò, guardando la cugina, che fece un cenno di assenso. «Quindi non posso neppure uscire e andarmene a casa?», disse con poca convinzione.

    «Ti suggerirei di evitarlo, almeno finché la situazione non si è chiarita. Sul Campidoglio si stanno prendendo decisioni importanti, a quanto so», replicò Cherea.

    Pinario sbuffò, poi afferrò il braccio del centurione e lo strinse con vigore. «Hai ragione. Ti chiedo scusa. Mi rendo conto che la vostra presenza è il minore dei mali, in questo momento. Consentimi solo di andare a dire al mio schiavo all’uscio di avvertire la mia famiglia che non rientro».

    A Gaio Cherea piaceva la gente che sapeva chiedere scusa. Soprattutto quando si trattava di potenti con un orgoglio profondamente radicato. Decise che Pinario gli stava simpatico, tutto sommato. «Vai pure, senatore. Sappi comunque che Lepido ha mandato soldati anche a casa tua, così come in quella di tuo cugino Quinto Pedio», rispose.

    Pinario annuì e uscì dall’atrio, lasciandolo con Ottavia. Si guardarono a lungo, senza dirsi una parola. Gaio avrebbe voluto raccontarle un’infinità di cose, ma non sapeva come cominciare: ogni esordio gli pareva vacuo e superficiale. E poi… non riusciva proprio a interpretare l’atteggiamento di Ottavia. Era molto turbata, certo, ma poteva esserlo solo per il dramma che stava vivendo la sua famiglia. E poi, lei si turbava con facilità; per questo, soprattutto, lui non riusciva a perdonarsi per quello che le aveva fatto, anche se non aveva certo dovuto forzarla.

    «Ottavia… io…», biascicò infine, senza sapere bene come proseguire.

    Lei fece un cenno di diniego. «Non c’è bisogno che tu mi dica nulla o che ti giustifichi. Dimmi solo come sta Marco: Etain mi dice che cresce sano e robusto».

    Gaio si sentì rassicurato e fece per risponderle. Ma il rumore della colluttazione proveniente dal vestibolo attirò la sua attenzione. Possibile che la casa fosse già sotto attacco? Ma se ancora non era neppure chiaro chi guidava l’opposizione al dittatore ucciso! Uscì dall’atrio e si precipitò verso l’ingresso. Quando vi giunse, vide un suo soldato a terra con uno squarcio all’addome, altri due disarmati e tre che non conosceva con le spade puntate sui commilitoni. E uno dei legionari armati teneva in braccio la figlia di Ottavia, mentre l’altro aveva afferrato per il polso Etain.

    «Cos’è questa storia?», chiese, con tutta l’autorità di cui era capace, ma senza sguainare il gladio.

    Gli rispose il soldato con la bambina: «Tu non hai ben chiaro lo sviluppo degli eventi, centurione. Questa famiglia la prendiamo noi: i pretori che hanno ucciso il tiranno stanno assumendo il controllo della città e ci saranno molto grati se glieli consegniamo. Sfodera la spada e gettala a terra, o la bambina crescerà senza il suo bel nasino».

    Ottavia lanciò un grido di terrore, e a Gaio non restò che ubbidire.

    A Mecenate pareva incredibile aver incontrato Claudio Marcello nella ressa che si era creata sul Campidoglio intorno agli uccisori di Cesare. Ma pareva ancor più incredibile che ad ammazzarlo fossero stati i suoi più stretti collaboratori.

    «Marco Giunio Bruto… Per gli dèi, Cesare lo ha perdonato per essersi schierato contro di lui nella guerra civile, lo ha fatto pretore urbano e futuro propretore in una provincia importante», commentò con Marcello mentre le loro lettighe affiancate cercavano di farsi strada giù per il Clivus capitolinus.

    Marcello rispose, ma l’etrusco non riuscì a sentire nulla. La voce del suo interlocutore, sdraiato nella lettiga a fianco, era subissata dalle urla dei veterani di Cesare, ormai coloni in pensione convenuti in città in quei giorni per salutare la sua partenza verso l’Oriente e ricevere i donativi promessi dal dittatore. Tuttavia intuì dai movimenti delle sue labbra che stava parlando di Cassio, il pretore peregrino che, ancor più di Bruto, aveva fruito della clemenza di Cesare durante la guerra civile, anch’egli destinato da lui al governatorato di una provincia.

