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L'imperatore di Roma
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L'imperatore di Roma
E-book424 pagine6 ore

L'imperatore di Roma

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Dall’autore del bestseller Roma in fiamme

Roma, 68 d.C. Vespasiano ha davanti a sé una scelta difficilissima: deve sedare la rivolta in Giudea, come ha ordinato l’imperatore Nerone, o sabotare la propria campagna militare? Le conseguenze delle sue azioni potrebbero in ogni caso essere fatali. Se la campagna avrà successo, rischia di affrontare la gelosia dell’imprevedibile imperatore pazzo. Se fallisce, la punizione sarà severa. Ma un colpo di scena sconvolge i suoi piani: Nerone si suicida, catapultando l’impero nel caos. Con il trono vacante e un esercito a disposizione, Vespasiano potrebbe finalmente farsi avanti e realizzare ciò che innumerevoli profezie hanno predetto: prendere il controllo di Roma. Sarà proprio lui, alla fine, a indossare il manto color porpora?

Una serie bestseller internazionale
Tradotta in 8 Paesi
Oltre 130.000 copie vendute in Italia

«La saga di Fabbri è il massimo.»
la Repubblica

«L’opera di Fabbri è eccellente.»
The Times

«Fabbri mette in opera una potente ricostruzione degli eventi storici più drammatici.»
BBC History

«Avvincenti, sostenuti da una impressionante precisione nei dettagli. Quelli di Fabbri sono tra i migliori romanzi storici di sempre.»
New Books Magazine
Roberto Fabbri
È nato a Ginevra e vive tra Londra e Berlino. Per venticinque anni ha lavorato in produzioni televisive e cinematografiche. La passione per la storia, in particolare per quella dell’antica Roma, lo ha spinto a scrivere la serie dedicata all’imperatore Vespasiano, di cui la Newton Compton ha pubblicato Il tribuno, Il giustiziere di Roma, Il generale di Roma, Il re della guerra, Sotto il nome di Roma, Il figlio perduto di Roma, La furia di Roma. Roma in fiamme, Le tre legioni e L'imperatore di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9788822753489
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    Anteprima del libro

    L'imperatore di Roma - Roberto Fabbri

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    2806

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli avvenimenti descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Emperor of Rome

    Copyright © Robert Fabbri, 2019

    The moral right of Robert Fabbri to be identified as the author

    of this work has been asserted by him in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5348-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Corpotre, Roma

    Roberto Fabbri

    L’imperatore di Roma

    marchio.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Prologo. La via Postumia tra Cremona e Bedriacum nella regione italiana di Venetia e Histria, 15 aprile 69 d.C.

    PARTE I. Gabara, Galilea, maggio 67 d.C., due anni e sette mesi prima

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    PARTE II. Giudea, luglio 68 d.C. – luglio 69 d.C.

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    PARTE III. Egitto, autunno 69 d.C.

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    PARTE IV. Roma, agosto 70 d. C.

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    EPILOGO. Aquae Cutillae, 22 giugno 79 D.C.

    Nota dell'autore

    Ringraziamenti

    A tutti coloro che hanno trovato il tempo di leggere la serie su Vespasiano; grazie a tutti.

    Prologo. La via Postumia tra Cremona e Bedriacum nella regione italiana di Venetia e Histria, 15 aprile 69 d.C.

    Definirlo caos era un eufemismo. Il confuso spiegamento da colonne in righe era in netto contrasto con le ordinate schiere, disposte a scacchiera lungo i due lati della Via Postumia, che con il Po sul fianco destro, bloccavano la via per Cremona. Decine di migliaia di legionari e ausiliari se ne stavano in silenzio, gli elmi lustri che luccicavano debolmente ai primi raggi del sole, a osservare il nemico disporsi faticosamente in ordine di battaglia. Ma il motivo di quel caos non era né un’armata composta da una massa di barbari indisciplinati, né una carenza di generali: semmai il contrario. Era di un eccesso di generali che soffriva l’esercito, perché, in assenza dell’imperatore, Marco Salvio Otone, nessuno aveva il pieno comando. E neanche la disciplina delle truppe era il problema, perché anch’esse, come quelle nemiche, erano romane.

    E quella era una guerra civile.

    Tito Flavio Sabino osservò con una smorfia i centurioni delle cinque coorti della guardia pretoriana sotto il suo comando, che sbraitando facevano schierare nella nuova posizione quei soldati da piazza d’armi: dall’avvistamento del nemico gli ordini erano cambiati tre volte. Come si era arrivati a questo? si chiese, levando gli occhi per esaminare l’armata del Reno che aveva marciato verso sud, in previsione di un attacco su due fronti, per sostenere l’uomo che aveva proclamato imperatore, Aulo Vitellio, rinomato buongustaio e governatore della Germania inferiore. Come, in meno di un anno dal suicidio di Nerone, dichiarato nemico dello Stato dal senato, si era arrivati al punto di avere due imperatori e spargimento di sangue romano?

