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Una brava moglie cinese
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E-book372 pagine5 ore

Una brava moglie cinese

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Info su questo ebook

“Posso rinunciare alle mie tradizioni ma non a mio figlio.”
Un’incredibile storia vera

Può un sogno trasformarsi nel peggiore degli incubi?

Susan, una timida ragazza americana affascinata dalla cultura cinese, ha iniziato da poco la scuola di specializzazione a Hong Kong, quando s’innamora di Cai e decide di sposarlo. Mentre si scambiano le promesse matrimoniali, Susan si sente come la protagonista di una favola esotica, ma ben presto dovrà rendersi conto che Cai, e la cultura alla quale appartiene, sono ben diversi da quello che immaginava. E così mentre Susan ce la mette tutta per diventare una moglie perfetta, proprio come vuole la tradizione cinese, Cai diventa un marito sempre più autoritario e violento. E la nascita del figlioletto non migliora la situazione a casa. Susan arriva fino a rinunciare ai suoi valori per proteggere il figlio Jake, ma quando Cai minaccia di portarglielo via, Susan deve trovare il coraggio di ribellarsi, per se stessa, per suo figlio e per il loro futuro. Ambientato tra la Cina rurale, le vivaci città di Hong Kong e San Francisco, Una brava moglie cinese è un racconto vivido, autentico e una testimonianza straordinaria di quanto sia inattaccabile l’amore che lega una madre al proprio figlio.

Un marito che sembra perfetto
Un matrimonio come l’aveva sognato
Cosa nascondono quelle pareti silenziose?

Tratto da un’incredibile storia vera

«Una giornalista americana racconta il suo matrimonio con un uomo cinese e come questa storia l’abbia cambiata completamente.»
Kirkus

«L’esperienza dell’autrice offre approfondimenti sui matrimoni interculturali tanto affascinanti quanto utili.»
Wall Street Journal

«Susan Blumberg-Kason è una narratrice magistrale, che sa trasformare i dettagli strazianti della sua esperienza in un racconto godibilissimo di un matrimonio finito male, ma la sua è soprattutto una storia universale che parla d’amore, di delusione e del coraggio che serve per andare avanti.»
Dana Sachs
Susan Blumberg-Kason
Vive a Chicago e lavora come giornalista freelance. Scrive per il «Chicago Sun Times», «TimeOut Chicago», il «Journal of American Dietetic Association» e la rivista «Parent Chicago». Una brava moglie cinese, suo romanzo di debutto, è stato accolto con grande favore da critica e lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788854194106
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    Anteprima del libro

    Una brava moglie cinese - Susan Blumberg

    Camminate senza voltarvi a guardare indietro,

    parlate senza scoprire i denti;

    siate contente senza ridere forte,

    arrabbiatevi senza alzare la voce.

    Precetti per le donne, Ban Zhao, la prima storica cinese (45-116 d.C.)

    img01.jpg

    Capitolo 1

    Un incontro casuale a Hong Kong

    L’Università cinese di Hong Kong si trova sul cucuzzolo di una montagna, a nord rispetto all’isola di Hong Kong e a circa venti minuti a sud dal confine con la Cina continentale. Quando ci arrivai la prima volta, nel 1990, mi ero immaginata Hong Kong come una città piena di grattacieli e luci al neon. Ma all’epoca, le uniche luci che si vedevano attorno al campus erano di qualche chiatta di passaggio o di altre sporadiche barche nel porto di Tolo, normalmente deserto e silenzioso. Durante il fine settimana l’università si svuotava, gli studenti locali tornavano a casa, mentre quelli stranieri se ne andavano a divertirsi a Kowloon o sull’isola vera e propria, dove c’era più movimento.

    Quando ci tornai qualche anno dopo, oltre il porto erano spuntati dei nuovi grattacieli e il campus cominciava ad assumere l’aspetto che mi ero immaginata un tempo. Il cambiamento più significativo, però, fu il gruppo di studenti arrivati dalla Cina continentale: erano circa duecento. Mi affascinava moltissimo la loro cultura, così misteriosa, profondamente diversa dalla mia.