    La sua lettiga ondeggiò violentemente, e Mecenate si ritrovò quasi in braccio un rozzo individuo che un altro cittadino truce stava prendendo a pugni.

    «Quanti soldi ti hanno dato quegli assassini, porco? Abbastanza per dimenticare quello che Cesare ha fatto per te, vero?», gridò l’energumeno che stava prevalendo nello scontro mentre l’altro, incurante di essere finito addosso alla lettiga dell’etrusco, cercava di allontanarlo tirandogli calci.

    Soldi caddero sul tessuto imbottito e tra i cuscini su cui era sdraiato Mecenate, e non fecero che confermare quanto aveva detto il cittadino. «Tu difendi un tiranno! Un uomo che ci ha privati della libertà!», gridò la vittima, voltandosi ed esponendo la schiena ai colpi del persecutore, mentre cercava di recuperare il suo denaro tra le gambe dell’etrusco. Mecenate scalciò freneticamente, inorridito dal fastidio che gli provocava la vicinanza di un individuo dal fetore insopportabile, più che dall’intromissione. Ma era anche impaurito dalla possibilità che i due notassero il forziere nascosto sotto uno dei cuscini: lì c’era la somma che aveva intenzione di dare a Marcello per l’acquisto della villa di Cuma.

    I due uomini che Mecenate aveva assoldato per proteggerlo si decisero finalmente a intervenire. Del resto, avevano avuto il loro bel daffare a liberarsi della gente che si azzuffava per strada. I due litiganti furono scaraventati senza tanti complimenti fuori dalla lettiga e presi a calci, ma ciò non gli impedì di continuare il loro diverbio. Mecenate si guardò intorno e vide che un numero sempre maggiore di persone era coinvolto negli scontri. Urgeva togliersi di mezzo.

    «Tutto a posto?», si sincerò Marcello.

    «Sì, nessun problema», rispose l’etrusco. «A quanto pare, i cospiratori sono riusciti a conquistare alla propria causa un bel po’ di gente, con quella distribuzione di denaro seguita al loro discorso…», disse.

    «Bah! In fin dei conti, anche Cesare si è conquistato il favore popolare con i donativi. Il popolo è feccia: cosa sono, questi veterani inneggianti a lui, se non gente che ha corrotto con il bottino di guerra e gli insediamenti nelle colonie che ha costretto noi senatori ad autorizzare?».

    Marcello era stato un altro dei senatori graziati da Cesare dopo la guerra civile. E non era difficile capire che non era per nulla dispiaciuto della sua morte, sebbene non arrivasse all’eccesso di Publio Cornelio Dolabella, l’uomo che il dittatore aveva scelto come console al posto suo dopo la partenza per la campagna partica; questi era salito sul palco del Tempio di Giove Capitolino insieme ai congiurati e si era vantato di aver partecipato all’attentato, sebbene qualcuno lo avesse smentito subito dopo. E, come lui, avevano fatto altri personaggi di spicco, dando un chiaro segnale dell’orientamento della gente che contava a Roma.

    Mecenate preferì evitare discussioni con l’uomo con il quale si apprestava a concludere una transazione d’affari. Apprezzava molto l’operato del dittatore defunto e, fosse stato per lui, avrebbe messo in prigione e giustiziato tutti i suoi assassini senza tanti complimenti. A quanto pareva, però, la politica romana stava prendendo un’altra direzione. Preferì continuare a commentare l’elenco dei congiurati, mentre ormai sembrava avviato a uscire dalla zona più calda. «Ma a me sorprende ancor più la presenza di Decimo Bruto Albino tra i cospiratori!», disse. «Ha vinto più d’una battaglia per Cesare, ed era tra i collaboratori preferiti del dittatore, tanto da meritarsi il governatorato della Gallia per l’anno prossimo».

