Il Brigantaggio Postunitario sul Massiccio del Saro: La Banda di Crescenzo Gravina
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Anteprima del libro
Il Brigantaggio Postunitario sul Massiccio del Saro - Orazio Ferrara
Il Brigantaggio Postunitario sul Massiccio del Saro.
La Banda di Crescenzo Gravina
di Orazio Ferrara
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
ISBN 978-88-33467-10-8
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©
Saggistica – Briganti
www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com
È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
Orazio Ferrara
Il Brigantaggio Postunitario sul Massiccio del Saro
La Banda di Crescenzo Gravina
AliRibelli
Sommario
‘nfame, ‘a l’infierno arriccuordat’ ‘e Lione
Legittimista o brigante?
Il Massiccio del Saro un nido di briganti
Capobanda
La liberazione di Siano e dintorni
Continua la guerriglia
La battaglia di Piano Maggiore
La battaglia di Torre Savaia
Si riprende la lotta
Come si uccide un povero cafone
Una primula nera inafferrabile
L’anno della Legge Pica
Il caso Matteo Ferrara o di una vendetta sanguinaria
Verso la fine
Morte del capobanda Giuseppe Iovino detto Curcio
Dove finisce la storia e inizia la leggenda
Appendice 1
Appendice 2
‘nfame, ‘a l’infierno arriccuordat’ ‘e Lione
Appena dopo l’Unità d’Italia una delle bande di briganti legittimisti, che operarono massimamente nel Tenimento di Sarno per il ritorno dei Borbone, fu quella di Crescenzo Gravina. Quest’ultimo, un guerrigliero nato, tatticamente usava combattere per linee interne, sfruttando al meglio il vasto e impervio sistema montuoso alle spalle della città di Sarno e quindi, muovendosi a raggiera appunto per linee interne sul Massiccio del Saro, attaccava con audaci colpi di mano, a volte finalizzati a sequestri di facoltose persone e conseguenti danarosi riscatti, le zone di Nola, Palma, Carbonara, Sarno, Siano, Bracigliano e dell’Avellinese.
Proprio per questo suo modus operandi [non allontanarsi mai dall’aspro massiccio montuoso posto tra Avellino, Nola e Sarno] non fu mai catturato e gli permise di occupare temporaneamente, in nome di Francesco II, le cittadine di Siano, Castel San Giorgio e Bracigliano e controllare di fatto, per un lungo periodo, Carbonara di Palma [ora di Nola] e la frazione Episcopio di Sarno, usandole come sicura retrovia per i rifornimenti e le necessarie e vitali informazioni sui movimenti dell’avversario. Per Episcopio la cosa era resa possibile dalla stretta alleanza con il capobanda legittimista sarnese Lazzaro Cioffi detto Orazio, ex soldato dell’esercito borbonico, che con la sua piccola banda era il vero e incontrastato dominus di Episcopio.
Crescenzo Gravina si dichiarò sempre un fervente legittimista e tale si comportò nella maggioranza delle sue azioni, ma i suoi scoppi d’ira irrefrenabile, quando credeva e si convinceva di essere in presenza di un tradimento, lo portavano ad estremi ed efferati gesti sanguinari, che diedero buon gioco ai suoi nemici, che lo dissero quindi più brigante che legittimista. In primis lo scrittore francese Alexandre Dumas che, sul controverso caso di Matteo Ferrara, lo descrisse all’opinione pubblica italiana e francese come un mostro sanguinario. E così lo consegnò alla storia. Eppure, ad un’attenta disamina dei fatti e dei documenti, non tutto è ancora chiaro in quella triste e drammatica vicenda.
D’altronde lo stesso capobanda sarnese Orazio Cioffi si era comportato ferocemente nei confronti di un suo compariello, che si era macchiato dell’infamia del tradimento. Questo compariello, in località ‘a Fontana ‘a fica di Episcopio, fu giudicato colpevole davanti a tutta la banda, quindi decapitato e squartato. La guerra per bande dei briganti legittimisti aveva infatti il proprio tallone d’Achille nel tradimento e nella delazione e quasi tutti i capi, altrimenti imprendibili, caddero a causa di ciò. Da qui nessuna pietà per chi tradiva e la morte, spesso tra atroci tormenti, del colpevole doveva servire a monito ed esempio per tutti. Non a caso che sia Crescenzo Gravina che Orazio Cioffi, i quali si attennero sempre alla ferrea e sanguinaria regola di punire implacabilmente i traditori, non furono mai catturati. Altro particolare significativo, sia del Gravina che del Cioffi non esistono foto, mentre abbondano per gli altri capibanda.