    Avevo cominciato l’università da un mese, ed era un sabato sera tranquillo come tanti. Uscii dalla mia stanza per andare in corridoio a telefonare a un’amica. Il tempo di chiudere la porta, e mi resi conto di aver lasciato le chiavi sulla scrivania. La mia compagna di stanza, Na Wei, originaria di Harbin, nel nord della Cina, andava sempre a dormire dal suo ragazzo e rientrava in camera solo durante il giorno se le serviva un cambio d’abiti o per fare un riposino. Di sicuro, quindi, lei non mi sarebbe stata d’aiuto.

    Il custode alla reception doveva avere una chiave di riserva: mi sarei rivolta a lui.

    Arrivai giù in ascensore, ma trovai la sala d’ingresso vuota. Sul bancone c’era un biglietto scritto in cantonese, il dialetto locale. Io conoscevo solo il mandarino, la lingua ufficiale della Cina continentale, che avevo studiato per cinque anni, e riuscii quindi a intuire il senso generale del messaggio. Riconobbi quattro caratteri cinesi: se, bisogno, qualcosa, ritorno. C’era un altro carattere che proprio non riuscivo a decifrare. La traduzione mi venne fuori incompleta: In caso di bisogno, ritorno ???.

    Ed era proprio quella l’informazione fondamentale: sapere quando sarebbe tornato il custode. Il dizionarietto cinese-inglese, che di rado mi serviva quando ero in giro per Hong Kong, era chiuso nella mia stanza… non troppo lontano dalle chiavi.

    Decisi di mettermi a sedere lì, in attesa che entrasse qualcuno che potesse aiutarmi con la traduzione. Nel peggiore dei casi, ci sarei rimasta tutta la notte, fino all’arrivo del custode del turno di mattina.

    Per me sarebbe stato terribile: non ero mai stata una nottambula; anzi ero la classica studentessa che preferisce anticiparsi il lavoro piuttosto che fare nottata la sera prima dell’esame. In quel momento entrarono due uomini e una donna.

    Cai attirò subito la mia attenzione. Sembrava un attore: alto circa un metro e ottanta e con un bel sorriso contagioso e occhi penetranti. Portava i capelli secondo la moda dei giovani cinesi dei primi anni Novanta, un po’ più lunghi davanti e via via scalati fino al collo. Si muoveva come se fosse abituato ad attirare l’ammirazione di chi gli stava intorno: in effetti, era molto affascinante. Indossava un paio di pantaloni di velluto a coste, una camicia a maniche corte e un gilet multitasche. Non riuscii a capire subito di che nazionalità fosse. Dai modi sofisticati avrei detto che fosse di Taiwan, o magari un cinese proveniente dall’estero, magari dal Giappone.

    I suoi amici, invece, erano indubbiamente cinesi continentali: il ragazzo, che era piuttosto basso, indossava un completo verde oliva con la targhetta ancora attaccata, e la ragazza un abito sintetico a righe con sopra una blusa a fiori che non c’entrava niente.

    Quando ero stata in Cina nel 1988, con un gruppo di compagni della scuola superiore, avevo già avuto modo di apprezzare questo genere di stranezze. Fino agli anni Settanta in Cina si poteva scegliere solo tra completi alla contadina e uniformi di Mao. Solo dopo, pian piano, la gente ha cominciato a sperimentare nuovi colori e abbinamenti diversi, anche di dubbio gusto, come le righe assieme ai fiori per esempio. Ecco perché lo stile delle cinesi continentali era così riconoscibile nell’elegantissima Hong Kong.