    «Tieni presente che Cesare fu tradito anche dal suo principale collaboratore, Tito Labieno», replicò Marcello. «Era di sicuro un autocrate, se è riuscito a farsi odiare perfino dai collaboratori che ha più premiato. E che mi dici di Gaio Trebonio? Pare che abbia tenuto occupato Marco Antonio mentre gli altri facevano la festa a Cesare. Gaio Trebonio, ti rendi conto? È stato il suo legato in Gallia per tanti anni, e perfino in Britannia con lui, e poi pretore, e console, e futuro proconsole d’Asia. Un uomo tanto gratificato da un superiore dovrebbe avere per lui una dedizione incondizionata. E invece non ha esitato a ucciderlo. Proprio perché agiva a stretto contatto con Cesare, doveva essere esasperato dalla sua tirannide!».

    Mecenate, invece, aveva l’impressione che i nomi appena citati, e gli altri che aveva sentito fare a proposito della congiura, avessero agito soprattutto perché schiacciati dalla personalità del dittatore, che li aveva condannati tutti a essere delle mezze figure. Un conto era essere console in una Repubblica che seguiva il normale corso istituzionale, altro era esserlo sotto una figura ingombrante come quella di Cesare: la storia avrebbe ricordato lui, e relegato a meri comprimari i suoi collaboratori, perfino se avevano occupato i vertici dello Stato.

    Probabilmente, l’avevano fatto per orgoglio e per ambizione, oltre che per interessi concreti di carattere economico. Mecenate era pronto a giurare che i suoi uccisori, coloro che avevano dichiarato sul podio del tempio di aver agito in nome della libertà di scelta, non avrebbero rinunciato ai posti di comando che lo stesso Cesare aveva assegnato loro per i prossimi cinque anni. A meno che, naturalmente, gente come Marco Antonio o Emilio Lepido o Cicerone non riuscisse a convogliare verso di loro l’ostilità popolare e a metterli fuori gioco. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe accaduto: Antonio, per esempio, non si era più visto, e correva voce che si fosse tappato in casa nel timore che attentassero anche alla sua, di vita. Lepido, che avrebbe dovuto fare le veci di Cesare, si era affrettato ad asserragliarsi al di là del Tevere.

    E si trattava dei due uomini che, più di ogni altro, avrebbero ambito a sostituirsi al dittatore.

    Mecenate rabbrividì, al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere: quei due non avrebbero lasciato tanto facilmente il potere ai cesaricidi, e stavano sicuramente preparando le loro prossime mosse. Altro che fuga! Ma intanto i congiurati avevano tutto l’agio di lavorare per conquistarsi il favore della folla, mutevole per definizione: ieri inneggiante a Cesare per il frumento che faceva distribuire gratuitamente, oggi pronta ad assecondare i suoi uccisori per qualche sesterzio di gratifica.

    «Finalmente la Repubblica è restaurata! Era da almeno quattro anni, dal passaggio del Rubicone da parte di Cesare, che era stata alterata e sostituita da una monarchia!», esclamò Marcello, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.

    Mecenate si accorse di aver iniziato la risalita del Colle Aventino, dove Marcello aveva la sua abitazione. La compagnia di quell’uomo iniziava a pesargli. Non gli piaceva; non gli piacevano le sue idee politiche, né il suo atteggiamento: era un codardo che aveva sempre osteggiato Cesare, ma che si dimostrava capace di venire allo scoperto solo adesso che era morto. Evidentemente, i congiurati ben conoscevano la sua vigliaccheria e si erano ben guardati dal coinvolgerlo. Eppure percepiva anche il disprezzo che il senatore nutriva nei suoi confronti: Marcello era di quei patrizi di antica nobiltà che guardavano dall’alto in basso i membri della classe equestre come lui, per giunta Italici e non Romani, su cui Cesare aveva fatto affidamento più che sui senatori stessi. Ma nello stesso tempo, gli ottimati come Marcello negli affari non si facevano influenzare dai loro pregiudizi: si turavano il naso e non esitavano a stipulare contratti con i destinatari del loro disprezzo.

    D’altra parte, si disse, era quello che faceva anche lui. Si turava il naso.

    Però non poteva starsene zitto, di fronte all’enorme ingenuità di Marcello. La sua affermazione andava corretta, seppur coi modi dovuti.

