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Il trono di Cesare. La saga completa
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E-book1.395 pagine18 ore

Il trono di Cesare. La saga completa

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Info su questo ebook

Combatti per il potere • Il prezzo del potere • Il fuoco e la spada

Oltre 60.000 copie
3 romanzi in 1

Dall’autore della serie bestseller Il guerriero di Roma, una nuova saga ambientata nell’affascinante mondo di Roma, fra intrighi, assassini, sanguinose guerre e sconvolgenti passioni.
Magonza, 235 d.C. In un attacco a sorpresa l’imperatore Alessandro Severo viene brutalmente assassinato. È la fine della dinastia dei Severi e per Roma è l’inizio di un’era di instabilità, ribellioni, guerre civili: al trono sale Massimino il Trace, il primo imperatore proveniente da una famiglia povera. A nord intanto imperversa la guerra contro i barbari, che consuma uomini e ricchezze. Massimino sceglierà di usare il pugno duro contro i ribelli, scatenando una spirale d’odio che lo porterà sull’orlo della follia… Nei tre romanzi di Harry Sidebottom rivive l’ascesa sanguinaria di Massimino il Trace, gli scontri con i Gordiani, fino all’epico assedio di Aquileia. Una storia, quella dell’impero romano, fatta di ambizioni violente, polvere e sangue. 

Bestseller in tutto il mondo

Omicidi, intrighi e passioni
Chi conquisterà il trono di Roma?

«La prosa di Sidebottom risplende di luminosa sapienza.»
The Times

«Tiene il lettore costantemente col fiato sospeso.»
The Guardian

«Meravigliose scene di battaglie, abili tocchi letterari e dialoghi efficaci.»
Daily Telegraph

«Harry Sidebottom ci regala un resoconto avvincente, misurato e ben costruito… che lascia il lettore in attesa del prossimo volume della serie.»
Times Literary Supplement
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato anche i primi episodi della nuova, avvincente saga Il trono di Cesare. L’ultimo giorno dell’Impero è il suo nuovo romanzo, già diventato bestseller del «Sunday Times».
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2018
ISBN9788822720399
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    Anteprima del libro

    Il trono di Cesare. La saga completa - Harry Sidebottom

    en

    1883

    Anche se alcuni eventi e personaggi sono basati su fatti e figure storiche, questo romanzo è interamente unʼopera di fantasia.

    Titolo originale di Il trono di Cesare. Il prezzo del potere: Throne of the Caesars: Iron & Rust

    Traduzione dall’inglese di Rosa Prencipe

    Titolo originale di Il trono di Cesare. Il prezzo del potere: Throne of the Caesars: Blood Steel

    Traduzione dall’inglese di Rosa Prencipe

    Titolo originale di Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada: Throne of the Caesars: Fire & Sword

    Traduzione dall’inglese di Lucilla Rodinò

    Copyright © Harry Sidebottom 2018

    Harry Sidebottom asserts the moral right to be identified as the author of this work

    Maps © John Gilkes 2018

    All rights reserved

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2039-9

    www.newtoncompton.com

    Indice

    Copertina

    Collana

    Colophon

    Il trono di Cesare. Combatti per il potere

    Dedica

    Personaggi principali

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    Postfazione storica

    Ringraziamenti

    Glossario

    Elenco dei personaggi

    Il trono di Cesare. Il prezzo del potere

    Dedica

    Esergo

    Mappe

    Personaggi principali

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 41

    CAPITOLO 42

    CAPITOLO 43

    CAPITOLO 44

    CAPITOLO 45

    CAPITOLO 46

    CAPITOLO 47

    Cenni storici

    Ringraziamenti

    Glossario

    Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada

    PERSONAGGI PRINCIPALI

    PROLOGO. AFRICA

    PARTE PRIMA. ITALIA

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    PARTE SECONDA. ITALIA

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    PARTE TERZA. LE PROVINCE

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    PARTE QUARTA. ITALIA

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    PARTE QUINTA.ROMA

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    PARTE SESTA. LE PROVINCE

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    PARTE SETTIMA. RAVENNA E AQUILEIA

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    PARTE OTTAVA. AQUILEIA E ROMA

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    PARTE NONA. LE PROVINCE

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    PARTE DECIMA. ROMA

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 41

    CAPITOLO 42

    CAPITOLO 43

    EPILOGO

    CENNI STORICI

    RINGRAZIAMENTI

    GLOSSARIO

    ELENCO DEI PERSONAGGI

    Harry Sidebottom

    Il trono di Cesare

    Combatti per il potere

    omino

    Newton Compton editori

    A Ewen Bowie, Miriam Griffin e Robin Lane Fox

    La nostra storia è ormai decaduta

    da un regno d’oro a uno di ferro e ruggine.

    Cassio Dione, LXXII.36.4

    Non c’era mai stata una simile successione

    di terremoti e pestilenze, tiranni e re dalle carriere

    stupefacenti, di cui si abbia memoria.

    Erodiano, I.I.4

    abcde

    PERSONAGGI PRINCIPALI*

    [* L’elenco completo compare alla fine del libro.]

    Nel Nord

    Alessandro Severo: l’imperatore

    Mamea: sua madre

    Petronio Magno: un consigliere imperiale

    Flavio Vopisco: governatore senatoriale della Pannonia superiore

    Onorato: comandante senatoriale del distaccamento della Mesia inferiore

    Cazio Clemente: comandante senatoriale dell’Ottava legione nella Germania superiore

    Massimino il Trace: ufficiale di rango equestre

    Cecilia Paolina: sua moglie

    Massimo: il loro figlio

    Anullino: ufficiale di rango equestre

    Volo: comandante dei frumentarii

    Domizio: prefetto del campo

    Giulio Capitolino: comandante di rango equestre della Seconda legione Parthica

    Timesiteo: equestre facente funzioni di governatore della Germania inferiore

    Tranquillina: sua moglie

    Sabino Modesto: suo cugino

    A Roma

    Pupieno: prefetto della città

    Pupieno Massimo: suo figlio maggiore

    Pupieno Africano: suo figlio minore

    Gallicano: senatore seguace del cinismo

    Mecenate: suo intimo amico

    Balbino: patrizio dalla vita dissoluta

    Giunia Fadilla: giovane vedova, discendente di Marco Aurelio

    Perpetua: sua amica, moglie di Sereniano, governatore della Cappadocia

    L’incisore di coni: artigiano della Zecca

    Castricio: suo giovane e poco raccomandabile vicino

    Cenis: prostituta visitata da entrambi

    In Africa

    Gordiano il Vecchio: governatore senatoriale dell’Africa proconsolare

    Gordiano il Giovane: suo figlio e legato

    Menofilo: suo questore

    Arriano, Sabiniano e Valeriano: i suoi altri legati

    Capeliano: governatore della Numidia, e nemico di Gordiano

    In Oriente

    Prisco: governatore di rango equestre della Mesopotamia

    Filippo: suo fratello

    Sereniano: suo amico, governatore della Cappadocia

    Giunio Balbo: governatore della Celesiria, genero di Gordiano il Vecchio

    Otacilio Severiano: governatore della Siria Palestina, cognato di Prisco e Filippo

    Ardashir: sassanide Re dei Re

    la nostra storia è ormai decaduta

    da un regno d’oro

    a uno di ferro e ruggine

    CAPITOLO 1

    Frontiera settentrionale.

    Accampamento nei pressi di Mogontiacum[1]

    Otto giorni prima delle Idi di marzo, 235 d.C.

    Tenetemi al sicuro nelle vostre mani.

    Il sole doveva essere sorto ormai da un pezzo, ma ne filtrava ben poco nel sancta sanctorum del grande padiglione.

    Dèi tutti, tenetemi al sicuro nelle vostre mani. Il giovane imperatore pregava in silenzio, muovendo solo la bocca. Giove, Apollonio, Cristo, Abramo, Orfeo: fate che arrivi illeso alla fine del giorno.

    Alla luce della lampada, l’eclettica gamma di divinità lo osservava impassibile.

    Alessandro, Augusto, Grande Madre: vegliate sul vostro eletto, vegliate sul trono dei Cesari.

    Suoni, come lo squittio di pipistrelli disturbati, al di là del piccolo santuario degli dèi domestici, al di là delle pesanti cortine di seta, interruppero le sue preghiere. Da qualche parte, negli intimi recessi del labirinto di corridoi e spazi recintati e ombreggiati di viola, giunse lo schianto di qualcosa che si rompeva. Tutti gli attendenti imperiali erano sciocchi. Sciocchi maldestri e codardi. I soldati si erano già ammutinati in precedenza. Al pari di quei disordini, si sarebbe risolto anche questo, e a quel punto i membri del seguito che avevano abbandonato i propri doveri o approfittato del putiferio avrebbero sofferto. Se uno schiavo o un liberto aveva rubato, gli sarebbero stati recisi i tendini delle mani. In quel modo non avrebbe potuto rifarlo. Sarebbe servito da lezione. Alla familia Caesaris serviva costante disciplina.