    Nel frattempo, i tre erano già arrivati all’ascensore, e capii che dovevo agire in fretta perciò li raggiunsi di corsa. «Scusate, mi aiutate a decifrare questo biglietto?», chiesi in inglese rivolgendomi a Cai. Nessuna risposta. Forse parlano solo cantonese, ipotizzai. Determinata a non passare la nottata su quella panca, ripetei la domanda in mandarino, mentre una goccia di sudore mi colava lungo il collo.

    Cai guardò la scritta e senza scomporsi mi spiegò: «Ta jiù mashàng huílái» (Tornerà presto). Mi rispose in mandarino, fluente e pulito, senza il tipico accento del nord.

    «Oh, meno male. Sono rimasta chiusa fuori dalla mia stanza e mi serve la chiave», spiegai nel mio incerto mandarino a quel ragazzo bellissimo. Sollevata all’idea che presto me ne sarei potuta tornare in camera, lo guardai presa dal desiderio improvviso di sapere tutto di lui. Dovevo trovare il modo di prolungare quella conversazione.

    «Méi wèntí». Non ti preoccupare. Come se rimanere chiusi fuori dalla propria stanza fosse la cosa più normale del mondo. «Anche io devo aspettare il custode, mi serve una scheda telefonica». E così dicendo andò a sedersi. Che fortuna!

    Lo raggiunsi senza dire una parola e mantenendomi a una certa distanza. A dire il vero mi sarei seduta volentieri più vicino, ma sapevo per esperienza che in Cina le donne occidentali, americane incluse, sono considerate troppo esuberanti e disinibite.

    Normalmente non me ne sarebbe importato un granché: era solo uno stupido stereotipo. Considerato però che avevo già collezionato due storielle da quando ero arrivata al campus, mi sentivo un po’ a disagio e non volevo dargli l’impressione di essere una ragazza facile.

    Non era proprio da me. Al liceo non ero uscita mai con nessuno. Poi mi ero trasferita a Baltimora per frequentare il Goucher College, e anche là avevo combinato poco: dopo il primo appuntamento, di solito i ragazzi non mi richiamavano mai. Tanto meglio, comunque: il sentimento era reciproco perché io li trovavo noiosi e non avevamo alcun interesse in comune.

    Alla fine però, diciotto mesi prima di tornare a Hong Kong per frequentare l’università, mi ero messa in testa di volere una storia seria. Ero a Washington D.C. e studiavo mandarino all’università, mentre il pomeriggio lavoravo nella biblioteca universitaria. A lezione avevo conosciuto un ragazzo giapponese di nome Jin, che verso metà anno – che per lui sarebbe stato l’ultimo – mi aveva invitato a cena a casa sua. Non mi faceva impazzire, ma accettai comunque l’invito.

    La sera dell’appuntamento Jin venne a prendermi in biblioteca e andammo a piedi a casa sua passeggiando lungo un viale così pieno di foglie di ginkgo che sembrava avesse nevicato. Mentre mi preparava la cena – cibo cinese – tra un bicchiere di vino e l’altro parlammo di viaggi, arte e musica. Per la prima volta mi trovai a mio agio con un ragazzo della mia età. Lui non provò ad abbracciarmi né a baciarmi, e quando a fine serata me ne tornai a casa da sola in taxi, sperai invece che l’avesse fatto.

    Non volevo fargli capire che iniziavo a provare qualcosa di più, perché temevo di spaventarlo. Ero ancora inesperta sulle questioni di cuore, ma abbastanza impertinente da telefonargli quasi tutte le sere. Parlavamo per ore di identità, stereotipi, cinema, libri, viaggi e qualsiasi altra cosa gli passasse per la testa in quel momento. Io mi limitavo ad ascoltarlo. Tuttavia, non accennava mai al fatto di voler restare in contatto con me dopo la fine del semestre, quando se ne sarebbe andato da Washington, e io dovevo assolutamente scoprire quali fossero i suoi sentimenti.