    Cecina Alieno e Fabio Valente, i due generali di Vitellio, avevano sorpreso le forze fedeli a Otone, imperatore a Roma, con la rapidità della loro avanzata e la discesa in Italia tanto precocemente nella stagione. Otone aveva reagito cercando di negoziare un accordo, ma era stato respinto con sdegno.

    Perciò, per Otone l’unica scelta era stata la guerra civile, a meno di non rinunciare subito suicidandosi. Ed era lì, nella valle del Po, che si sarebbe decisa la questione.

    L’omonimo padre di Sabino, Sabino il vecchio, prefetto di Roma sotto Nerone, era stato sostituito dal successore Galba, e poi reinsediato da Otone, che aveva inoltre promesso il consolato a Sabino il giovane. E dunque in quella guerra civile la famiglia si era ritrovata dalla parte di Otone.

    Ma per quanto? A giudicare dalla situazione dell’esercito, non per molto riteneva Sabino: sin da quando prima dell’alba aveva cominciato a guidare le truppe oltre il Po per unirsi al corpo principale dell’armata di Otone, intorno a lui aveva regnato il caos. «Otone avrebbe dovuto restare qui con noi invece di ritirarsi a Brixellum», commentò con il suo vice, a cavallo accanto a lui, «a quel punto, Nerva, avremmo potuto avere una struttura gerarchica chiara e non questo… questo…». Indicò la Legio Prima Adiutrix, costituita di recente con marinai della flotta di Miseno, che si stava schierando sul fianco destro dei suoi uomini e aveva una certa difficoltà a disporsi a scacchiera, la formazione a quinconce, perché le salmerie erano nella posizione sbagliata.

    Marco Cocceio Nerva, che a trentanove anni era tre anni più anziano di Sabino, sibilò a denti stretti. «Otone è stato mal consigliato durante tutta la campagna, anche se data la sua assoluta mancanza di esperienza militare, averlo qui non avrebbe fatto molta differenza. A cena è una compagnia simpatica, ma sul campo di battaglia non vale niente. Quando si parla di organizzazione è come il fratello Tiziano, anche se forse leggermente più efficiente».

    «E in quanto cognato di Tiziano, lo sai bene».

    «È perché ho commesso l’errore di sposare la sorella di Tiziano se mi ritrovo qui ad assistere a tutto questo». Nerva osservò incredulo quella baraonda. «Per gli dèi, ci avrebbero fatto comodo la fanteria e la cavalleria che Otone ha portato con sé: circa quarantamila contro i nostri trentamila: gli serviva davvero una guardia del corpo tanto grande? Ci ha fatto perdere la battaglia ancor prima di comin-ciarla».

    Sabino scosse il capo e si rivolse al tribuno angusticlavio in attesa degli ordini alle spalle dei superiori. «Il nostro bagaglio personale è stato portato nelle retrovie?».

    Il giovane annuì, cercando di mascherare la paura con un sorriso forzato. «Sì, signore, e anche i cavalli di riserva che hai chiesto».

    Sabino annuì con cupa soddisfazione, poi tornò a rivolgersi al compagno. «Abbiamo messo su uno spettacolo accettabile, perciò andiamocene il prima possibile e arrendiamoci a Valente, se tutto va bene».

    «Sembrerebbe la linea di condotta più saggia. E poi diventeremo ardenti sostenitori di Vitellio finché…». Nerva lasciò in sospeso la frase.

    «Finché cosa?».

    Nerva abbassò la voce e si avvicinò a Sabino. «Ho sentito che nel periodo in cui Galba l’ha rimosso da prefetto di Roma tuo padre ha fatto un viaggio in Giudea».

    Sabino mantenne un’espressione neutra, mentre i corni vitelliani suonavano l’avanzata. «Forse, ma non sono affari tuoi».

    Nerva non si fece scoraggiare. «È tornato subito dopo che Otone aveva assassinato Galba e il senato l’aveva dichiarato imperatore, poco prima che si sapesse che anche Vitellio era stato acclamato imperatore sul Reno».

    Sabino concentrò la propria attenzione sul fiume dove duemila gladiatori, che costituivano il resto delle sue improbabili truppe, correvano il rischio di farsi sorprendere a sbarcare dalla flottiglia che li aveva trasportati oltre il fiume.