    L’imperatore Alessandro Severo si tirò una piega del mantello sulla fronte, appoggiò il palmo destro sul petto e riprese l’atteggiamento di preghiera. Gli auspici erano stati cattivi per mesi. Il giorno del suo ultimo compleanno la bestia sacrificale era fuggita. Il suo sangue gli aveva schizzato la toga. Mentre marciavano fuori da Roma, un antico alloro di enormi dimensioni era caduto all’improvviso in tutta la sua lunghezza. Qui, sul Reno, una donna druida gli aveva detto: Va’. Non sperare nella vittoria, non fidarti dei tuoi soldati. Le parole della profezia si ripetevano nella sua mente. Vadas, nec victoriam speres, nec te militi tuo credas. Era sospetto che si fosse espressa in latino. Eppure la tortura non aveva rivelato alcuna influenza malevola terrena. Qualunque fosse la sua lingua, era necessario propiziare gli dèi.

    A Giove un bue. Ad Apollonio un bue. A Gesù Cristo un bue. Ad Achille, Virgilio e Cicerone, a tutti voi eroi…

    A ogni voto che faceva, Alessandro mandava un bacio a ciascuna statuetta. Non era sufficiente. Si mise in ginocchio, allora, ostacolato dall’elaborata corazza, e si prostrò in adorazione del lararium. Vicino alla sua faccia, notò il filo dorato del tappeto bianco. Il tessuto puzzava leggermente di muffa.

    Niente di tutto questo era colpa sua. Niente. Due anni prima, in Oriente, era stato malato. E con lui metà delle truppe. Se non avesse ordinato la resa ad Antiochia, i Persiani li avrebbero annientati tutti quanti; non solo l’unità meridionale che era stata lasciata indietro, ma anche il grosso dell’esercito romano schierato. Qui, nel Nord, la frontiera era stata violata in numerosi punti. Aprire negoziati con alcuni barbari non era segno di debolezza. Non aveva senso combatterli tutti insieme. Sagge promesse e doni potevano indurne qualcuno a tenersi in disparte, magari perfino a unirsi alla distruzione dei loro fratelli. Questo non significava che la loro punizione fosse annullata, ma solo posticipata. I barbari non possedevano il concetto di buona fede, perciò le promesse fatte loro non si potevano considerare vincolanti. Cose del genere non si potevano affermare in pubblico, ma com’era possibile che i soldati non capissero queste ovvie verità? Certo, le truppe del Nord, arruolate dai campi, erano di poco migliori dei barbari stessi. La loro capacità di comprensione era altrettanto limitata. Ecco perché non arrivavano a capire la faccenda del denaro. Da quando Caracalla, l’imperatore che avrebbe potuto essere suo padre, aveva raddoppiato la paga delle truppe, l’erario si era prosciugato. Veturio, il tesoriere nominato da sua madre, aveva portato Alessandro al fiscus. Non c’era niente da vedere, se non file e file di forzieri vuoti. Come Alessandro aveva cercato di spiegare più di una volta nelle diverse piazze d’armi, sarebbe stato necessario estorcere con la forza donazioni per l’esercito agli innocenti civili, alle famiglie degli stessi soldati.

    Un lampo di luce: una cortina fu scostata. Feliciano, il più anziano dei due prefetti pretoriani, entrò impettito. Nessuno lo annunciò e nessuno richiuse la tenda. Dall’apertura, dietro al prefetto, volarono innumerevoli minuscoli uccelli. Presero a sfrecciare ovunque nella sala, mandando lampi gialli, rossi e verdi quando attraversavano il fascio di luce. Quante volte Alessandro si era lamentato con i loro custodi del fastidio e del costo che rappresentavano? A ogni cena in cui venivano liberati per saltellare e frullare le ali al solo scopo di divertire gli ospiti almeno un paio di loro si smarriva o moriva. Quanti ne sarebbero rimasti adesso?

    Feliciano spazzò via con inutile aggressività quelli che volavano troppo vicino alla sua testa, camminando verso il pallido chiarore dei due troni d’avorio gemelli. La madre dell’imperatore sedeva lì nell’oscurità. Graniano, uno dei vecchi tutori di Alessandro adesso promosso alla cancelleria imperiale, era accanto a Mamea. Bisbigliava. Il segretario degli studi era immancabilmente al fianco dell’imperatrice, sempre intento a bisbigliare.

    Alessandro tornò alle sue devozioni. Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Aveva fatto incidere la frase sul suo lararium. L’aveva sentita in Oriente, da qualche vecchio ebreo o cristiano. Gli sovvenne uno spiacevole pensiero. Si sollevò sui gomiti. Cercò il ghiottone di corte. Alessandro l’aveva visto mangiare volatili, piume e tutto. Bene, l’onnivoro era in un angolo, dietro agli strumenti musicali di Alessandro. Era rannicchiato con uno dei nani. Nessuno dei due stava facendo caso agli uccelli ornamentali. Fissavano assenti il vuoto. L’ammutinamento sembrava averli prosciugati della vitalità.

    «Alessandro, alzati e vieni qui». La voce di sua madre era perentoria.

    Adagio, per non sembrare troppo servile, l’imperatore si rimise in piedi.

    L’aria era satura di incenso, anche se il fuoco sacro bruciava basso sul suo altare portatile. Doveva ordinare a qualcuno di alimentarlo? Sarebbe stato terribile se si fosse spento.

    «Alessandro».

    L’imperatore si girò verso la madre.

    «La situazione non è irreversibile. Il contadino che le reclute hanno ammantato di porpora non è ancora arrivato. La sua acclamazione attirerà pochi sostenitori tra gli alti ufficiali».

    Mamea era sempre brava a gestire le situazioni critiche. Alessandro pensò alla notte della sua ascesa al trono, la notte in cui suo fratello-cugino era morto, e rabbrividì.

    «Il prefetto pretoriano Corneliano è andato a prendere la coorte di Emeseni. Loro sono la nostra gente. Il loro comandante Iotapiano è un nostro congiunto. Saranno leali. E anche gli altri arcieri orientali. Porterà gli Armeni e gli Osroeni».

    Ad Alessandro non era mai piaciuto Iotapiano.

    «Feliciano si è offerto volontario per tornare al Campo Marzio. È coraggioso. Un gesto da uomo». Mamea sfiorò delicatamente i muscoli scolpiti della corazza del prefetto. Alessandro sperò che le voci non fossero vere. Non si era mai fidato di Feliciano.

    «L’avidità delle truppe è insaziabile», disse Mamea al figlio. «Feliciano offrirà loro denaro, un’enorme donazione. Le sovvenzioni ai Germani finiranno. I fondi diplomatici saranno promessi ai soldati. E loro vorranno quelli che credono nemici». Abbassò la voce. «Esigeranno la testa di Veturio. Il tesoriere deve essere sacrificato. A parte noi quattro, Feliciano può cedere loro chiunque».

    Alessandro osservò il ghiottone. Tra tutti i personaggi grotteschi della corte, il polyphagus era il suo preferito. Era improbabile che gli ammutinati chiedessero la morte dell’onnivoro imperiale.

    «Alessandro». La voce di sua madre lo riscosse. «I soldati vorranno vedere il loro imperatore. Quando Feliciano sarà di ritorno, tu uscirai con lui. Dal Foro annuncerai che condividi il loro desiderio di vendetta per le proprie famiglie. Prometterai di marciare alla loro testa contro i barbari che hanno ucciso i loro cari. Insieme libererete quelli tratti in schiavitù ed esigerete tremenda vendetta da coloro che hanno inflitto sofferenze tanto terribili. Parlerai ai soldati come un vero imperator: fuoco e spada, villaggi in fiamme, montagne di bottino, mucchi di cadaveri di nemici. Farai un discorso migliore di quello di stamattina».

    «Sì, madre».

    Feliciano salutò e lasciò la tenda.

    Era mostruosamente ingiusto. Aveva fatto del proprio meglio. Nella luce grigia che precedeva l’alba, si era recato al Campo Marzio con indosso l’armatura ornamentale, era salito in cima alla piattaforma rialzata e aveva atteso con i soldati che avevano rinnovato il giuramento di fedeltà la sera prima. Quando le reclute ammutinate erano uscite dalla semioscurità, si era riempito i polmoni per rivolgersi a loro. Non sarebbe mai stato facile. Il latino non era la sua prima lingua. Non aveva fatto alcuna differenza. Non gli avevano dato la possibilità di parlare.