    Verso metà dicembre, dopo la nostra ultima lezione di cinese, Jin mi riaccompagnò a piedi in biblioteca, come faceva sempre. Stavamo per attraversare Massachusetts Avenue quando lo afferrai per un braccio, con una certa foga. Lui si irrigidì e subito dopo si staccò da me e attraversò la strada di corsa. Io restai senza parole per la vergogna. Possibile che non avessi davvero capito niente?

    Eravamo dalle parti di DuPont Circle ed era pieno di studenti là intorno: li conoscevo perché frequentavano la biblioteca. Attraversai la strada anch’io, a testa bassa per evitare di incrociare lo sguardo di quegli studenti che avevano assistito a quella scena per me così umiliante.

    Il pomeriggio successivo Jin si presentò in biblioteca a studiare, e io cercai di restare tutto il tempo nascosta. Ma dato che c’era una sola uscita, una volta finito il turno fui costretta a passargli davanti per andarmene. Jin mi seguì in silenzio fino all’ascensore e iniziò a scusarsi con il classico ritornello, Non è colpa tua, sono io che sono fatto male. Continuava a ripetermi che mi avrebbe telefonato presto. Io non riuscii a far altro che scuotere la testa e me ne andai senza una parola.

    Dopo qualche giorno, quando mi sentii pronta a parlarne, lo chiamai. Mi spiegò che le cose tra di noi non avrebbero mai potuto funzionare, e io mi vergognai talmente tanto che non ebbi il coraggio di chiedergli cosa intendesse di preciso. Però continuai a rimuginarci su. Cosa avevo che non andava? Ero troppo semplice per la sua famiglia borghese? O forse dipendeva dal fatto che non fossi giapponese? Oppure non gli piacevo e basta?

    Dopo la sua partenza continuammo a sentirci per telefono, ogni tanto. Nonostante fossi ancora ferita, pensavo che non ci fosse niente di male a rimanere in contatto con lui. Ma non mi ci volle molto per accorgermi che l’autostima mi era finita sotto i piedi, e così capii che sarebbe stato meglio darci un taglio e mi ripromisi di non cacciarmi mai più in una situazione simile.

    Mi era sempre rimasta la voglia di tornare a Hong Kong, e fu proprio dopo questa cocente delusione che decisi di lasciare gli Stati Uniti e trasferirmi lì. A Hong Kong mi sentivo a mio agio: amavo quel posto e ne conoscevo la cultura.

    Certo, magari all’epoca non l’avrei mai ammesso, nemmeno con me stessa, ma avevo anche bisogno di conferme: volevo sentirmi attraente e desiderabile. Per questo finii per avere ben due storie, una dopo l’altra, con i primi due ragazzi che incontrai al campus. Il primo, Guo, era un dottorando cinese, che aveva chiarito sin da subito di non volere una relazione seria, ma era curioso di stare con una ragazza occidentale.

    Che male c’era, in fondo, a provare la sua stessa curiosità? Prima di Guo, non ero mai stata così intima con nessuno. Lui era uno di quei pochi fortunati studenti nel campus ad avere una stanza singola e quindi non ci mancava la privacy. All’inizio si era dimostrato molto aperto, affascinante, mi parlava di quello che faceva in Cina. «Sono un poeta, scrivo testi teatrali», mi raccontava mentre io lo ascoltavo seduta sulle sue ginocchia.

    Ma quando la nostra relazione smise di essere platonica, d’improvviso diventò impaziente quando ci vedevamo, come se non vedesse l’ora che me ne andassi. La mia autostima stava di nuovo precipitando, come mi era successo a Washington con Jin. E quando la settimana seguente Guo venne a cercarmi, gli dissi che tra di noi era finita, perché ero in cerca di una storia più seria. Da quel giorno quando ci capitava di incontrarci in giro ci salutavamo con un cenno, come due conoscenti.

    La seconda avventura fu con Yeung, un cantonese del posto che lavorava come bagnino nella piscina universitaria dove andavo a nuotare quasi ogni mattina. Una settimana dopo la fine della mia storia con Guo, Yeung si chinò sul bordo della piscina e mi fece segno di fermarmi. Portava un paio di occhiali a specchio, aveva dei bei capelli lisci e setosi ed era persino abbronzato. Così, quando mi invitò a uscire a cena con lui quella sera, accettai.