    Nerva insistette. «Sono certo che non è stato un viaggio turistico. Tuo zio, Vespasiano, è al comando delle legioni orientali che stanno sedando la rivolta giudaica. Sono forze considerevoli. Scommetto che padre e zio hanno discusso a tu per tu dell’esito di questa crisi e ho ragione di credere che Galba, Otone e Vitellio non sono i soli imperatori che vedremo quest’anno. La questione è: chi vincerà, tuo padre o tuo zio? Ma, giusto perché lo sappia, sosterrò entrambi».

    Tito Flavio Sabino non rispose, ma si occupò di inviare il tribuno con l’ordine per i gladiatori di mantenere fermamente la posizione sulla riva del Po in modo da impedire agli ausiliari batavi, che stavano avanzando nella loro direzione, di aggirarli sul fianco. Ma aveva la mente altrove: si chiedeva come avesse avuto Nerva quelle informazioni e chi altro fosse a conoscenza della missione segreta del padre.

    Otone si riaccasciò sulla sedia e guardò la fila di volti tetri: riferendogli la disastrosa sconfitta nessuno dei generali era riuscito a guardarlo negli occhi. E disastrosa era il minimo che si potesse dire: le forze vitelliane non avevano dimostrato alcuna pietà verso i concittadini dalla diversa lealtà politica. Grazie alla convenzione sulle guerre civili, non potevano essere né venduti né riscattati e, quindi, essendo per loro senza valore, ne avevano massacrati a migliaia. «Allora è finita», disse Otone, accarezzando la punta di uno dei due pugnali appoggiati sul tavolo davanti a sé.

    «Potrebbe ancora venire in tuo aiuto il resto delle legioni della Mesia», incalzò Salvio Tiziano, fratello maggiore di Otone, vedendo la disperazione negli occhi del fratello e, di conseguenza, una probabile esecuzione nel suo stesso futuro.

    Otone scosse il capo rammaricato, il volto bello e malinconico ma tendente al pingue dopo dieci anni di sontuoso esilio come governatore della Lusitania. «Il mio primo errore è stato non aspettare il loro arrivo. Pensavo che ritardare avrebbe causato un disastro, ora vedo che era vero il contrario». Tacque un momento, riflettendo sulla sua posizione e passandosi la mano tra i folti ricci. «Dovrei esporre il vostro coraggio e il vostro valore a ulteriori rischi? Ritengo sarebbe un prezzo troppo alto per la mia vita. È stato Vitellio a iniziare questa disputa per il trono e a scatenare la guerra, ma sarò io a porvi fine: quest’unica battaglia sia sufficiente. Creerò questo precedente e che per esso mi giudichino i posteri». Otone si alzò in piedi, guardando le due lame. «Non sarò io l’uomo che permetterà che sia falciato senza ragione il fior fiore della forza marziale romana, indebolendo così il nostro impero. Perciò, signori, mi consola il fatto che eravate pronti a morire per me, ma dovete vivere. Non interferirò con le vostre possibilità di ottenere il perdono quindi non tentate a vostra volta di interferire con la mia deci-sione».

    «E l’ha fatto lì per lì?», chiese Sabino il vecchio al figlio.

    «No, padre». Sabino il giovane prese un sorso di vino caldo, vuotando la coppa. «È stato piuttosto imbarazzante: ha lodato la nostra lealtà, anche se sapeva che in cuor nostro l’avevamo abbandonato tempo fa. Poi ci ha congedato, dicendo che con la sua morte e la clemenza verso la famiglia di Vitellio si stava guadagnando la sua gratitudine, riscattando così le nostre vite».

    Sabino il vecchio brontolò, riempiendo nuovamente la coppa del figlio. «Nobilissimo, davvero. E poi l’ha fatto?»

    «No. È andato a placare gli animi dei soldati rimasti che avevano cercato di impedire ad alcuni di noi di lasciare il campo».

    «Non tu?»

    «No, padre. Io sono rimasto come mi avevi detto di fare, per poter assistere alla fine».

    «E poi?»

    «E dopo aver calmato gli uomini è tornato alla tenda, ha bevuto una coppa di acqua ghiacciata, saggiato l’affilatezza dei pugnali e poi, dopo averne scelto uno, si è ritirato a letto mettendolo sotto il cuscino. Che tu ci creda o no, ha dormito profondamente tutta la notte».

    «Questo dimostra un coraggio notevole».

    «È stato impressionante, tanto più che appena sveglio all’alba ha afferrato il pugnale e ci si è gettato sopra senza emettere un suono».

    Sabino il vecchio si accarezzò la testa quasi pelata e rifletté, la lampada a olio sul tavolo che li divideva tremolò per un leggero spiffero facendo guizzare le ombre sul volto tondo, dominato da un naso a patata. La sera era calata da tempo, ed erano seduti nello studio della casa sul colle Quirinale ereditata dallo zio, Gaio Vespasio Pollione, dopo il suicidio commesso su ordine di Nerone, tre anni prima. «E questo è accaduto all’alba di due giorni fa?»