    Codardo! Rammollito! Femminuccia appiccicata al grembiule della madre! Le loro grida lo avevano zittito prima che potesse aprire bocca. Dal suo lato della piazza d’armi, prima uno, poi due e infine interi ranghi avevano abbassato le armi. Aveva fatto dietrofront ed era fuggito. Seguito da risate di scherno e derisione, era tornato precipitosamente agli alloggi imperiali.

    Uscito il prefetto Feliciano, Mamea rimase seduta immobile come una statua. Graniano fece per sussurrare qualcosa, ma con un cenno gli ordinò di stare zitto. I piccoli uccelli svolazzavano da una parte e dall’altra.

    Alessandro rimase fermo, incerto. Un imperatore non dovrebbe mai essere incerto. «Polyphage». Il grassone si alzò faticosamente e caracollò dietro Alessandro fino al cibo. «Fammi divertire, mangia».

    Alessandro indicò una montagna di lattuga in un cesto. Il ghiottone iniziò a mangiare, muovendo indefesso le mandibole, con la gola che ballonzolava. Mangiava con poco entusiasmo.

    «Più veloce».

    Usando entrambe le mani, l’onnivoro si riempì la bocca di foglie verdi. Presto non ce ne furono più.

    «Il cestino».

    Era fatto di vimini. Il polyphagus lo spezzò e iniziò a mangiarlo. Anche se sparì nella sua bocca un pezzo dopo l’altro, non era partito all’attacco con la consueta soddisfazione.

    Alessandro desiderò di potersi liberare della madre. Ma non c’era nessun altro. Nessun altro di cui fidarsi. Si era fidato della prima moglie che gli avevano dato. Sì, si era fidato di Memmia Sulpicia con tutto il suo cuore. Ma poi il padre di lei, Sulpicio Macrino, aveva complottato contro di lui. Le prove presentate dalle spie imperiali non avevano lasciato spazio ad alcun dubbio. I frumentarii di Volo, il capo delle spie, erano stati meticolosi. Anche prima che Sulpicio venisse torturato, non c’erano stati dubbi. Sua madre aveva voluto che anche Memmia Sulpicia fosse giustiziata, ma Alessandro era stato risoluto: non gli avevano lasciato vedere la moglie, ma aveva commutato la sua sentenza in esilio. Per quanto ne sapeva, era ancora viva da qualche parte in Africa.

    L’onnivoro sputacchiò e fece per prendere una brocca.

    Più o meno la stessa cosa era successa con la seconda moglie, Barbia Orbiana. Non aveva avuto fortuna con i suoceri.

    Il polyphagus bevve un grosso sorso di vino.

    Forse sarebbe stato molto diverso se suo padre fosse stato vivo. Ma era morto quando Alessandro era ancora piccolo. Non se lo ricordava nemmeno. Poi, all’età di nove anni, gli avevano detto che Gessio Marciano, l’ufficiale equestre di Arca in Siria del quale ricordava poco, non era affatto suo padre. Era invece il figlio naturale di Caracalla. Ma a quel punto anche Caracalla era morto da un anno o più. Quell’inattesa svolta aveva rivelato che l’imperatore Eliogabalo, da poco sul trono, non era solo suo cugino di primo grado, ma anche suo fratellastro. Si era venuto a sapere che le loro madri, le sorelle Soemia e Mamea, avevano commesso adulterio con Caracalla. E poi Eliogabalo era stato indotto ad adottare Alessandro. Non erano molti i giovani che avevano tre padri pubblicamente riconosciuti prima di compiere tredici anni, due dei quali venerati come divinità e l’altro di appena cinque anni più grande di lui.

    Cinque anni più grande e perverso oltre ogni misura. Mamea aveva cercato di proteggere Alessandro da Eliogabalo e dai suoi cortigiani, sia dalla loro malvagità che dalla loro influenza.

    Il cibo e le bevande di Alessandro venivano assaggiati prima di essere portati in tavola. I suoi servitori venivano scelti individualmente da Mamea, che non attingeva alla schiera comune del palazzo. Lo stesso avveniva con le guardie. Torme di esperti di letteratura greca e latina e arte oratoria erano stati assunti con costi elevatissimi, insieme a uomini versati nella musica, la lotta libera, la geometria e ogni altra attività considerata adeguata a contribuire allo sviluppo culturale e morale di un princeps. Nessuno era stato scelto per la propria spensieratezza. Dopo l’ascesa al trono molti degli intellettuali erano rimasti a corte, come Graniano, che aveva scalato le posizioni del segretariato imperiale. Il loro nuovo status non aveva certo reso più gradevole la loro compagnia.

    Mentre suo fratello-cugino regnava, Mamea aveva tenuto Alessandro al sicuro. Eppure, malgrado i suoi sforzi, oscuri aneddoti di depravazione e vizio trapelavano dagli intimi di Eliogabalo. Alessandro ricordava come, tutt’a un tratto, quelle storie bisbigliate l’avevano turbato ed eccitato. Eliogabalo si era sbarazzato di ogni decenza, dei vincoli di sua madre. Una vita di cene, donne, rose e ragazzi, di futili piaceri su altri piaceri; un edonistico monte Pelio aggiunto al monte Ossa. Una vita che faceva impallidire le fantasie di epicurei e cirenaici. Libertà, potere: la scrupolosa Mamea aveva fatto in modo che Alessandro non avesse occasione di provare simili tentazioni. Ma non lo aveva protetto dalla fine di tutto quanto.

    Era una sera buia, le luci delle torce si riflettevano nelle pozzanghere. Due giorni prima delle Idi di Marzo. Alessandro aveva tredici anni, ed era nel Foro insieme a sua madre. Ombre che si muovevano sulle alte colonne del Tempio della Concordia Augusta. I pretoriani avevano consegnato le loro vittime alla folla. Entrambe nude e coperte di sangue. Trascinavano Eliogabalo con un gancio che gli era penetrato nella pancia, conficcandosi nel suo petto. Soemia veniva tirata per le caviglie, le gambe oscenamente divaricate. La testa le batteva sulla strada. Molto probabilmente erano già morti. Mamea aveva osservato il cammino finale della sorella, un viaggio che aveva in parte architettato. Alessandro avrebbe voluto tornare nel palazzo e nascondersi. No, a un segnale di sua madre, i pretoriani lo avevano acclamato imperatore e si erano schierati attorno a lui per portarlo al loro accampamento.

    Alessandro si guardò attorno per liberarsi di quell’immagine. Gli occhi gli si posarono su ogni tipo di cibo freddo: angurie, sardine, pane, biscotti. C’era un mucchio di candidi tovaglioli imperiali. Alessandro ne gettò uno davanti a sé. «Mangia questo».

    Il polyphagus lo acchiappò, ma non iniziò a mangiare.

    «Mangia!».

    L’uomo non si mosse.

    Alessandro sguainò la spada. «Mangia!».

    La bocca spalancata, il polyphagus stava ansimando.

    Alessandro gli agitò la spada davanti alla faccia. «Mangia!».

    Un mutamento nella luce. Un refolo d’aria nella profumata quiete. Alessandro si voltò di colpo.

    Un guerriero barbaro era fermo davanti all’apertura. Era giovane, vestito di cuoio e pelli, capelli lisci e lunghi fino alle spalle. La sua improvvisa apparizione era del tutto inspiegabile. Brandiva una lama nuda. Alessandro si accorse della spada nella propria mano. Poi ricordò. Sapeva da tempo che sarebbe accaduto. L’astrologo Trasibulo l’aveva predetto. In qualche modo trovò il coraggio di sollevare l’arma, ma sapeva che era inutile. Nessuno può opporsi al destino.

    Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, il barbaro rimase visibilmente sorpreso. Chiaramente si aspettava di trovare vuota la sala. Esitò, poi si voltò e andò via.

    Alessandro scoppiò a ridere, un suono alto e stridulo alle proprie orecchie. Rise e rise. Trasibulo si sbagliava. Era uno sciocco. Aveva frainteso le stelle. Alessandro non era destinato a morire per mano di un barbaro. Né adesso, né mai. Trasibulo non era altro che un ciarlatano. Altrimenti avrebbe previsto la propria sorte, quella che il giorno successivo aveva in serbo per lui. Il palo e le fascine: sarebbe bruciato lentamente, o soffocato dal fumo.

    Tutto sarebbe andato a buon fine. L’imperatore lo sapeva. Alessandro aveva affrontato la morte e si era dimostrato all’altezza. Non era un codardo, né una femminuccia. Le loro parole non potevano più ferirlo. Era un uomo.

    Insieme al barbaro, sembravano essersi dileguati anche gli ultimi servitori. Perfino il nano era scomparso. Il padiglione era vuoto, tranne che per sua madre sul trono, Graniano accanto a lei e lo stesso Alessandro insieme al polyphagus. Non gli importava. Euforico, si rivolse di nuovo a quest’ultimo. «Mangia!».