    Quello dello spazio è tuttora un grosso problema a Hong Kong. Yeung, come molti suoi coetanei non sposati, viveva ancora a casa dei genitori. Si vergognava troppo a dire a sua madre che usciva con una straniera, quindi nelle settimane successive ci incontrammo solo quando lui riusciva a liberarsi degli impegni di famiglia con una scusa. Mi portò in montagna nei Nuovi Territori, e a passeggiare mano nella mano per i parchi solitari lì intorno.

    Yeung aveva le chiavi del capanno dietro la piscina, ed era lì che ci incontravamo di nascosto la sera, dopo che sua madre era andata a dormire. Restavamo nascosti là dentro fino alle sei del mattino, prima che il campus riprendesse vita, in modo da poter rientrare ciascuno a casa propria senza dare troppo nell’occhio.

    Fu durante quelle notti nel capanno con Yeung che imparai tutto il mio cantonese. Be’, a dire il vero appresi pochissimo: nessuno dei due parlava la lingua dell’altro, e comunicavamo in un misto di mandarino, cantonese e inglese. Dopo qualche settimana fui presa dal panico: Yeung mi piaceva, ma non ero innamorata di lui. E a dirla tutta, non riuscivo proprio a immaginare di presentarlo ai miei genitori. Erano piuttosto aperti, ma ero sicura che si sarebbero angosciati per le nostre evidenti differenze culturali.

    Ero alle prime armi in amore, e non sapevo bene come chiudere la nostra relazione, ma non volevo ferirlo come aveva fatto Jin con me. Cominciai a inventarmi consegne ed esami, e quando conobbi Cai era già da un po’ che avevo smesso di frequentare Yeung.

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    Tenendo bene in mente le mie esperienze cinesi, mi ripetei che non dovevo assolutamente dargli l’impressione di essere una ragazza facile. Quindi approfittai di un momento in cui Cai non mi stava guardando per osservarlo di sottecchi. Non riuscii a capire quanti anni avesse, ma dalle piccole rughe attorno agli occhi intuii che doveva essere più grande dei miei ventiquattro anni. Nonostante facesse un caldo bestiale, lui non sudava e non aveva un solo capello fuori posto.

    Io avevo lunghi capelli ricci, che mi erano valsi sempre parecchie prese in giro quando andavo a scuola a Evanston, in Illinois. E con l’umidità era impossibile tenerli in ordine, nemmeno con un elastico: diventavano elettrici e ingovernabili. Mi asciugai il sudore dalla fronte: stavo morendo dalla voglia di farmi una doccia, persino nel mio bagnetto ammuffito del campus.

    Mentre aspettavamo là in silenzio, mi domandai a chi dovesse telefonare a quell’ora. Forse a qualcuno che viveva all’estero, dove il sole non era ancora tramontato? O magari, come tanti altri studenti, aveva una moglie lontana. Volevo essere il più possibile naturale con lui, e mentre cercavo un argomento plausibile per iniziare una conversazione mi concentrai su una lunga fila di formiche che marciava sul pavimento. Proprio in quel momento fui distratta da un rumore di passi: era arrivato il custode.

    Cai e io ci alzammo per seguirlo al bancone. Mi consegnò la chiave di riserva, e io lo ringraziai in cantonese (una delle poche cose che ero in grado di dire in quella lingua). Cai invece non fu altrettanto fortunato: niente schede telefoniche.

    Non sapevo niente di lui, eppure l’idea di vederlo allontanarsi senza esserci nemmeno presentati, senza poterlo salutare dicendogli Ci vediamo presto, mi faceva star male. A quel punto pensai che potevo prestargli la mia scheda telefonica.

    Mi sorrise scuotendo la testa. «Non preoccuparti, posso telefonare anche domani».