    «Sì, padre. Per recarti la notizia sono venuto al galoppo, fermandomi solo per cambiare i cavalli».

    «Bravo il mio ragazzo. Perciò, al momento, siamo gli unici a Roma a saperlo?»

    «Credo di sì, nessuno avrebbe potuto arrivare qui più in fretta. Quando sono partito, Otone era ancora caldo».

    Sabino il vecchio congiunse le dita e se le passò sulle labbra. Con un lento cenno del capo, arrivò a una decisione. «Molto bene. All’alba di domattina riunirò le coorti pretoriane rimaste in città, le coorti urbane e anche i vigiles e farò prestare loro giuramento a Vitellio: questo obbligherà il senato a riconoscerlo come imperatore. Ritorna a nord e arrenditi ai vitelliani; di’ cosa ho fatto per assicurare loro la città. Questo per il momento dovrebbe tutelarci». Sabino strizzò l’occhio al figlio. «Soprattutto se aggiungerai che ho preso sotto la mia protezione le mogli e i figli dei fratelli di Vitellio. Questo li farà riflettere».

    «Stai facendo un gioco pericoloso, padre».

    «Non si vince con la cortesia». Di’ ai Vitellii che sarò ben felice di mandar loro i familiari se mi inoltreranno per iscritto la richiesta: capiranno cosa intendo».

    «La conferma alla carica di prefetto di Roma e…?»

    «Che tu mantenga quella di console che dovresti assumere alla fine del mese».

    «E poi cosa accadrà?».

    Sabino il vecchio si tamburellò le dita sulle labbra. «Poi? Poi si vedrà».

    «Vieni qui, ragazzo mio!». La grossa mole impediva ad Aulo Vitellio di chinarsi troppo, perciò accanto a lui sul podio era stato collocato uno sgabello. Il figlio di sei anni ci salì e fu avvolto dai numerosi strati di grasso del padre. Sollevando il bambino, Vitellio lo mostrò alle file di legionari, che costituivano la sua scorta, e alla folla di senatori ed equestri appena arrivati a Lugdunum, capitale della provincia della Gallia Narbonense, per acclamare il nuovo imperatore che procedeva in trionfo dalla Germania inferiore alla volta di Roma. «Lo chiamerò Germanico dal nome della provincia da cui ho lanciato la mia gloriosa scalata all’impero. Conferisco a Germanico il diritto di indossare le insegne imperiali e lo confermo mio unico erede dinanzi alle legioni vitto-riose».

    La dichiarazione fu accolta con entusiasmo mentre le truppe vittoriose acclamavano l’imperatore: il fatto che non avessero preso parte alla battaglia, ma che invece avessero scortato Vitellio nella sua lenta e gastronomica avanzata attraverso la Gallia venne opportunamente trascurato.

    Sabino il giovane si unì alle manifestazioni di adulazione: in quanto console a capo della delegazione senatoriale venuta a congratularsi con il nuovo imperatore, era doveroso che si mostrasse più che entusiasta mentre quell’uomo mastodontico si avvolgeva della dignità della porpora.

    «Non ci crederai», sussurrò Sabino a Nerva che gli stava accanto, «ma mio padre conobbe Vitellio da ragazzo alla villa di Tiberio a Capri. Era snello e bello e molto apprezzato da Tiberio per le doti, diciamo, orali, e non intendo oratoriali».

    Nerva guardò Sabino, incredulo, continuando ad applaudire. «Non mi dire».

    «È vero e offrì persino a mio padre una dimostrazione della sua arte. Non ci crederesti guardandolo ora, immagino abbia appreso le gioie dell’edonismo inginocchiato ai piedi di Tiberio, per così dire».

    «Non solo edonismo», disse Nerva, indicando la cinquantina di prigionieri con indosso solo una tunica sciolta, come quelle femminili, che si dirigevano al patibolo con la testa alta, che ben presto avrebbero perso. «Questo non era necessario: dare l’esempio con i centurioni che più strenuamente hanno sostenuto Otone».

    Con espressione solenne, Sabino mascherò la propria soddisfazione per il fatto che Vitellio stesse agendo secondo le previsioni. «Non piacerà alle legioni della Mesia».

    Nerva concordò. «Ho fatto parte della delegazione di ex ufficiali otoniani inviati per convincerle a rientrare alla base e giurare fedeltà a Vitellio. L’hanno fatto di malavoglia e solo perché non vedevano alternative».

    L’alternativa la vedranno presto, pensò Sabino mentre la prima testa cadeva in terra tra fiotti di sangue, e quando si spargerà la notizia di quello che è successo qui, le legioni della Mesia vorranno vendicarsi.