    C’era una patina di sudore sul volto dell’uomo. Non mangiò, ma si limitò a indicare con il dito.

    Adesso sulla soglia c’erano tre ufficiali romani con elmo e corazza. Quello al comando teneva qualcosa in mano. Come il barbaro, aspettarono fino a che non riuscirono a vedere nella penombra.

    «Feliciano è tornato». L’uomo che aveva parlato gettò a terra ciò che aveva in mano. L’oggetto atterrò pesantemente, quasi rotolando.

    Alessandro non aveva bisogno di guardare per sapere che era la testa dell’alto prefetto.

    Gli ufficiali estrassero le spade mentre si addentravano nella tenda.

    «Anche tu, Anullino?». La voce di Mamea era controllata.

    «Anch’io», disse Anullino.

    «Puoi avere denaro, la prefettura della guardia».

    «È finita», disse Anullino.

    «Alessandro ti adotterà, ti renderà Cesare, il suo erede».

    «È finita».

    Alessandro andò al fianco di sua madre. Aveva ancora la spada in mano. Non era un codardo, erano solo in tre, e lui era stato addestrato dai migliori maestri di spada dell’impero.

    Gli ufficiali si fermarono a pochi passi dal trono e si guardarono intorno, come per comprendere l’enormità delle azioni che stavano per commettere. Il debole raggio di luce si rifletté sulle loro spade. L’acciaio parve scintillare e vibrare minaccioso.

    Alessandro fece per sollevare la propria arma. Aveva il palmo viscido di sudore. Capì allora che il suo coraggio era stato momentaneo. Lasciò andare l’elsa. La spada cadde rumorosamente a terra.

    Uno degli ufficiali sbuffò di derisione.

    Singhiozzando, Alessandro crollò in ginocchio e afferrò la gonna di sua madre. «È tutta colpa tua! Colpa tua!».

    «Silenzio!», sbottò lei. «Un imperatore deve morire in piedi. Almeno muori da uomo».

    Alessandro seppellì la testa tra le pieghe del tessuto. Come poteva dire quelle cose? Era tutta colpa sua. Lui non aveva mai voluto essere imperatore; tredici anni di autonegazione, noia e paura. Non aveva mai voluto fare del male a nessuno. Non fare agli altri…

    Gli ufficiali si stavano avvicinando.

    «Anullino, se non ti fermi, verrai meno al giuramento fatto davanti agli stendardi».

    Alla voce di sua madre, si bloccarono di nuovo. Alessandro sbirciò furtivo.

    «Nel sacramentum non hai giurato di anteporre a ogni cosa la sicurezza dell’imperatore? Non hai giurato la stessa cosa riguardo alla sua famiglia?».

    Sua madre aveva un’aria maestosa. Con gli occhi che lampeggiavano, l’espressione determinata, i capelli simili a un elmo crestato, ricordava l’icona di una divinità implacabile, di quelle che punivano gli spergiuri.

    Gli ufficiali rimasero incerti.

    Era in grado di fermarli? Alessandro aveva letto qualcosa di simile da qualche parte.

    «Gli assassini vengono ripagati in misura equa con le sofferenze che gli dèi infliggeranno alle loro case».

    Alessandro provò un’ondata di speranza. Era Mario in Plutarco: il fuoco dei suoi occhi aveva fatto desistere gli assassini.

    «È finita», ripeté Anullino. «Andate! Uscite di qui!».

    L’incanto fu spezzato, adesso la cosa era irrevocabile. Eppure non fecero niente di precipitoso. Era come se fossero in attesa delle ultime parole della donna, pur sapendo che non avrebbero ricevuto alcuna benedizione, ma solo ingiurie.

    «Zeus, protettore dei giuramenti, sii testimone di questo abominio. Infamia! Infamia! Anullino, prefetto degli Armeni, io ti maledico. E tu, Quinto Valerio, tribuno del contingente dei Britanni. E tu, Ammonio dei Catafratti. L’oscuro Ade liberi le Erinni, le terribili figlie della notte, le furie che accecano la ragione degli uomini e trasformano il loro futuro in cenere e sofferenze».

    Quando finì di parlare, gli ufficiali ripresero a muoversi. Lei li bloccò con un gesto imperioso.

    «E maledico il contadino che metterete sul trono, e maledico coloro che lo seguiranno. Che nessuno di essi conosca felicità, prosperità o agi. Che tutti quanti siedano all’ombra della spada. Che nessuno di essi possa guardare a lungo il sole e la terra. Il trono dei Cesari è contaminato. Coloro che vi saliranno, scopriranno a proprie spese di non poter scampare alla punizione».

    Anullino sollevò la spada. «Via!».

    Mamea non mosse un muscolo.

    «Exi! Recede!», ripeté l’uomo.

    Anullino si fece avanti. La spada calò. A quel punto, Mamea si mosse. Non poté fare a meno di alzare la mano. Ma era troppo tardi. Alessandro guardò i moncherini delle sue dita, l’innaturale subitaneità dell’ampio squarcio rosso sulla gola della madre, il sangue che sprizzava.

    Qualcuno stava urlando, stridulo e ansante, come un bambino. Anullino incombeva su di lui.

    «Exi! Recede!».

    [1] Magonza.

    CAPITOLO 2

    Frontiera settentrionale.

    Accampamento nei pressi di Mogontiacum

    Otto giorni prima delle Idi di marzo, 235 d.C.

    Era un burrascoso giorno di primavera, non certo insolito nella Germania superiore otto giorni prima delle Idi di Marzo. Era ancora scuro, piovigginoso, quando erano usciti a cavallo da Mogontiacum. Quando raggiunsero l’accampamento nei pressi del villaggio di Sicilia, era metà mattinata e il sole era alto. I soldati si muovevano tra i ranghi senza pretese di disciplina. Qualcuno salutò, altri no. La maggior parte era ubriaca, alcuni di loro addirittura sul punto di perdere i sensi.

    Il gruppo a cavallo smontò. Massimino il Trace stiracchiò il suo corpo massiccio e consegnò le redini a un fante. Il Reno scorreva ampio e scintillante al sole. Le pareti del grande complesso di padiglioni viola si agitavano e schioccavano al vento.

    «Da questa parte».

    Massimino seguì i senatori Flavio Vopisco e Onorato. C’erano cadaveri nudi nei corridoi. Erano grigiastri, cerei, ricoperti da una patina, come cosparsi di olio.

    «Non tutta la familia Caesaris è fuggita in tempo», disse Onorato.

    «Servitori e qualche segretario, facili da rimpiazzare», disse Vopisco. «I prefetti pretoriani sono state le uniche vittime di una certa importanza».

    Un cumulo di corpi bloccava loro la strada. Le teste dei morti giacevano vicine in una sorta di ultimo conclave.

    Massimino pensò allo squallore del sangue e della morte. Non lo sconvolgeva: aveva assistito a svariati massacri, e sin dalla prima volta non aveva lasciato che lo turbassero.

    Superarono con cautela i resti umani. Massimino sapeva che sul volto aveva dipinto quello che Paolina definiva il suo cipiglio mezzo barbaro. Pensò alla moglie e sorrise: perfino in quell’età corrotta potevano ancora esserci bellezza, fiducia e amore.

    Era buio nella sala del trono. L’atmosfera era soffocante, satura di incenso e sangue, di urina e paura. Anullino e gli altri due ufficiali equestri stavano aspettando.

    «La femminuccia è morta». Anullino reggeva la testa mozzata per i corti capelli.

    Massimino la prese con entrambe le mani. Come sempre, era sorprendentemente pesante. La avvicinò a sé e ne studiò l’ovale e il naso lungo, la bocca e il mento deboli e imbronciati.

    Quel rammollito era davvero il figlio di Caracalla? Sua madre l’aveva affermato, e anche sua nonna: entrambe si erano vantate dell’adulterio. La moralità si era piegata al vantaggio politico, come ci si poteva aspettare da degli orientali.

    Massimino portò la testa verso l’apertura, dove poté osservarla da un lato e dall’altro. Certo, aveva visto Alessandro diverse volte in precedenza, ma adesso poteva studiarlo sul serio. Doveva esserne sicuro: il naso non era dissimile; capelli e barba erano tagliati secondo lo stesso stile, ma, malgrado l’incipiente calvizie, i capelli di Caracalla erano più ricci. La sua barba era senz’altro più folta di quella specie di lanugine. Massimino non era un fisionomista, ma la forma della testa era sbagliata: quella di Caracalla era più squadrata, come quella di un toro o un blocco di pietra; e aveva un volto forte, perfino duro. Ben diverso dal giovane delicato e inadeguato.