    «Davvero, non c’è problema». In realtà era rischioso fidarsi così di uno sconosciuto e prestargli quella che era una carta di credito a tutti gli effetti. In America non avrei mai fatto nulla di simile, ma in quel momento provavo il fortissimo desiderio di entrare in confidenza con lui, di creare un rapporto, di qualsiasi tipo, anche solo di buon vicinato considerato che, evidentemente, anche lui abitava nel mio stesso edificio, nel campus. E poi dal mio estratto conto telefonico avrei potuto scoprire chi avesse chiamato, se avesse una moglie o una fidanzata.

    «Ne sei sicura?».

    Io annuii, decisa, e lui allungò la mano verso il portafoglio, per pagarmi.

    «Non ti preoccupare, me li darai quando mandano il conto», gli spiegai.

    Mentre aspettavamo l’ascensore, mi allungò il suo biglietto da visita. Ero raggiante. La scritta in viola e oro diceva Cai Jun, dottorando, Dipartimento di musica. Cai era il cognome, Jun il nome: in Cina i cognomi precedono sempre il nome.

    «Ni cóng nali lái de?». Non sapevo ancora niente di lui, tanto meno da dove venisse. Così glielo domandai.

    «Zhongguó, Wuhàn», rispose.

    Quindi era cinese. Ne fui sorpresa, perché non era affatto così che mi immaginavo un ragazzo proveniente da Wuhan, una città industriale al centro del Paese, una specie di Chicago cinese. Anch’io venivo dal bel mezzo del mio Paese, dal Midwest americano. E così, mentre continuavamo a chiacchierare, mi chiesi se non fosse stato quello che i cinesi chiamano yuánfèn a farci incontrare: il destino.

    Una volta giunta al mio piano, dal telefono in corridoio chiamai subito la mia amica Janice. Avevamo legato molto dopo che Jin se n’era andato da Washington: non avevo molte altre amiche lì, a parte le colleghe della biblioteca. Io e Janice ci eravamo subito trovate in sintonia perché entrambe sognavamo di trasferirci a Hong Kong. Poco prima che io cominciassi l’università, Janice era andata a vivere a casa dei suoi parenti: un sesto piano senza ascensore nella trafficatissima Kowloon, e aveva ottenuto un visto di lavoro tramite l’azienda tessile di suo zio.

    «Susan, tu sei matta. Non lo conosci nemmeno! Passerà il tuo codice di accesso a mezza Cina! Lo sai cosa mi dicono sempre i miei: di non passare mai il confine se prima non mi sono tolta gli orecchini e la collanina. I cinesi rubano e si attaccano a tutto».

    Riuscivo quasi a immaginarmela mentre dava un tiro alla sigaretta cercando un po’ di fresco davanti al ventilatore nel salottino mezzo vuoto e oscurato da pesanti tende originali degli anni Sessanta. Mi passai il telefono da un orecchio all’altro, cercando di liberarmi dai suoi rimproveri. I suoi genitori erano emigrati da Taiwan e solo sentir parlare di cinesi li terrorizzava. Tutto qui.

    In quel momento si aprirono le porte dell’ascensore. Era Cai.

    «Puoi aspettare un minuto? È lui», sibilai. Mi sentii avvampare le guance mentre allontanavo la cornetta dall’orecchio.

    Cai mi allungò la scheda telefonica: si era cambiato e calzava un paio di ciabatte di plastica. «Non sono riuscito a usarla. Il mio inglese non è abbastanza buono».

    «Quegli operatori telefonici non li capisco neanche io», osservai in tono allegro. Restai al telefono con Janice, in modo da non sembrare troppo ansiosa di parlare con lui. Ero certa che ci saremmo incontrati di nuovo: saremmo persino potuti diventare amici ora che avevamo rotto il ghiaccio. Cai tornò verso l’ascensore, salutandomi con la mano.

    «Non è riuscito a usare la carta perché non capiva bene l’inglese», riferii a Janice.