«Età circa 40 anni, statura alta e snella, capelli neri, barba folta, colore bronzino», così la sintetica descrizione fisica della figura del Gravina in una lettera del febbraio 1863 a firma del sindaco di Sarno, don Gaetano Abignente, e indirizzata al prefetto di Salerno. Ma chi era effettivamente l’abile capobanda di Carbonara, dominatore incontrastato delle montagne di Sarno?
Già il nome datogli dalla storiografia ufficiale di Crescenzo Gravina [per alcuni poi solamente Criscienzo o Crescienzo] non è esatto, infatti dall’atto di nascita originale¹ si legge chiaramente Crescenzo di Gavina. In alcune carte di polizia è riportato anche «Crescenzo Gravina detto Crescenziello». D’altronde anche il cognome di un altro famoso capobanda, Cipriano La Gala, è stato storpiato dagli storici, essendo il vero cognome Della Gala. Questi particolari la dicono lunga sulla serietà degli studi e le fonti utilizzate da certa paludata [e menzognera] storiografia risorgimentale. Le loro pagine puzzano lontano un miglio di artefatte relazioni ad usum delphini, manipolate negli oscuri recessi delle prefetture del tempo.
Naturalmente noi continueremo ad usare quello di Crescenzo Gravina, ormai consolidato in tanti libri e documenti. Ma continuiamo a leggere l’atto di nascita: l’anno 1824, addì 25 del mese di ottobre, davanti al sindaco di Carbonara, in distretto di Nola, era comparsa la levatrice Rachela Gragnaniello, che presentava un projetto, dicendolo nato da Irene Casalino di Nicola di anni 27 e da «incerto padre»; testimoni il possidente Giuseppe Santorelli e il pastore Carlo Rainone di anni 26 [che poi non era altro che lo zio del nascituro].
Irene Casalino avrà in tutto 6 figli, tutti di «incerto padre». Tra questi la volitiva Giuseppa Paradiso, sorella uterina di Crescenzo di Gavina, che in abiti maschili, quale brigantessa, farà parte della banda del fratello, partecipando alle imprese più rischiose. Il cognome Paradiso per Giuseppa confermerebbe in pieno la ricorrente voce popolare che Irene Casalino sia stata l’amante del possidente don Francesco Paradiso sempre da Carbonara e che diversi suoi figli, tra cui Crescenzo, siano da ascrivere a tale paternità.
L’infanzia di Crescenzo, come tutti i projetti, fu oltremodo difficile. Il primo mestiere imparato era stato quello faticosissimo di boscaiolo ovvero di segatore di legname di castagno nei boschi circostanti Carbonara, poi successivamente diventò provetto nel mestiere di falegname. Era bravo soprattutto nel costruire torchi per la spremitura delle olive e delle vinacce. Però, benché mostrasse all’epoca un carattere apparentemente mansueto e una notevole laboriosità, i suoi occhi lasciavano trasparire un certo non so che di misterioso e di nascosta ribellione. Si racconta che egli sia stato sempre devoto, anche negli anni più disperati e bui del suo brigantaggio, alla Vergine dei Sette Dolori venerata in Carbonara. Questa devozione particolare ad una Mater Dolorosa si riscontra anche in altri capibanda, per tutti citiamo il famoso Antonio Cozzolino alias Pilone, che portava sempre con sé in combattimento un foglietto con su scritto «Io sono figlio alla Madonna Addolorata».
La vita del giovane Crescenzo Gravina cambiò improvvisamente allorquando conobbe e strinse amicizia con tale Liberatore Mascia, anch’egli di Carbonara, che viveva di espedienti e ai margini della legge. Successivamente il Mascia, nell’anno 1850, sposò Irene Casalino e divenne suo patrigno. Fu quest’ultimo a fargli conoscere i fratelli Giona e Cipriano La Gala originari di Nola, che già conducevano vita disperata al di fuori della legge. La conclusione di questo disordinato e spericolato periodo di vita fu per Crescenzo la condanna a venti anni di ferri², da scontare nel duro bagno penale di Castellammare di Stabia.
Nei tumultuosi giorni dell’agosto 1860, quando tutta la Sicilia era ormai nelle mani di Garibaldi, vi fu un’evasione in massa dal bagno penale di Castellammare, grazie soprattutto alla complicità dei liberali che intendevano minare dall’interno il già vacillante regno dei Borbone. Era il 4 agosto e ben 399 galeotti ritrovarono improvvisamente la libertà, alcuni andarono ad arruolarsi tra le fila dei garibaldini, altri tornarono semplicemente ai paesi natii, altri ancora andarono [una vera e proprio nemesi per i liberali] ad ingrossare le allora costituenti bande in favore di re Francesco II. Tra quest’ultimi vi fu Crescenzo Gravina, che si unì alla banda dei fratelli La Gala, diventando in breve il più fidato e audace luogotenente di Cipriano.