    Massimino si sentì in qualche modo rassicurato. Poche cose potevano essere peggiori che partecipare all’uccisione del figlio del suo vecchio comandante, il nipote del suo grande protettore. Massimino riconosceva che doveva tutto al padre di Caracalla, Settimio Severo. Quell’imperatore l’aveva tirato fuori da una remota oscurità e aveva riposto la sua fiducia in lui. In cambio, Massimino gli aveva dato la propria devozione. Senza pensarci, allungò la mano alla gola e toccò la torque d’oro con cui il suo imperatore aveva insignito il morto.

    «Seppellite la testa», disse, «insieme al corpo».

    Anullino prese in consegna l’oggetto repellente e andò verso l’ingresso, mentre gli altri due equites macchiati di sangue si addentravano nella sala buia, presumibilmente per recuperare il cadavere. Ma si fermarono tutti a un cenno di Vopisco.

    «Imperatore, la tua magnanimità verso il nemico ti fa onore, ma sarebbe meglio mostrare la testa all’esercito, dare ai soldati la certezza della sua morte».

    Massimino rifletté sulle parole del senatore. Tranne che in battaglia, non era sua abitudine agire secondo l’impulso del momento. Alla fine, si rivolse ad Anullino. «Fa’ come suggerisce il senatore Vopisco, poi seppelliscila».

    Prima che chiunque si muovesse, Onorato parlò. «Imperatore, forse dopo sarebbe bene mandare la testa a Roma, farla bruciare nel Foro o gettarla nella cloaca. Di solito è così che si fa con gli usurpatori».

    Per un momento, Massimino pensò che il termine usurpatore fosse rivolto a lui stesso, e la sua ira divampò; ma poi capì. Riusciva ancora a meravigliarsi della creatività con cui i senatori e il resto dell’élite tradizionale erano capaci di riscrivere la storia, sia la propria che quella della Res Publica. Presto sarebbe stato quasi come se non avessero mai acclamato Alessandro imperatore, mai pronunciato giuramenti per la sua incolumità o preso servizio sotto di lui. Tredici anni di regno sarebbero stati ridotti a una fugace rivolta, una temporanea aberrazione durante la quale Roma era stata dominata da un incapace ragazzo siriano e dalla sua intrigante e avida madre. La parte che avevano avuto in quell’effimero regime sarebbe stata sepolta nella più profonda oscurità. Avrebbero detto di aver trascorso quel tempo in tranquillità, lontani dalle vicende pubbliche, nelle loro tenute. Un’educazione costosa era in grado di smussare gli angoli di sgradite verità.

    «No», disse Massimino.

    «Come preferisci, imperatore», rispose Onorato.

    «Non era un Nerone. La plebe non lo amava. Non ci saranno falsi Alessandro. Nessuno schiavo fuggiasco si creerà un seguito fingendosi lui, facendo credere a tutti di essersi salvato e di essere tornato alla ribalta; né a Roma, né in Oriente. E per quanto riguarda il senato…», Massimino fece una pausa, accigliandosi mentre cercava le parole adatte, «…il senato è composto da uomini di cultura. Non sarà necessario sventolargliela in faccia. Non avranno bisogno di un disegnino».

    «Quantum libet, imperator», ripeté Onorato.

    «Anullino, quando avrai mostrato la testa alle truppe, seppelliscilo. Il corpo intero. Torna a prendere il resto».

    L’ufficiale spostò il ripugnante fardello nella mano sinistra e salutò. «Faremo come ci è stato ordinato, e a ogni comando saremo pronti». Gli altri due equites lo seguirono all’esterno.

    «Negare a un uomo l’Ade è negare la propria humanitas». Massimino parlò ad alta voce, ma non si rivolgeva a nessuno se non a se stesso mentre si addentrava nella sala. Qualcosa si rigirò sotto il suo stivale: un dito mozzato di netto, con l’unghia perfetta. Quel posto era un mattatoio. C’era sangue ovunque, livido sui tappeti bianchi, più scuro sulle cortine viola. I resti del giovane imperatore giacevano, mutilati e decapitati, vicino al trono. Sua madre, nuda e martoriata, accanto al proprio: entrambi i troni d’avorio erano lordi di sangue.

    Come si era giunti a tanto? Massimino non aveva voluto che andasse così. Sapeva che Alessandro era impopolare, tutti nell’esercito ne erano a conoscenza. Forse nei momenti di ubriachezza si era lasciato andare a critiche incaute, ma non aveva idea che le reclute che stava addestrando si sarebbero ammutinate. Dopo che a Mogontiacum gli avevano gettato sulle spalle un mantello purpureo, non era più stato possibile tornare indietro. Se avesse cercato di rifiutarsi, i soldati lo avrebbero ucciso seduta stante, o l’avrebbe fatto Mamea in seguito.

    Quasi certamente la rivolta sarebbe stata repressa, e rapidamente (la testa di Massimino sarebbe finita su un palo entro la fine della giornata), se Vopisco e Onorato non fossero arrivati nell’accampamento delle reclute. Vopisco era il governatore della Pannonia superiore, e comandava i distaccamenti legionari provenienti dalla propria provincia e dalla confinante Pannonia inferiore. Onorato era legato dell’Undicesima legione Claudia Pia Fidelis e aveva condotto i distaccamenti delle due province della Mesia lungo il fiume Ister[2]. In totale avevano impegnato le spade qualcosa come ottomila legionari, la maggioranza dei quali veterani.

    Tuttavia, niente era sembrato davvero deciso finché Iotapiano non aveva portato loro la testa del prefetto pretoriano Corneliano. Iotapiano era un parente di Alessandro e Mamea, e gli arcieri al suo comando provenivano dalla loro città natale di Emesa. Con la loro diserzione, per l’imperatore e sua madre era venuta a mancare ogni speranza.

    Una volta preso un lupo per le orecchie, non si può più lasciarlo andare. No, Massimino non aveva ambito al trono, ma a questo punto era impossibile tornare indietro. Almeno suo figlio avrebbe goduto del nuovo status. Il che, in ogni caso, poteva essere tutt’altro che positivo. A diciotto anni Massimo era già coccolato e viziato più che mai. E Paolina? Cosa avrebbe pensato? Aveva sempre voluto che il marito si facesse un nome, che arrivasse in alto. Ma al soglio più alto dell’umanità? Avendo origini senatoriali, Paolina sapeva bene quanto gli altri disprezzassero i bassi natali del marito.

    Gli squarci rossi sul corpo di Mamea erano dolorosi da guardare. Qualcosa dell’anziana donna fece ricordare a Massimino quando, tanto tempo prima, era entrato in un tugurio e per la prima volta si era trovato di fronte ai resti di una famiglia massacrata: una donna e un uomo anziani, e i loro figli.

    Si allontanò. C’era una tavola imbandita di cibo e un uomo grasso, enorme, morto ai suoi piedi. Inesplicabilmente, minuscoli uccelli saltellavano tra i piatti. In ogni caso il cibo era freddo. A Massimino non erano mai piaciute le pietanze fredde. Nell’angolo della tenda, un cane sedeva con una testa umana tra le zampe, rosicchiando soddisfatto.

    «Imperator».

    Vopisco e Onorato erano accanto a Massimino.

    «È tempo di parlare alle truppe, imperatore».

    Massimino trasse un profondo respiro. Era solo un soldato. Entrambi i senatori avrebbero pronunciato un discorso migliore. Entrambi sarebbero stati imperatori migliori. Ma una volta preso un lupo per le orecchie…

    Massimino era solo un soldato. Gli uomini là fuori erano solo dei soldati. Non pretendevano niente di elaborato. Avrebbe parlato loro come a dei compagni, come un commilito all’altro. Sarebbero bastate parole semplici. Avrebbe marciato con loro, diviso le loro razioni, combattuto al loro fianco, condiviso il pericolo. Insieme dovevano conquistare i Germani fino all’oceano. O Roma sarebbe morta. Avrebbe citato le ultime parole del suo vecchio comandante Settimio Severo. Arricchisci i soldati, ignora tutti gli altri.

    [2] Il Danubio.

    CAPITOLO 3

    Roma. Sede del senato

    Quattro giorni dopo le Idi di marzo, 235 d.C.

    Era ancora buio quando Pupieno uscì dalla sua casa sul Celio. Non si vedeva una sola stella, neanche l’Aquila o l’Orsa di Li-caone. Le torce dei suoi tedofori resistevano alle raffiche di vento. Le strade erano asciutte, ma nell’aria c’era odore di pioggia.

    Pupieno aveva l’abitudine di uscire di casa a quell’ora. Normalmente, a meno che non fosse un giorno di festa e la devozione esigesse riposo, svoltava a destra in direzione del Tempio della Pace e dei lussuosi uffici in cui svolgeva la sua alta carica. Quel giorno era lungi dall’essere un giorno normale.