    «Sei sicuro di sapere cosa vogliono veramente Marco Bruto e Cassio, Decimo Bruto e Trebonio, Casca e gli altri?», chiese al senatore mentre i portatori continuavano a fare in modo che le due lettighe procedessero appaiate. «Non hanno esposto programmi, né progetti. Non hanno dichiarato di voler deporre le cariche che Cesare ha assegnato loro anche per il futuro, il che lascerebbe supporre che non vogliano nuove elezioni. E non credo che siano così ingenui da pensare che la Repubblica riprenderà il suo normale corso, come se in questi anni non fosse successo nulla. Cesare ha spianato la strada all’ambizione. Vedrai quanti emuli avrà, adesso…».

    Marcello liquidò la faccenda con un gesto di sufficienza. «Sciocchezze! La democrazia è troppo radicata nei Romani perché ora, tolto di mezzo il tiranno, non riprenda il suo corso. I cesaricidi non depongono le loro cariche semplicemente perché esse conferiscono loro l’immunità di fronte alle vendette dei filocesariani. Se lo facessero, sarebbero alla mercé di Antonio e Lepido, che potrebbero processarli quando vogliono, toglierli così di mezzo e prendersi il potere per sé! Ma Cicerone metterà tutti d’accordo, vedrai. So che intende proporre un’amnistia per i tirannicidi…».

    In fatto di democrazia, ragionò Mecenate, i Romani avevano perso da tempo il diritto di definirsi maestri: Marcello faceva finta di dimenticare le dittature di Mario e di Silla, il triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso, i tentativi falliti di Catilina e del padre di Lepido, le guerre civili, le proscrizioni, oltre alla dittatura a vita di Cesare, che avevano contrassegnato l’ultimo mezzo secolo della politica romana. Non vedeva proprio come il prossimo futuro potesse differire dagli anni che lo avevano preceduto. Ma stavolta preferì tacere e finse di essersi convinto della bontà delle argomentazioni del suo interlocutore. Negli affari la menzogna era essenziale, concluse, e lui era lì solo per quello: affari.

    Perciò si irrigidì quando Marcello si fermò davanti a un’elegante domus presidiata da due legionari. Se quella era la casa di Marcello, concludere una transazione commerciale sotto lo sguardo avido di militari non era la migliore delle soluzioni. E se il senatore voleva intimidirlo… be’, c’era riuscito.

    Ma notò che anche il suo ospite appariva turbato. «Soldati! Perché siete qui?», chiese Marcello ai due legionari, scendendo dalla lettiga.

    «Per la tua protezione, signore. La tua e quella della tua famiglia, per ordine del magister equitum Emilio Lepido!», esclamò uno di loro.

    Il senatore esitò, diffidente, poi annuì e invitò Mecenate a scendere a sua volta. Questi intimò a due dei suoi portatori di prendere il forziere con i soldi e lo seguì oltre l’uscio. Era consapevole di quanto potesse risultare rischioso girare con un baule di monete al seguito; ma intendeva sbattere in faccia a Marcello la sua ricchezza e ricoprirlo di denaro sonante, per vincere la sua aria di superiorità nei confronti degli equestri. Gente come quella non aveva soggezione di nessuno, e tollerava chi non aveva avi illustri solo se era ricco sfondato. Lui lo era, e non intendeva nasconderlo, quando ciò poteva risultargli utile. Sbattergli in faccia i suoi averi avrebbe forse indotto il suo nobile interlocutore a mostrargli quel rispetto che, di solito, i senatori riconoscevano solo ai loro pari.

    Non lo convinse l’espressione del custode, più tesa di quanto avrebbe dovuto essere. Più che protetto, sembrava minacciato. Anche Marcello appariva nervoso, segno che pure lui percepiva qualcosa di strano. Nel vestibolo alcuni busti erano a terra, frantumati, e si notava un certo disordine. Mecenate e Marcello entrarono nell’atrio e altri due soldati sbarrarono loro la strada.

    «Chi siete?», chiese uno di loro, lo sguardo arcigno sotto la visiera dell’elmo.