    Mentre le teste rotolavano una dopo l’altra nella terra trasformata dal sangue in fanghiglia, il silenzio delle truppe di Vitellio era quasi tangibile al punto da penetrare persino la dura scorza dell’imperatore, col volto acceso da una gioia crudele. Quando l’ultimo corpo si accasciò, Vitellio distolse gli occhi dai cadaveri e si guardò intorno e a poco a poco percepì l’atmosfera pesante e il nervosismo. Si schiarì la gola: «Portate i gene-rali!».

    «Spero che decida di risparmiarli dopo questo bagno di sangue», sussurrò Sabino, augurandosi in cuor suo l’esatto opposto. «Per oggi abbiamo avuto vendetta a sufficienza». E, a dire il vero, mentre osservava i due generali otoniani, Svetonio Paolino e Licinio Proculo, insieme a Salvio Tiziano, fratello del defunto imperatore, costretti a inginocchiarsi davanti a Vitellio, Sabino provò un gran sollievo a non trovarsi nella medesima posizione. Era stata l’astuta offerta del padre di prendere sotto la sua protezione la famiglia di Vitellio che gli aveva assicurato il perdono e il consolato. Poi, da Vitellio in persona, gli era stato conferito il dubbio onore di rientrare a Roma per scortare suo figlio a nord e consegnarlo all’imperiale genitore: un incarico che aveva eseguito con grandi cerimonie, quasi fosse l’apice della propria carriera.

    «Cosa avete da dire in vostra difesa?», chiese Vitellio, e mentre fremeva di indignazione alla vista degli uomini che gli si erano opposti, gli tremolarono gli strati di grasso sotto le vesti.

    «Dovresti ricompensarci, non accusarci, princeps», disse Paolino, con voce ferma e forte che risuonò sull’adunanza, «perché è a noi, non a Valente e Cecina, che devi la vittoria».

    Vitellio fissò confuso i prigionieri, aprendo e chiudendo la bocca nel tentativo di comprendere quelle parole.

    «Siamo stati noi», insistette Proculo, «a creare le circostanze che hanno reso impossibile una vittoria di Otone».

    «E come?», chiese Vitellio, riacquistando la compostezza e il controllo della bocca.

    «Convincendo Otone ad attaccare immediatamente, prima che arrivasse il grosso delle legioni della Mesia».

    Paolino annuì con decisione. «Sì, e poi obbligando le nostre truppe a una lunga marcia per arrivare allo scontro il prima possibile, quando non c’era alcun bisogno di affrettarsi».

    «Quando siamo arrivati, gli uomini erano esausti», intervenne per confermare Proculo. «E per creare il caos nello spiegamento da colonne in righe abbiamo dato contrordini ai comandanti per revocarli subito dopo». Essendone stato testimone, Sabino gli credette. «E poi, perché mai avremmo collocato i carri in mezzo alle nostre linee se non per rendere ancor più difficoltoso l’ordine di battaglia?».

    Vitellio studiò i due generali e Tiziano, che era rimasto in silenzio. «Mi state dicendo che avete sabotato la battaglia? E tu, Tiziano? Avresti tradito il tuo stesso fratello?».

    Tiziano lo guardò con occhi stanchi. «No, princeps, non ne ho avuto bisogno. A causa della mia innata incapacità, qualunque ordine avessi ricevuto sarei stato più di intralcio che di aiuto».

    Vitellio annuì. «Lo credo. Avevo comunque intenzione di risparmiarti, perché non ti si può biasimare per aver sostenuto un tuo fratello, e la tua inettitudine è leggendaria. Commisero l’uomo che dovesse chiederti aiuto».

    «Anch’io, princeps. Grazie».

    Vitellio rivolse nuovamente l’attenzione agli altri due generali sconfitti. «Quanto a voi…».

    «Se vuoi una prova tangibile, princeps», intervenne Paolino, «chiediti perché avrei disposto le truppe peggiori, una banda di gladiatori, a contrastare i tuoi batavi sul nostro estremo fianco sinistro condannando così la linea». Sabino guardò stupefatto Paolino per quell’affermazione chiaramente falsa, perché era stata invece opera sua. «Chiedi a Tito Flavio Sabino, che era al coman-do dell’ala sinistra, se non gli ho dato lo specifico ordine di disporsi in questo modo dopo che ha attraversato il fiume per unirsi a noi».

    Vitellio rivolse lo sguardo a Sabino, mentre Paolino lo fissava sperando che confermasse. «Ebbene, console? È andata così?».

    Stabilendo che Paolino e Proculo fossero più utili in vita e suoi debitori che morti senza dovergli niente, Sabino annuì. «Sì, princeps, è andata così. Sul momento ho pensato fosse strano ma ha insistito e ora ne capisco il perché. Il suo cuore era con te, come lo era il mio, perché non l’ho contestato».