    Passò sotto l’Arco di Augusto ed entrò nel Foro Romano. Sulla destra, sopra la maestosa facciata della Basilica Emilia, il cielo iniziava a schiarirsi. Si distinguevano nuvole nere che incombevano da nord, e che per molti non avrebbero portato più giubilo delle notizie giunte da quella stessa direzione il pomeriggio precedente.

    In basso, nell’oscurità, il Foro era punteggiato di torce, ciascuna seguita da un’indistinta figura avvolta in un bianco tremolante. Tutte convergevano verso lo stesso punto, come falene attratte dalla fiamma o fantasmi dal sangue. I senatori di Roma erano riuniti in sessione straordinaria.

    Pupieno era uno di loro. Anche dopo tutto quel tempo, erano ormai quasi trent’anni, l’idea lo emozionava e al tempo stesso gli sembrava quasi improbabile. Aveva ottenuto lo status di membro del medesimo ordine di cui avevano fatto parte Catone il Censore, Mario e Cicerone. E non era uno qualunque, non era un semplice fante: Marco Clodio Pupieno Massimo, vir clarissimus, due volte console, era prefetto della città di Roma, responsabile della legge e dell’ordine della Città Eterna e di un territorio che si estendeva per altre cento miglia. I seimila uomini delle coorti urbane obbedivano ai suoi ordini. Aveva fatto tantissima strada sin dalla sua giovinezza a Tibur[3], per non parlare dell’infanzia a Volaterrae[4]. Pupieno soppresse quello sgradevole pensiero. Lo sapevano gli dèi se fin troppo presto non avrebbe dovuto compiere un altro viaggio clandestino lassù e affrontare il passato che tanto aveva penato per nascondere.

    La Curia se ne stava comodamente in un angolo del Foro, come se fosse sempre stata lì e fosse destinata a rimanerci per sempre. Pupieno sapeva che quello non era l’edificio originale, ma in qualche modo l’impressione non veniva scalfita. Salì i gradini e passò sotto al portico. Si fermò, toccò per scaramanzia l’alluce della statua di Libertas e poi superò le porte di bronzo. Attraversò la sala in tutta la sua lunghezza senza guardare né a destra né a sinistra, né gli amici né i nemici, neanche i consoli che presiedevano. Camminava adagio, le mani nascoste decorosamente sotto alla toga, gli occhi fissi sulla statua e l’altare della Vittoria. La dignitas era tutto per un senatore. Senza quella potente combinazione di austerità, decoro e nobiltà non sarebbe stato migliore di chiunque altro.

    Pupieno salì al tribunale. Fece una libagione di vino e offrì un pizzico d’incenso all’altare. I fumi si levarono in volute inebrianti dal piccolo fuoco. La faccia dorata della Vittoria lo guardò impassibile dall’alto. Si portò la mano destra al petto, chinò il capo e pregò gli dèi tradizionali: pregò per la salute della Res Publica, per la sicurezza dell’imperium e per la buona sorte della propria famiglia. Furono tutte preghiere sincere.

    Adempiuti i doveri nei confronti del sacro, Pupieno tornò al profano. Salutò i consoli e si avviò al suo solito posto nella prima panca. I suoi due figli, Massimo e Africano, erano presenti. Li lasciò aspettare, dedicandosi prima al fratello della moglie, Sestio Cetegillo, al suocero di Massimo, Tineio Sacerdote, e al suo vecchio alleato e confidente, Cuspidio Flaminio. Età e rango dovevano precedere gli affetti familiari. Finalmente, abbracciò i figli. «Salute e grande gioia», si ripeterono l’un l’altro. «Salute e grande gioia».

    La sala era affollata, tutti i posti erano occupati. I senatori di rango minore se ne stavano stipati in fondo. Quello sarebbe stato un giorno da raccontare ai nipoti. Un nuovo regno stava per nascere, il primo dopo tredici anni. Chiunque poteva impossessarsi del trono, ma solo il senato poteva legittimarlo e assegnargli i poteri necessari a regnare: senza il senato, un nuovo imperatore non era altro che un usurpatore.

    Pupieno lasciò vagare lo sguardo sulle file dall’altro lato della Curia. Il volto franco e disteso di Flavio Latroniano gli sorrise. Pupieno ricambiò il sorriso. Nei confronti degli altri il saluto fu più formale; nessuno di loro gli era particolarmente amico ma, come Latroniano, erano tutti di rango consolare, uomini che avevano reso alla Res Publica un buon servizio e le cui opinioni avevano un certo peso. Anche loro ricambiarono il suo gesto di saluto.

    La vista di coloro che occupavano la panca di fronte alla sua gli diede molto meno piacere. Celio Balbino aveva guance cascanti e faccia florida da bevitore accanito. Alzò una mano in direzione di Pupieno con ironica cerimoniosità. Ricco come Creso e dedito ai piaceri come un sovrano orientale, l’anziano Balbino affermava di discendere, tra le tante altre famiglie e individui di antica fama, dalla grande dinastia dei Celii, beandosi della parentela che ne conseguiva con i divini imperatori Traiano e Adriano.

    Balbino sedeva circondato da altri patrizi della sua stessa pasta. Cesonio Rufiniano, Acilio Aviola e i fratelli Valeri – disgustosamente obesi – Priscilliano e Messalla: tutti vantavano almeno un antenato che aveva partecipato alla prima riunione del libero senato, più di mezzo millennio prima. In tempi recenti gli imperatori avevano insignito del rango patrizio le famiglie di alcuni favoriti, ma Balbino e quelli come lui guardavano con disprezzo tali beneficiari. Secondo la loro opinione, nessun uomo era un vero patrizio a meno che un suo antenato non si fosse trovato nella Curia durante quel giorno di libertà, quando Bruto aveva scacciato Tarquinio il Superbo mettendo fine al regno dei re leggendari. Certo le vanterie di alcuni erano molto superiori: a sentire Aviola, la sua stirpe risaliva allo stesso Enea, e pertanto agli dèi. Discendenza divina e secoli di privilegi non producevano certo umiltà.

    I giovani parenti di quei patrizi erano ancora peggio. Il cugino di Aviola, Acilio Glabrione, e il figlio di Priscilliano, Poplicola, erano due dei tre giovani magistrati che dirigevano la Zecca. Non erano ancora neanche senatori, ma se ne stavano lì con i capelli arricciati con cura, zuppi di profumo, come fosse un loro diritto. Sapevano bene come chiunque altro che la loro nascita e i busti anneriti dal fumo degli antenati che avevano in mostra nelle lussuose residenze avrebbero portato incarichi e carriera, a prescindere da sforzi e meriti personali, com’era stato per generazioni nelle loro famiglie.

    Pupieno pensò che non aveva niente contro il patriziato o, più in generale, contro la più ampia cerchia della nobiltà ereditaria. Gli uomini tra i quali sedeva, Cetegillo e Sacerdote, provenivano dalle schiere di quest’ultima. Avevano entrambi diversi consoli nel proprio lignaggio, ma restavano uomini di buon senso e di fatica. Uomini che sapevano anteporre il dovere pubblico all’amor proprio e ai piaceri.

    Lo stesso Pupieno aveva nobilitato la sua famiglia quando aveva assunto il primo consolato. Cuspidio aveva fatto altrettanto, così come altri amici più intimi. Rutilio Crispino e Sereniano erano assenti, entrambi in Oriente; governavano rispettivamente le province della Siria Fenice e della Cappadocia. Una parte di Pupieno desiderò che fossero lì in quel momento: avrebbe tenuto in grande considerazione il loro consiglio e il loro sostegno.

    Dall’altro lato, Balbino stava raccontando una barzelletta, ridendo della propria arguzia, distorcendo i lineamenti della faccia porcina. Pupieno lo detestava. Più Pupieno e i suoi amici salivano in alto nel cursus honorum più quelli come Balbino ne schernivano le origini. Le loro famiglie erano immigrate; Roma per loro non era altro che una matrigna. Non uno dei loro antenati era stato degno di essere ammesso al senato. Cosa si poteva quindi dire di un tale lignaggio? Cosa poteva saperne un uomo nuovo delle secolari tradizioni di Roma?

    I commenti beffardi facevano infuriare Pupieno. Un homo novus aveva la strada in salita; doveva risalirla con i propri servigi alla Res Publica, con le proprie virtù, non con le gesta dei lontani antenati. Non c’era paragone tra le due strade: la vera nobiltà si trovava nell’animo, non in una genealogia.

    Balbino terminò la storiella con un gesto teatrale e i patrizi risero, il corpulento Valerio Messalla in modo smodato. Forse era nervoso. Forse perfino nel suo ottuso comprendonio si era fatta largo l’idea che, in quel mutato scenario, il suo eccellente matrimonio con la sorella dell’assassinato imperatore Alessandro avrebbe potuto lasciarlo in una posizione di pericolo.

    Uno dei consoli, Claudio Severo, si alzò in piedi.