    «Come chi sono? Sono il padrone di casa, ecco chi sono, imbecille!», rispose Marcello, già rosso d’ira. «Chi siete voi, piuttosto, e cosa fate qui?», rilanciò.

    Il soldato gli diede un violento manrovescio che lo colpì sulla guancia e lo fece barcollare. Mecenate si precipitò a sostenerlo, frenando una sua eventuale reazione. Si rese conto di aver fatto bene: il senatore vide quella che doveva essere sua moglie immediatamente dietro i soldati, con una bambina in braccio, e fece per gettarsi verso di loro, trovando però le lance a sbarrargli la strada.

    «Calmati, amico. Non sei tu che comandi. La città è nel caos e sono i soldati a dettar legge, per ora», disse un altro soldato entrato solo allora nel loro campo visivo. Sventolò il proprio gladio sotto il naso di Marcello e aggiunse: «Tu adesso te ne stai buono e zitto finché non decidiamo a chi è più opportuno consegnarti. Valete un mucchio di soldi, lo sai? E gli uccisori di Cesare ne stanno distribuendo tanti, a quanto si dice…».

    Mecenate notò solo allora che quattro legionari, tra cui un centurione, erano stati disarmati e stavano in piedi, vicino all’impluvio e alla moglie di Marcello, la pronipote di Cesare, Ottavia. C’era stato dissenso tra i militari, dunque: qualcuno non era d’accordo con il sequestro, e i subalterni si erano ribellati al loro ufficiale. La situazione, quindi, si poteva ancora recuperare. Mecenate si mise a pensare in quale modo: tanto, nessuno sembrava attribuire troppa importanza a lui, che non rappresentava alcuna merce di scambio. A meno che non sapessero del suo denaro, naturalmente: bisognava farne buon uso prima che glielo rubassero.

    Fissò Marcello, che appariva sgomento e a stento teneva a freno la rabbia: una beffa, pensò ironicamente, che proprio lui, fautore occulto dei cesaricidi, finisse vittima di altri che volevano ingraziarseli. Poi guardò Ottavia: non era bella, ma aveva grazia, e ciò la rendeva più che interessante agli occhi di un uomo. Tremava e aveva gli occhi umidi, e questo rivelava una mancanza di autocontrollo e una fragilità di cui, senza dubbio, il marito non poteva andare fiero. Sembrava del tutto inadeguata al ruolo di matrona di primo piano della Repubblica, moglie di un senatore e pronipote di un re. Al suo fianco si trovava un altro senatore, con l’aria di essere uno di famiglia. Doveva essere un altro dei Giuli, e aveva pressappoco l’età di Marcello; si guardava nervosamente intorno e riusciva a stento a mantenere un atteggiamento dignitoso; probabilmente avrebbe preferito sbraitare e lamentarsi, ma non era la paura a frenarlo, bensì l’orgoglio. Di seguito, il suo sguardo cadde sul centurione. Si teneva vicino a Ottavia e ne seguiva con attenzione i movimenti; era giovane, per essere così alto in grado, quindi i suoi genitori dovevano essere ricchi. Lui non era venale, dunque, e forse ci si poteva contare; soprattutto se, come sembrava, aveva qualche interesse personale a proteggere Ottavia.

    Infine osservò i soldati che avevano in mano la situazione. Facce losche, da miserabili, di certo disinteressati alle vicende politiche del momento, ma altrettanto decisi a ricavarne il massimo vantaggio economico per uscire dalla loro condizione.

    «Che si dice in Campidoglio, senatore?», fece uno dei legionari armati, rivolgendosi a Marcello. «Da che parte è il popolo? Gli uccisori di Cesare si sono conquistati un vasto seguito? Se Marco Antonio e Cicerone sono ancora rintanati a casa, e Lepido se ne sta in disparte, non dovrebbe essere difficile per loro impossessarsi della città». Marcello volse la testa dall’altra parte, fissando un punto imprecisato della parete a fianco a lui.

    Il soldato fece qualche passo avanti e lo spintonò. «Rispondi quando ti parlo, senatore! Ora non sei in Senato, protetto dai littori del console!».