    Vitellio brontolò, rimuginando. «Molto bene, Paolino e Proculo. Credo alla vostra professione di tradimento e vi libero da ogni sospetto di lealtà. Mi accompagnerete sul campo di battaglia per mostrarmi come ha avuto luogo il vostro voltafaccia.

    La putrefazione regnava sul campo e il fetore appestava l’aria. Nei quaranta giorni successivi alla battaglia nulla era stato fatto per i morti: otoniani e vitelliani si decomponevano insieme in mucchi di corpi straziati. Gli animali necrofagi si erano rimpinzati, dilaniando in egual misura i cadaveri di uomini e bestie, ma ora la carne rimasta era buona solo per le larve che s’ingrassavano contorcendosi a milioni sui corpi per poi tramutarsi in sciami di mosche di cui era impossibile ignorare il perenne ronzio.

    Sabino celò la propria rabbia alla vista di tutti quei concittadini di cui nessuno si era preso cura, condannati a vagare per vie oscure che non conducevano al Traghettatore. Vedendo un mucchio di corpi, poco più che scheletri, contro la parete di una capanna dove erano stati accerchiati e massacrati, giurò a sé stesso che se la sua famiglia un giorno si fosse trovata nella posizione per farlo, si sarebbe vendicata di Cremona, i cui abitanti si erano allineati lungo la strada per acclamare Vitellio. Sicuramente avevano spogliato i morti di tutti gli oggetti di valore, e infatti non si vedeva neanche un elmo, ma erano stati negligenti nel prendersi cura dei corpi che avevano derubato.

    Mentre Valente e Cecina lo guidavano per il campo in compagnia di Paolino e Proculo, quasi fosse la visita a un giardino appena allestito, Vitellio non distolse mai gli occhi dai mucchi di cadaveri.

    «È stato qui, princeps, che la Prima Italica ha recuperato l’Aquila che la Prima Adiutrix era riuscita a catturare ansiosa di dimostrare il proprio valore nella sua prima battaglia», comunicò Valente all’imperatore avvicinandosi al settore del campo che era stato controllato da Sabino.

    Vitellio esaminò i corpi contorti degli ex marinai che erano stati costituiti in legione da Galba e avevano combattuto ed erano morti per Otone. Annusò l’aria con ostentazione. «Se c’è una cosa che ha un puzzo migliore di un nemico morto è un concittadino morto».

    Questo commento rozzo fu accolto da risate tese e servili, ma neppure Valente e Cecina, i più ardenti sostenitori di Vitellio, poterono mascherare del tutto il proprio disagio. Notando gli sguardi che si scambiavano, Sabino intuì il loro orrore nello scoprire che Vitellio non aveva alcun riguardo per quei coraggiosi concittadini che avevano catturato un’Aquila per perderla poco dopo in un contrattacco. Vitellio aveva perso ogni rispetto.

    Era il momento che il padre gli aveva ordinato di aspettare. «Princeps», disse, staccandosi dalla folla che seguiva l’imperatore.

    Vitellio si voltò, ancora ridacchiando per la battuta di cattivo gusto. «Sì, console?»

    «Ora che abbiamo perlustrato la scena del tuo trionfo, penso sia giunta l’ora che io torni a Roma per preparare la città ad accoglierti». «Sì, sì, è giusto, mio caro Sabino, e non vedo l’ora di incontrare tuo padre per ringraziarlo per avermi assicurato la città. Siamo amici di lunga data, sai. Ma prima non vuoi mostrarmi la sezione del campo dove i tuoi uomini hanno perso la battaglia per Otone?»

    «Penso sia giusto che Paolino e Proculo abbiano l’onore di mostrarti i gladiatori morti: non traggo piacere dall’appropriarmi dei meriti altrui». Lanciò un’occhiata ai generali vinti e, dalla loro espressione, capì che erano pienamente consapevoli di essergli debitori. Congedato da Vitellio per rientrare a Roma, Sabino sapeva di aver guadagnato due importanti reclute alla causa della sua famiglia.

    Fu con il medesimo entusiasmo con cui aveva acclamato i due imperatori precedenti che il popolo di Roma accolse Vitellio, come se fosse la risposta alle sue preghiere, l’imperatore che aveva sempre desiderato. File profonde dieci, dodici persone, che sventolavano i colori delle proprie fazioni circensi, si assiepavano lungo le strade al passaggio di Vitellio che, con indosso l’uniforme da generale così poco consona alla sua mole tutt’altro che marziale e a cavallo di una bestia affaticata, guidava le legioni verso il Campo Marzio due giorni dopo le Idi di luglio e due mesi dopo che il giovane Sabino si era da lui congedato.