    «Chiunque non sia un padre coscritto se ne vada. Che nessuno resti a eccezione dei senatori».

    Pochi attimi dopo la delibera rituale, i giovani patrizi Acilio Glabrione e Poplicola si avviarono con tutta calma verso il fondo dell’edificio. Superarono il tribunale ma si fermarono davanti alle porte, ancora ben dentro la Curia. Pupieno non fu l’unico a guardarli in modo malevolo: in senato la maggioranza era sempre composta da uomini nuovi.

    L’altro console, Lucio Tiberio Claudio Aurelio Quintiano Pompeiano, si alzò.

    «Che buoni auspici e gioiosa sorte attendano il popolo di Roma».

    Mentre recitava l’invocazione che precedeva sempre una proposta, nella folla di astanti accalcati davanti alle porte sul retro si levò un po’ di trambusto.

    «Presentiamo a voi, padri coscritti…».

    Acilio Glabrione e Poplicola si girarono. Senza troppe cerimonie, i due patrizi giovani e arroganti vennero spinti di lato, Poplicola così forte che incespicò. Un paio di senatori si fecero largo e proseguirono verso il tribunale per porgere le proprie offerte. Il console esibì l’ammirevole autocontrollo che ci si aspettava da un discendente del divino Marco Aurelio e continuò a parlare.

    Reso omaggio alle divinità, i due ritardatari scesero in fondo alla sala e rimasero lì fermi, guardandosi attorno con aria sprezzante.

    Pupieno li squadrò con quella che sperava fosse malcelata disapprovazione.

    Domizio Gallicano e Mecenate erano inseparabili. Il primo era il maggiore d’età, nonché l’istigatore di ogni loro azione. Era un uomo brutto con una selvaggia massa di capelli castani e la barba incolta. La sua toga era chiaramente tessuta in casa. L’aspetto trasandato s’intonava perfettamente al suo professato amore per l’antica virtù e la libertà repubblicana vecchio stile. Aveva all’incirca quarantacinque anni, e qualche anno prima era stato pretore, ma l’ostentato abuso della libertà di parola e la continua aggressività nei confronti delle autorità imperiali avevano messo un freno alla sua carriera, impedendogli di diventare console.

    Pupieno non aveva mai sprecato troppo tempo con Gallicano; uno spirito nobile doveva cercare la ricompensa della virtù nella propria percezione di essa, piuttosto che nella volgare opinione altrui. E dalla sera prima il tempo a disposizione di Gallicano era diminuito ulteriormente.

    «E che sia legittimo per lui porre il veto all’atto di qualsiasi magistrato». Il console non aveva bisogno di appunti. «E che sia legittimo per lui convenire in senato, riferire attività e proporre decreti, proprio come era legittimo per il divino Augusto e per il divino Claudio…».

    Claudio Aurelio stava proponendo che a Massimino fossero conferiti i poteri di tribuno della plebe, titolo che dava a un imperatore autorità legale nella sfera civile. Distratto dall’entrata plateale di Gallicano e Mecenate, Pupieno doveva essersi perso uno dei pilastri del governo di un imperatore: la clausola riguardante il comando militare.

    Gli eventi si erano susseguiti rapidamente dal giorno precedente, quando il senatore Onorato e la sua scorta erano giunti dal Nord, spingendo i cavalli stremati lungo la via Aurelia spazzata dalla pioggia fino a Roma. Erano passati tre giorni dalle Idi di marzo. Era il giorno dei Liberalia, quando ai ragazzi veniva consegnata la toga virilis dell’età adulta. Impegnati con le cerimonie familiari, i senatori erano sparsi in tutta Roma e oltre; e solo nel tardo pomeriggio se n’era radunato un numero sufficiente nella Curia.

    Onorato era un altro homo novus. La sua città natale era Cuicul[5], in Africa, ma per Pupieno non era un elemento a suo sfavore: Onorato aveva scalato con merito il cursus honorum; dopo l’incarico di pretore, gli era stato assegnato il comando dell’Undicesima legione nella Mesia inferiore, e in seguito un comando speciale con l’esercito di stanza in Germania. Onorato conosceva i modi del senato tanto quanto quelli dell’accampamento. Era sempre stato un uomo da ammirare profondamente. Ora era anche un uomo da temere.

    Con gli abiti ancora chiazzati di fango, Onorato aveva raccontato gli eventi con semplicità, senza affettazione. L’imperatore Alessandro era stato assassinato nel corso di una spontanea e inattesa rivolta delle truppe. Gli alti ufficiali e l’esercito avevano proclamato imperatore Gaio Giulio Vero Massimino. Con l’ammutinamento tra i ranghi e un conflitto con i barbari in atto, era mancato il tempo di consultare i padri coscritti. Massimino sperava che il senato comprendesse l’esigenza della tempestività. Il nuovo imperatore intendeva avvalersi del consiglio dei padri coscritti e continuare le politiche senatoriali del suo predecessore. Massimino era uomo di comprovato coraggio ed esperienza. Aveva governato la Mauretania Tingitana e l’Egitto e detenuto l’alto comando sia sulla spedizione orientale che quella occidentale. Onorato l’aveva lodato, raccomandandolo al senato.

    Era stato un bel discorso, malgrado il leggero accento africano di Onorato, con le s che di tanto in tanto diventavano sh. Il senato avrebbe conferito immediatamente i poteri imperiali a Massimino, e qualcuno aveva perfino iniziato a intonare le acclamazioni. Se non fosse stato per Gallicano.

    Come un irsuto fantasma della vecchia repubblica, Gallicano si era alzato tuonando contro il vizio della procedura senatoriale. Era ormai passata la decima ora della giornata. Dopo la decima ora nessuna nuova proposta poteva essere sottoposta all’assemblea. Era quasi buio. Forse i padri coscritti si vergognavano delle proprie azioni? Cercavano forse riparo nell’oscurità come disgustosi cospiratori, o depravati cristiani? Avevano dimenticato che un decreto approvato dopo il tramonto non aveva corso legale?

    I consoli non avevano avuto altra scelta: erano stati costretti a mettere fine alla seduta e convocare un’altra riunione del senato l’indomani mattina all’alba.

    La consuetudine esigeva che i senatori scortassero a casa i magistrati che presiedevano. Pupieno era stato tra coloro che avevano accompagnato Claudio Severo a casa sua, sotto la pioggia. Per lo meno non era proprio fuori strada; il console era suo vicino sul Celio.

    Tornato alla propria dimora, Pupieno aveva appena avuto il tempo di fare un bagno veloce e indossare abiti asciutti prima che il suo segretario, Curio Fortunaziano, annunciasse che alla sua porta c’era nientedimeno che Gallicano. Per una volta la sua ombra, Mecenate, non aveva accompagnato l’arbitro dei tradizionali costumi senatoriali. Al contrario, Gallicano aveva richiesto di parlare con il prefetto della città in assoluta riservatezza. Il circospetto Fortunaziano aveva proposto a Pupieno di ricevere l’ospite nella sala da pranzo esterna: l’invisibile porta sul retro, infatti, avrebbe consentito al segretario e, per sicurezza, a un altro testimone fidato, di ascoltare inosservato. Tuttavia, sebbene tentato da quella possibilità di salvaguardare la propria incolumità, Pupieno aveva bocciato l’idea come indegna. Gallicano poteva anche essere un uomo riprovevole, in cerca di notorietà, e la sua conversazione poteva forse virare verso il tradimento (viste le circostanze, Pupieno si sarebbe meravigliato del contrario), ma i senatori non dovevano denunciarsi a vicenda e, soprattutto, non dovevano architettare subdole trappole.

    Fortunaziano aveva accompagnato Gallicano nella piccola stanza in cui Pupieno si era vestito e poi li aveva lasciati soli. Gallicano non era mai stato noto per la sua delicatezza. Aveva sbirciato in ogni angolo, tralasciando solo di picchiettare i pannelli, e aveva preteso che Pupieno giurasse che non ci fosse nessuno ad ascoltarli e che quello che si dicevano sarebbe rimasto tra loro. Fatti i dovuti giuramenti, Gallicano era andato dritto al sodo: questo nuovo imperatore non era che un eques, e in passato solo un altro uomo del secondo ordine della società era mai salito al trono. Pupieno non poteva non ricordare la brevità e la debolezza del regno del burocrate moro Macrino; ebbene questo Massimino era ancora peggio. Era un contadino delle remote colline della Tracia. C’era chi diceva che uno dei genitori proveniva da oltre la frontiera, che fosse goto o alano. Altri dicevano che erano entrambi barbari. Era un uomo senza educazione, né cultura.

    Pupieno sapeva che la legge sul tradimento era vaga, ma la sua duttilità propendeva sempre verso la condanna. Ciò che aveva detto Gallicano era già più che sufficiente per comportare la perdita delle proprietà e un viaggio verso l’esilio o il boia. Tuttavia, Pupieno aveva dato la sua parola. «Quali sono le tue intenzioni?», gli aveva chiesto.