    «Ho sentito. Ma sono ancora convinta che non avresti dovuto dargliela».

    «Mi sembra una persona perbene».

    «Non lo conosci».

    Capitolo 2

    Un’introduzione alla cultura cinese

    Due settimane dopo il mio incontro con Cai notai un volantino all’ingresso del dormitorio in cui si annunciava una festa per il sabato successivo. «Siete tutti benvenuti», c’era scritto in inglese. Cai non l’avevo più visto, ma di sera ero stata quasi sempre fuori con Janice, a cena o a ballare a Wam Chai, il decadente quartiere dei locali famoso grazie a Il Mondo di Suzie Wong.

    A volte andavamo anche al cinema lì vicino, a Sha Tin, o in centro a Hong Kong. Non ero mai uscita così spesso mentre frequentavo il liceo o il college, e sapevo che sarebbe stato meglio se fossi rimasta in camera a studiare. Ma le tentazioni della vita fuori dal campus erano troppo forti.

    Alla mensa universitaria, a pranzo, sentii alcuni studenti stranieri che parlavano di quella festa. Molti erano stati oltre confine e avevano visto che in quel periodo nella Cina continentale impazzavano le feste. Ero stata anch’io a una festa al College di Nanchino quando ero stata in Cina con la scuola nel 1988. C’erano uomini che ballavano con uomini, donne con donne e uomini con donne; le musiche ritmate e la miriade di ballerini in pista mi ricordarono un carosello accelerato.

    Ricordo che ogni minuto c’era un ragazzo diverso che mi invitava a ballare. Durante quel viaggio scoprii che potevo essere popolare in modi che in America non avrei mai nemmeno immaginato. La Cina, quindi, mi sembrò un luogo in cui poter essere me stessa, libera dalle inibizioni; un luogo in cui le persone non avrebbero mai saputo che ero stata tanto timida per tutta la vita.

    Così, quando quegli studenti chiesero chi avesse intenzione di partecipare alla festa, alzai subito la mano. Pensavo spesso a Cai, e sperai di incontrarlo lì.

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    Il sabato sera arrivai alla festa che le luci erano già soffuse e dalle casse pompava una versione di Greensleeves suonata al sintetizzatore. C’erano già alcuni dei ragazzi stranieri con cui avevo parlato a pranzo e qualche studente cinese che avevo incrociato nel campus.

    Di Guo, grazie al cielo, nessuna traccia: incontrarlo non mi avrebbe infastidito al punto da volermene andare, ma avrei preferito evitare.

    Cai non c’era.

    Si ballavano il valzer e il fox trot, esattamente come alla festa di Nanchino. Stavo per raggiungere i miei amici quando uno studente cinese allungò una mano per invitarmi a ballare. Mi guardai un attimo alle spalle per essere sicura che non avesse invitato qualcun altro e poi accettai con un sorriso. Cercai di stargli dietro in pista, ed ero sicura che nessun altro mi avrebbe invitato a ballare dopo aver visto come mi muovevo: ero così goffa. Per fortuna, Cai non c’era.

    Dopo Greensleeves, incredibile ma vero, mi invitò a ballare anche uno studente di ingegneria, un tipo bassino che mi sorrise sfoggiando una fila di denti minuscoli. Il pezzo aveva lo stesso ritmo di una parata militare, e a me balenò subito in mente l’immagine dei soldati in marcia tra i carrarmati su un ampio viale di Pechino, con tante bandiere rosse che sventolavano. Mi vennero i brividi, e di nuovo feci del mio meglio per tenere il passo.

    Quando partì il pezzo Tie a Yellow Ribbon Round the Ole Oak Tree arrivò Cai, in compagnia degli stessi amici che avevo visto la sera in cui ci eravamo conosciuti. Il mio compagno mi stava guidando in un valzer e io cercavo di fare del mio meglio affinché i miei stupidi piedi non si incrociassero e cozzassero contro i suoi, ben più abili e aggraziati. Finita quella canzone vidi Cai che si stava avvicinando. Ero paonazza per la vergogna: ero sicura che volesse prendermi in giro per come mi aveva visto ballare.