    «Non condurrà le truppe fin dentro la città, vero, padre?», chiese Sabino il giovane in piedi, insieme al senato, fuori del teatro di Pompeo in attesa di accogliere il vittorioso imperatore con il sacrificio di due tori bianchi.

    «Perché no? Galba l’ha fatto e le ha acquartierate qui».

    «Ma hanno scatenato il putiferio: risse, stupri, omicidi, pensavano di potersi permettere tutto e farla franca».

    «Vero, ma non dimenticare che Vitellio non era qui a vederlo: Galba l’aveva mandato a governare la Germania inferiore quindi non sa che fardello siano per la cittadinanza le truppe acquartierate. E anche se lo sapesse, dubito che se ne curerebbe al punto di cambiare programma». Sabino il vecchio assunse un’espressione particolarmente grave. «È un peccato, davvero».

    Il figlio capì. «E sono certo che in quanto prefetto di Roma non farai niente per avvertirlo del rischio di turbare i cittadini permettendo che le loro figlie subiscano stupri di gruppo da parte di legionari indisciplinati».

    «Non è affar mio dire all’imperatore ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare».

    Sabino il giovane trattenne un sorriso. Mentre con tutto il senato cominciava ad applaudire Vitellio alla testa della colonna di soldati che avrebbero causato sofferenze ai suoi sudditi, rifletté sul gioco pericoloso che insieme al padre sarebbe stato costretto a fare nei mesi seguenti: vivere in città con un imperatore che avrebbero cercato di destabilizzare.

    Mentre quel pensiero gli attraversava la mente, attrasse il suo sguardo un uomo che si dirigeva verso di lui facendosi largo tra i senatori. Lo conosceva bene perché si trattava del liberto di suo zio Vespasiano, Ormo. Gli fece segno di attenderlo dove si trovava fino alla conclusione della cerimonia. Con un cenno del capo, Ormo si ritrasse in un portone.

    «Ebbene, Ormo», fece Sabino il vecchio salutando il liberto dopo che si erano conclusi i sacrifici e le preghiere.

    Ormo strinse loro gli avambracci. «È accaduto, padroni: Giulio Alessandro, prefetto d’Egitto, alle calende di questo mese ha fatto proclamare Vespasiano imperatore dalle sue due legioni. Appena l’hanno saputo, le legioni di Vespasiano hanno fatto lo stesso a Cesarea due giorni dopo. Il mio padrone mi ha mandato qui immediatamente per recarvi la notizia e chiedervi di preparare la città all’arrivo del suo esercito. Muciano, governatore della Siria, e Ceriale, genero di Vespasiano, sono in marcia via terra verso l’Italia, sperando che durante il tragitto a loro si uniscano le scontente legioni della Mesia».

    «Muciano e Ceriale!», esclamò il vecchio Sabino. «Perché loro? Perché non è Vespasiano a capo dell’esercito?»

    «Ha intenzione di prendere Roma senza una guerra, solo minacciandone una insieme a un’ancor più grande minaccia. È andato in Egitto per assumere il controllo delle riserve di grano lì e anche, se può, in Africa. Minaccerà di prendere per fame Vitellio: solo se questo rifiuterà di andarsene ricorrerà a una guerra».

    Sabino guardò il figlio. «Speriamo che il mio equo trattamento della famiglia di Vitellio ci renda un buon servizio: ho l’impressione che resteremo in ostaggio per un po’».

    «Non sarebbe meglio andare a raggiungere Vespasiano?»

    «Gli sono più utile qui».

    «Cosa intendi fare?»

    «Al momento opportuno, prenderò Roma e la terrò fino all’arrivo del suo esercito».

    «Cosa significa: il popolo non gli consente di abdicare?». Sabino il vecchio batté i palmi delle mani sullo scrittoio.

    Sabino il giovane gesticolò impotente. «Quello che ho detto: il console più anziano si è rifiutato di accettare il coltello che gli offriva come segno della cessione del potere; poi la folla gli ha impedito di andare al Tempio della Concordia per depositare le insegne trionfali e invece l’ha obbligato a tornare al Palatino dov’è tuttora. In teoria è ancora l’imperatore, anche se preferirebbe accettare quella villa privata in Campania e la garanzia di un ritiro pacifico che gli hai offerto a nome di Vespasiano».

    Le mani sbatterono nuovamente sul tavolo. «Quel ghiottone obeso e rammollito! Per le tette rinsecchite di Medusa, si è fatto mettere sotto pressione da una marmaglia che non sa niente di politica né quello che è meglio per lei. Lo so che ieri sono iniziati i Saturnali, ma che gli dèi ci salvino dal povero che fa il re per un giorno».