    Gallicano non aveva risposto direttamente. Il principato di Alessandro aveva giovato al senato. Gallicano sembrava sincero. Sia l’imperatore che sua madre avevano mostrato rispetto per la Curia, e avevano dato ai senatori la possibilità di riacquistare la dignitas. Inoltre, con la creazione del consiglio permanente di sedici senatori sempre al servizio dell’imperatore, si poteva dire che avessero garantito al senato una vera condivisione del potere. Si poteva chiamarla diarchia.

    Sebbene avesse prosperato sotto quel regime, Pupieno sarebbe stato piuttosto restio a chiamare diarchia un decennio e mezzo di regno inetto e corrotto, guidato da un giovane debole e da una donna avida, che si era creata un seguito di senatori ambiziosi e spesso venali, nell’infruttuoso tentativo di farsi un nome nell’arte del governare. Pupieno non aveva detto niente in risposta.

    Il senato si era risvegliato, aveva continuato imperterrito Gallicano. Non era mai stato così forte da quando il primo Augusto aveva ammantato la propria autocrazia di belle parole e soffocato quanto restava della vera libertà. Forse da molto prima ancora. Questo barbaro trace non aveva ancora preso pieno possesso del trono. Massimino aveva pochi sostenitori. Gran parte dei senatori e l’esercito avrebbero accolto con piacere la sua caduta. Non aveva autorità legale. L’imperatore non era mai stato così debole. Era tempo di riportare indietro la libertas. Era tempo di restaurare la libera repubblica.

    In tanti anni di servizio pubblico, Pupieno non aveva mai sbuffato in segno di scherno, né aveva mai riso in faccia a nessuno. A parte i buffoni di corte e un uomo, in Africa, che aveva perso la testa dopo aver preso troppo sole, nessuno gli aveva mai detto niente di più folle.

    Gallicano doveva aver frainteso il prolungato silenzio dell’interlocutore. «Le coorti urbane sotto il tuo comando contano seimila uomini. Quasi tutti i pretoriani sono con l’esercito stanziato sulla frontiera settentrionale. Non ne restano che un migliaio a Roma. Molti dei tuoi uomini sono acquartierati nel loro accampamento. Sarebbe facile persuaderli o schiacciarli».

    «Erennio Modestino?», aveva detto Pupieno, decidendosi a parlare.

    Gallicano aveva sorriso come uno studente non troppo brillante al quale è stata fatta una domanda che si aspettava. Il prefetto della guardia era il tipico eques imbevuto di rispetto per il senato. A ogni modo, anche se si fosse dimostrato ribelle, i vigiles che comandava erano solo settemila pompieri armati. Le coorti urbane contavano quasi altrettanti uomini, ed erano veri soldati. Lo stesso Modestino non era che un giurista, mentre Pupieno aveva comandato le truppe sul campo.

    «I distaccamenti delle flotte di Ravenna e Misenum[6]?».

    A quella domanda, Gallicano aveva fatto spallucce con una certa irritazione. «Sono solo pochi marinai che si trovano a Roma per mettere su i tendoni per gli spettacoli». Era palese che non vi avesse minimamente pensato prima di allora.

    «Mille per ciascuna flotta, tutti addestrati e di provata disciplina militare». Pupieno aveva sempre cercato di scoprire dettagli del genere: gli effettivi delle truppe, i loro alloggi e lo stato d’animo, la disposizione degli ufficiali, i legami familiari di questi ultimi. Aveva sempre parlato con ogni tipo di persone. Sin dalla sua ascesa, e soprattutto da quando era diventato prefetto della città, aveva sempre pagato profumatamente per conoscere cose simili.

    Gallicano aveva accantonato i marinai con un gesto della mano, come se non avessero alcuna importanza. C’era qualcosa di vagamente scimmiesco in quel gesto.

    «Se decidessi di unirmi a te…». Pupieno aveva parlato adagio e con cautela; nonostante fossero al sicuro a casa, aveva provato una paura vertiginosa nel pronunciare quelle frasi. «…E se radunassi sotto un unico stendardo tutte le forze armate di Roma, comanderei circa sedicimila uomini. Dei quali, come dici tu, quasi la metà sono semplici pompieri. L’esercito imperiale conta circa quarantamila uomini, senza calcolare ulteriori unità che potrebbero arrivare dagli eserciti sul Reno e sul Danubio».

    Afferrandolo per un braccio, Gallicano aveva spinto la sua sgradevole faccia vicino a quella di Pupieno. «Mio caro amico». Gallicano gli aveva stretto il braccio. Il suo sguardo e la sua voce fervevano di sincerità. «Mio caro Pupieno, nessuno dubita del tuo impegno nei confronti della libertas, della tua devozione al senato e del tuo coraggio. Ma in una libera repubblica, non spetterà a noi assegnarci degli incarichi. Come ai tempi in cui Roma era grande, sarà il senato a votare chi guiderà i suoi eserciti».

    Gallicano aveva lasciato andare il braccio di Pupieno e si era messo a camminare avanti e indietro per la stanza. Cianciava di eleggere una commissione di venti uomini del senato, tutti ex consoli, per difendere l’Italia. Altri sarebbero stati inviati a persuadere le truppe e le province. Preso dall’entusiasmo, sobbalzava e dondolava le braccia come una scimmia forsennata in gabbia.

    Di rado Pupieno restava esterrefatto, ed era da molto tempo che non si arrabbiava tanto. Che razza di sciocco era Gallicano? Era venuto in casa sua mettendo in pericolo tutti quanti con i suoi discorsi di tradimento, e non l’aveva fatto nemmeno per offrirgli il trono, né per proporgli un ruolo di spicco nel nuovo regime. La scimmia pretendeva che s’impadronisse della città per la sua folle causa e poi, invece di raccoglierne i frutti, che cedesse la propria legittima autorità, tornando al livello di privato cittadino.

    «Questa storia finisce qui». Pupieno si era ripreso alla svelta.

    Gallicano si era girato all’improvviso, con gli occhi pieni di rabbia e sospetto.

    Pupieno gli aveva sorriso. Aveva sperato di sembrare rassicurante.

    «Tutti noi senatori vorremmo aver vissuto nella libera repubblica. Ma sai bene quanto me che il principato è una dura necessità. L’imperium si stava sgretolando sotto le guerre civili fino a che Augusto ha preso il trono».

    Gallicano aveva scosso la testa. «Possiamo imparare dalla storia».

    «No». Pupieno era stato irremovibile. «Accadrebbe lo stesso. Gli uomini al comando lotterebbero per il potere fino alla vittoria di uno o alla caduta dell’impero. Hai letto Tacito. Dobbiamo pregare di avere imperatori capaci, ma servire quelli che ci capiteranno».

    «Tacito ha servito sotto il tiranno Domiziano. Non era altro che un amante del quieto vivere, un lavativo. Era un uomo senza coraggio, un codardo». Gallicano aveva urlato le ultime parole.

    «Tu e io abbiamo entrambi ricoperto incarichi sotto Caracalla». Pupieno aveva assunto un tono ragionevole, per quanto possibile. «Desisti da questo complotto prima di portare al disastro la tua famiglia e i tuoi amici».

    Gallicano si torceva le mani, come se potesse fisicamente schiacciare l’opposizione del suo interlocutore. «Ti ritenevo un uomo d’onore».

    Razza di scimmione, aveva pensato Pupieno, stupido, arrogante, scimmione stoico. «Spero mi riterrai ancora tale, perché non parlerò mai a nessuno di questa conversazione».

    Gallicano se n’era andato.

    I toni melliflui del console riportarono Pupieno alla camera del senato.

    «…e che qualsiasi cosa ritenga essere utile alla consuetudine della Res Publica e alla grandezza del divino e dell’umano, pubbliche e private, abbia il diritto e il potere di intraprendere e di fare, proprio come è stato per il divo Augusto…».

    Le clausole alle quali era arrivato il console erano senz’altro superflue. Poiché Massimino era già stato investito dei poteri tribunizi, grazie ai quali era in diritto di fare e disfare tutte le leggi, era ovvio che avrebbe fatto tutto quello che riteneva conforme alla consuetudine della Res Publica, nonché qualsiasi altra cosa. Pupieno ascoltava distrattamente. Stava ancora osservando Gallicano che si atteggiava avvolto nei suoi stracci nella sala del senato. La sera prima aveva dimenticato che Gallicano aveva abbandonato le dottrine della Stoà in favore di quelle di Diogene. Non uno scimmione stoico, dunque. Bensì un cane cinico. Faceva poca differenza. Il senatore straccione continuava a essere uno sciocco pericoloso, reso ancora più pericoloso dalla sicurezza che

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