Uno dei primi fatti di sangue, che vide protagonista in prima persona il Gravina, fu alquanto singolare. Egli aveva un cane³, cui era affezionatissimo, che era dotato di un coraggio eccezionale e per questo gli aveva affibbiato il nome di Lione. La Guardia Nazionale di Carbonara per estremo sfregio nei suoi riguardi, non potendo mettere le mani su di lui, aveva deciso di prendersela con la povera bestiola. Un’imbeccata aveva avvertito della cosa il Gravina, che affidò alla fidata sorella Giuseppa Paradiso l’incarico di nascondere al sicuro il cane nei boschi di Carbonara. Ma il pecoraio Carlo Rainone, zio di Crescenzo, lo stesso che era stato testimone al suo atto di nascita, conosceva il nascondiglio e lo rivelò ai militi. E così il povero Lione fu trovato e scannato senza alcuna pietà.
Non passò molto tempo che un bel giorno Crescenzo Gravina si presentò improvvisamente al cospetto di Carlo Rainone, che pascolava il suo gregge nei boschi di Carbonara. Il volto severo del brigante non lasciava adito a dubbi di sorta e per il pastore non vi fu scampo ed inutili furono le sue accorate suppliche di concedergli grazia. Il Rainone fu colpito da una fucilata e, secondo alcuni, finito poi a coltellate. Questa di finire le sue vittime all’arma bianca fu sempre la tecnica preferita del capobanda che, dotato di un coraggio non comune, cercava sempre di scontrarsi fisicamente a corpo a corpo con l’avversario. Alcuni racconti popolari narrano che il Gravina, infierendo con il coltello su Carlo Rainone, abbia gridato: «‘nfame, ‘a l’infierno arriccuordat’ ‘e Lione» [infame, all’inferno ricordati di Lione].
Che la vendetta di Crescenzo Gravina non si facesse mai attendere troppo, lo testimonia anche la vicenda dei tre guardaboschi di Palma Campania, che andavano vantandosi con la gente del posto che il Gravina non avrebbe mai osato mettere piede nelle zone boscose della loro guardiania. E così un giorno furono trovati tutti e tre belli e morti, uccisi per mano dell’implacabile Gravina.
Già dalla seconda metà del 1861, Crescenzo Gravina aveva cominciato a formare una sua propria banda che operava, in collegamento sia con quella dei La Gala sia con quella di Orazio Cioffi, dalle montagne soprastanti la frazione Episcopio di Sarno e Carbonara di Palma. Da precisare che la zona d’influenza della banda dei La Gala gravitava sul Nolano, spingendosi fino al Casertano. Mentre nella Valle del Sarno, da Foce alle falde del Vesuvio, imperversavano i legittimisti di Antonio Cozzolino, meglio conosciuto come ‘o Pilone.
In quei giorni le fiamme della rivolta antisabauda stavano divampando sempre più alte nel Napoletano e, soltanto l’insipienza e la congenita incapacità tattico-strategica dei clandestini Comitati Borbonici, fecero sì che quelle fiamme ardessero senza conseguire risultato alcuno e non travolgessero quella Malaunità messa in piedi cialtronescamente e fortunosamente dai Piemontesi.
¹ n° 19 del Registro dello Stato Civile di Carbonara per l’anno 1824.
² sentenza della Gran Corte Speciale di Santa Maria Capua Vetere del 14 aprile 1855.
³ un mastino napoletano.
Legittimista o brigante?
È sempre difficile per personaggi quali Crescenzo Gravina, Cipriano La Gala, Giuseppe Nicola Summa detto Ninco Nanco e tanti altri, condannati da certa imbalsamata storiografia risorgimentale inappellabilmente alla damnatio memoriae, ristabilire la verità storica. Per soprammercato ci si sono messi di mezzo poi dozzinali romanzieri ottocenteschi, che hanno dipinti quei personaggi come vituperio delle genti, degli orripilanti mostri umani, che suscitavano soltanto orrore e ribrezzo. E la gente comune che amava leggere più i feuilleton e gli scartafacci [nel senso di informe e crudo, ma anche di pessimo italiano], si convinse facilmente di ciò. E tutto questo, come incontrovertibile verità storica una volta per