    «Non è solo la popolazione, sono anche gli amici e quello che resta della guardia pretoriana. Sostengono che quello che hai offerto a Vitellio nel Tempio di Apollo sia un inganno. Pensano che tu e Vespasiano non manterrete la parola. Non capiscono come possiate lasciare in vita Vitellio e il figlio e, sinceramente, non li biasimo».

    «Poco più di un mese fa, il suo esercito è stato sconfitto e tre giorni or sono si sono arresi gli ultimi rimasti e Valente è stato giustiziato! Ho più truppe io con le tre coorti urbane sotto il mio comando che lui, senza contare i vigiles. Che male potrebbe mai fare?»

    «Può calamitare il dissenso», disse la terza persona nella stanza, allontanandosi dalla cassa dei rotoli a cui stava appoggiato. «Hanno ragione a non fidarsi di quest’offerta; appena mi sarà possibile lo farò uccidere insieme al marmocchio».

    «Non sarai tu l’imperatore, Domiziano», esclamò Sabino il vecchio.

    «Non di nome, ma come figlio dell’imperatore, e con mio padre in Egitto e mio fratello in Giudea, ritengo di avere un bel po’ di autorità».

    «Hai diciotto anni! E hai l’autorità di una marchetta con un cazzo davanti e uno dietro. Ora sta’ zitto e ascolta, magari impari qualcosa». Sabino si rivolse nuovamente al figlio. «E i Germani?».

    Sabino il giovane fece una smorfia. «È un bel problema, padre: anche la guardia germanica del corpo imperiale resta fedele a Vitellio».

    «Sono solo cinquecento uomini. Manderò un altro messaggio a Vitellio per dirgli che se non accetta l’offerta è davvero un uomo morto e perirà dopo aver visto sgozzare il figlio. Che corra pure il rischio, se vuole, ma sarebbe uno sciocco, a prescindere da cosa Domiziano…». Lo interruppe un colpo alla porta. «Avanti!».

    Ormo infilò la testa. «C’è una delegazione che vuole vederti, aspetta in strada».

    «Di’ di entrare e di attendere nell’atrio!».

    Ormo sussultò all’inaspettata aggressività della risposta. «Sì, padrone, ma non entreranno tutti».

    «E cosa dovrei fare, Nerva?», chiese Sabino al capo della delegazione osservando l’ampiezza della folla che lo attendeva fuori: cento e più senatori, tre volte tanto equites e il fior fiore delle coorti urbane e dei vigiles, tutti che chiedevano a gran voce a Sabino di guidarli. «Guidarvi dove?»

    «Sul Palatino. Dobbiamo costringere Vitellio ad andarsene».

    «Ha ragione», convenne Sabino il giovane, «più aspettiamo più la città si divide e più morti ci saranno. A luglio, dicesti che quando sarebbe arrivato il momento opportuno avresti preso la città per Vespasiano. Ebbene, ora è dicembre e quel momento è arrivato». Indicò le truppe armate delle coorti urbane e i vigiles armati di bastoni della guardia notturna di Roma. «E questo è il tuo esercito».

    «Non voglio essere io a scatenare la violenza a Roma, così potrebbero dire che Vespasiano è salito al potere dopo un bagno di sangue».

    Domiziano batté un piede in terra. «Non importa quello che dice la gente; è importante che mio padre diventi imperatore. Vitellio deve morire insieme a tutti quelli che ostacolano quest’obiettivo».

    «Frena la lingua, marmocchio!», fece Sabino il vecchio senza neanche guardare il nipote. «Vitellio non morirà se se ne andrà pacificamente». Lo sguardo gli si indurì risoluto. «Bene! Andiamo, ma nessuno faccia ricorso alla violenza a meno di non essere provocato, intesi?».

    Ad aprire le ostilità fu un giavellotto, che sbattendo sulla testa del centurione della coorte urbana in marcia davanti al vecchio Sabino andò a conficcarsi nella spalla del vessillifero accanto. Per via dell’impatto, l’uomo vacillò e cadde trascinando con sé lo stendardo.

    Mentre si avvicinavano al vicus laci fundani ai piedi del Quirinale, arrivò la raffica: in un’imboscata ben congegnata, su entrambi i lati della strada piovvero decine e decine di giavellotti dai tetti e dalle finestre degli ultimi piani. Sabino il giovane guardò in alto ma su tetti e finestre riuscì a vedere solo civili, nessuna uniforme, che al posto dei giavellotti cominciarono a lanciare tegole e mattoni. Tutt’intorno, la piccola armata del padre si disperse per nascondersi e quelli che non avevano lo scudo cercarono un possibile riparo presso le truppe della coorte urbana mentre i proiettili improvvisati continuavano a causare morti e

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