    «Forse il senatore Marcello non ti risponde perché non è in grado di farlo», si affrettò a intervenire Mecenate. «In Campidoglio c’è una tale confusione che non possiamo sapere quali sviluppi avrà la situazione. E il vostro gesto potrebbe risultare inutile o addirittura ritorcervisi contro», precisò.

    «E tu chi saresti?». Il soldato sembrò essersi accorto solo allora della sua presenza.

    «Uno che ha una proposta interessante da farti e abbastanza soldi da essere certo che gli presterai ascolto», rispose l’etrusco.

    Il soldato lo squadrò, diffidente, Mecenate si sentì addosso i suoi occhi pieni di disprezzo, ma anche di avidità, e fu certo di avere tutta la sua attenzione. «Ti ascolto. Dovremo pur passare il tempo fino a che non ci porteranno notizie su chi ci offrirà di più. E non credo che sarà prima di domani in giornata», disse infine il militare, rilassandosi un po’.

    «Io ti offrirò di più. E probabilmente, sarà anche l’unica offerta che riceverai a breve», dichiarò l’etrusco.

    Il soldato rimase in silenzio. E anche gli altri sembravano tutt’orecchie.

    «Io ho visto solo caos, al Campidoglio», proseguì Mecenate. «Tra il popolo, solo chi ha ricevuto donativi è sembrato assecondare gli assassini di Cesare. Molti altri parevano in attesa degli eventi, mentre i veterani erano decisamente ansiosi di vendicarsi di chi ha ucciso il loro benefattore. Non si sa cosa accadrà domani in Senato e in città. Potrebbero esserci regolamenti di conti o, peggio ancora, ribellioni, e i potenti potrebbero essere troppo impegnati nelle loro faide per interessarsi alla vostra offerta. Insomma, potreste avere qualcosa tra parecchi giorni o non avere nulla. Io, invece», e andò verso lo schiavo che deteneva il forziere, «vi offro una bella somma subito, se ve ne andate immediatamente». Ordinò allo schiavo di aprirlo e il lucore dei sesterzi in superficie sembrò abbagliare gli occhi del soldato, strappando a lui e ai commilitoni un grido di stupore.

    Il legionario si precipitò sul forziere e vi affondò le mani, rendendosi subito conto che vi poteva infilare quasi tutto l’avambraccio prima di raggiungere l’ultima moneta sul fondo. Sorrise ai camerati e gridò: «Ragazzi, qui ce n’è abbastanza per sistemarci per un pezzo!».

    Gli altri armati si precipitarono verso il forziere per provare la stessa inebriante sensazione, e Mecenate scorse con la coda dell’occhio l’ufficiale irrigidirsi e fare un passo verso di loro. Capì che intendeva approfittare della loro distrazione per prenderli alle spalle, ma giudicò la sua manovra troppo pericolosa: non era ciò che voleva. Pertanto, gli fece un cenno di diniego con la testa, e quello si fermò, esitante.

    Nel frattempo, colui che pareva il capo degli ammutinati tornò a parlare con lui. «Mettiamo che io accetti la tua gentile offerta», disse, «mi tenga il denaro e lo spartisca con i miei camerati, e poi domani porti lo stesso questa famiglia a chi mi darà altri soldi…».

    «Mettiamo che io te lo impedisca…».

    Il legionario scoppiò a ridere. «Ah! E come intendi fare? Mi sembri ben poco robusto e per niente armato, per fare minacce del genere!».

    «Oh, ma io sono armato, molto più di te!», rispose Mecenate, sforzandosi di sorridere e di mostrare sicurezza. In realtà, non si era mai trovato in una situazione simile, e solo adesso stava mettendo alla prova il suo sangue freddo. «Sono armato di soldi… altri soldi! Questo è solo un acconto: se ora lasciate libera questa famiglia e mi scortate in una delle mie proprietà di Roma, vi scriverò una lettera e un mio incaricato vi darà un ulteriore importo».

    Il soldato guardò i commilitoni, che strabuzzarono gli occhi, cercando di mascherare il loro entusiasmo. Ma Mecenate sapeva di averli già in pugno. Era anche troppo facile: per quanti fossero, per quante armi avessero, lui aveva una superiorità schiacciante, nei loro

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