    E invece allungò una mano verso di me per invitarmi. «Sei rimasta ancora chiusa fuori dalla tua stanza?».

    Ridacchiai come una ragazzina e accettai l’invito, posandogli una mano sulla spalla. Era decisamente più alto di me e, a differenza dei miei due precedenti cavalieri, mi teneva ben stretta.

    «Mi dispiace, sono una pessima ballerina», gli gridai all’orecchio per essere sicura che mi sentisse. Adesso stavamo ballando sulle note di Tian Mi Mi, dalla colonna sonora de L’anno del dragone. Cai sorrise e scosse la testa, come se volesse contraddire la sciocchezza che gli avevo appena detto. Ballammo volteggiando intorno alla stanza: all’improvviso, mi sembrò che gli altri invitati fossero tutti scomparsi. Quando il pezzo finì, Cai mi chiese se potevo concedergli anche il ballo successivo. Non può essere vero, pensai.

    Da un lato della sala si udiva una romantica ballata di Honk Kong, mentre dall’altro giungeva un gracchiante karaoke. Ballammo in silenzio. Dai pochi sguardi fugaci avevo notato che stava sorridendo: i capelli gli ricadevano scompigliati sulla fronte, come se si fosse appena svegliato. Gli occhi, malgrado le luci soffuse, erano luminosi.

    Nessuna stretta di mano o altri segnali che mi facessero capire che era interessato a me… in quel senso. Eppure ballare con lui era diverso: di colpo, mi sentii bravissima, persino aggraziata. Forse era per via della sua altezza, o magari perché ci eravamo già conosciuti e avevamo un po’ di confidenza: qualunque fosse la ragione, tra le sue braccia mi sentivo a mio agio. Come se Cai avesse il potere di scacciare tutte le inibizioni e le umiliazioni che avevo subito in passato. Non mi sentivo così da quella sera lontana in cui Jin mi aveva invitato a cena a casa sua. Se avessi avuto anche solo una possibilità di stare con Cai, giurai a me stessa che non gli avrei mai e poi mai permesso di ferirmi come aveva fatto Jin.

    Quando la musica finì, Cai abbassò lo sguardo e annunciò: «Devo tornare dai miei amici».

    «Sì, certo». Avrei preferito continuare a ballare, ma apprezzai la sua correttezza nei confronti delle persone con cui era venuto alla festa. Teneva agli altri e non metteva sempre e solo se stesso in primo piano, pensai. E poi mi aveva invitato a ballare due volte di fila: ero emozionatissima.

    Ebbi appena il tempo di scambiare due parole con la mia amica Cee Cee prima che un altro studente mi invitasse a ballare. Ogni volta che tornavo in pista con qualcun altro, inevitabilmente guardavo in direzione di Cai. Poco più tardi mi raggiunse: ero sicura che mi avrebbe di nuovo chiesto di ballare. Senza dirmi una parola, mi posò una mano sulla spalla e mi guidò al centro della pista, al ritmo di un famoso pezzo della rivoluzione cinese, una feroce critica agli Stati Uniti per la guerra di Corea. Era l’ultimo pezzo. In fondo al cuore, mi aspettavo che rimanesse a fare due chiacchiere con me invece, dopo avermi augurato in fretta la buonanotte, se ne andò con i suoi amici.

    Ero troppo felice per il nostro ultimo ballo perché il suo saluto frettoloso mi potesse deludere. M’incamminai verso il campus, assieme a Cee Cee e altri studenti: mi sentivo su una nuvoletta. Stare accanto a Cai era stato semplicemente magico e non vedevo l’ora di incontrarlo.

    Capitolo 3

    In una favola cinese

    L’avevo già incontrato due volte, ma sempre per caso,

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