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L Europa secondo Jeff (eLit): eLit
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E-book299 pagine4 ore

L Europa secondo Jeff (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Jefferson Blythe si perde, si ritrova, si innamora e fa outing, il tutto in una sola, indimenticabile estate. Per ritrovare se stesso, dopo una delusione d'amore, Jefferson Blythe decide di usare i suoi risparmi per un viaggio in Europa. Con la sola compagnia di un cappello di paglia, dei racconti del nonno che visitò gli stessi luoghi negli anni Sessanta e di una copia di una vecchia guida dal nome evocativo, Esquire's Europe in Style, sbarca a Londra. E qui, tra una passeggiata nel quartiere di Soho e una visita alla National Gallery, inizia a capire che quella appena iniziata non sarà una semplice vacanza, ma una avventura all'ultimo respiro, che lo porterà a riconsiderare la sua vita, le sue amicizie e soprattutto le sue convinzioni sull'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2016
ISBN9788858955291
L Europa secondo Jeff (eLit): eLit
Autore

Josh Lanyon

Author of nearly ninety titles of classic Male/Male fiction featuring twisty mystery, kickass adventure, and unapologetic man-on-man romance, JOSH LANYON’S work has been translated into eleven languages. Her FBI thriller Fair Game was the first Male/Male title to be published by Harlequin Mondadori, then the largest romance publisher in Italy. Stranger on the Shore (Harper Collins Italia) was the first M/M title to be published in print. In 2016 Fatal Shadows placed #5 in Japan’s annual Boy Love novel list (the first and only title by a foreign author to place on the list). The Adrien English series was awarded the All-Time Favorite Couple by the Goodreads M/M Romance Group. In 2019, Fatal Shadows became the first LGBTQ mobile game created by Moments: Choose Your Story.She is an EPIC Award winner, a four-time Lambda Literary Award finalist (twice for Gay Mystery), an Edgar nominee, and the first ever recipient of the Goodreads All-Time Favorite M/M Author award.Find other Josh Lanyon titles at www.joshlanyon.comFollow Josh on Twitter, Facebook, and Goodreads.

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    Anteprima del libro

    L Europa secondo Jeff (eLit) - Josh Lanyon

    Ai miei ragazzi: Sean, Faith, Emily e William.

    Per quanto lontani voi siate,

    sappiate che qui troverete sempre

    un porto sicuro.

    Ed eccoli di nuovo, l'euforia e l'entusiasmo che precedono una nuova partenza. E stavolta l'eccitazione è speciale, perché questo sarà un viaggio speciale, ma d'altronde è così per ogni viaggio all'estero.

    Esquire's Europe in Style, 1960

    1

    «Questo sì che è un travestimento eccellente

    Abbassai lo sguardo e incontrai i brillanti occhi azzurri di una ragazza. Aveva più o meno la mia età, o forse era un po' più grande. Ventitré? Ventiquattro anni? Un cespuglio di capelli biondo platino, un naso importante, troppo pronunciato per il suo viso sottile, una grande bocca tinta di arancio.

    Sorrisi. Non avevo idea di cosa stesse parlando, ma qualcosa di lei mi ricordava Amy, be', se Amy non fosse stata... Amy.

    No, ero ingiusto, perché Amy era molto carina e quella ragazza non lo era, anche se in lei c'era qualcosa... Il suo sguardo era pieno di aspettativa, il che era strano, perché le ragazze come lei, in genere, non si aspettavano molto dai ragazzi – dagli uomini – come me.

    Non che mi stessi lamentando.

    A ogni modo, eravamo nel bel mezzo dell'aeroporto di Heathrow, e io stavo ancora tentando di rendermi conto di dove fossi. Voglio dire, ovviamente sapevo di essere a Londra, in Inghilterra. Eppure era come se fossi sbarcato in un mondo del tutto nuovo. Su un altro pianeta. Un pianeta davvero molto caotico. I cui abitanti non parlavano la mia lingua. Questo perché in Inghilterra la gente non parla davvero inglese. O almeno, non lo stesso in inglese che parliamo noi americani.

    Certo, bisogna ammettere che nessun essere umano è mai stato in grado di decifrare le comunicazioni fatte attraverso gli altoparlanti degli aeroporti.

    «Un papillon sarebbe stato persino meglio» aggiunse la ragazza. Aveva un sorriso scaltro, malizioso. «Trovo che un papillon ti donerebbe molto.»

    Okay, adesso ero certo che mi stesse prendendo in giro. Per mostrarle che sapevo stare allo scherzo, accennai un altro sorriso, tirai giù la tesa del cappello – la cui presenza cominciava già a causarmi un certo disagio, perché in fondo non ero un tipo da cappello – e iniziai a camminare. Lei mi seguì.

    La gente ci passava accanto in un frenetico viavai, trascinandosi dietro chitarre e zaini e spingendo carrelli per bagagli e passeggini. Heathrow è uno degli aeroporti più frequentati del mondo.

    «Dove andiamo?» domandò la bionda.

    «Sto improvvisando» risposi. In realtà, avevo una lista di cose da vedere. Una lista parziale che includeva in ordine sparso:

    British Museum

    Soho

    Victoria and Albert Museum

    Ministry of Sound

    Claridge's

    Savoy

    London Eye

    La torre di Londra

    Il Globe

    Visto che mi sarei trattenuto in Inghilterra solo per quattro giorni, sapevo già che non sarei riuscito a vedere tutto. Ma andava bene lo stesso. L'idea era di esplorare, scoprire nuove cose, ampliare i miei orizzonti. E allontanarmi da casa il più possibile.

    La ragazza mi mise una mano sul braccio. «Credo sarebbe il caso di andare in un posto tranquillo. No?»

    Mi fermai. La guardai esterrefatto.

    No, non poteva essere. Certo, il suo trucco era un po' eccessivo, e il suo corpetto di pizzo abbastanza trasparente, ma no. Non era una prostituta. Solo un tipo insistente.

    «A dire il vero, dovrei incontrare delle persone» dissi in tono di scuse, anche se non sapevo bene per cosa mi stessi scusando.

    Lei proruppe in una fragorosa risata. «Lo credo bene!»

    La situazione cominciava a farsi strana. Ehm, ancora più strana. «Scusa, ci conosciamo?» chiesi.

    Lei aggrottò le sopracciglia. «A che gioco...»

    Non riuscii a sentire il resto della frase perché, sopra di noi, un'indistinta voce femminile fornì qualche informazione di vitale importanza che nessuno riuscì a capire.

    In compenso, l'espressione della mia nuova amica era inequivocabile.

    Dapprima si mostrò turbata, poi l'agitazione cedette il posto alla rabbia. «... la valigia, porti il cappello» disse proprio nell'istante in cui la voce sopra le nostre teste si interruppe. «Se hai intenzione di...»

    Un altro annuncio. Questa volta la voce era maschile, ma il contenuto risultò comunque incomprensibile.

    Pensai che svignarmela sarebbe stata un'ottima idea, così sorrisi, feci un cenno del capo e mi allontanai. Stringendo forte la mia valigia, ripresi la mia ricerca della metropolitana.

    Stando al sito dell'aeroporto, la Piccadilly Line era la via più breve ed economica per spostarsi da Heathrow al centro città, ovvero alla stazione di... Central London? Il tragitto sarebbe dovuto durare meno di un'ora, con treni che partivano ogni dieci minuti anche in bassa stagione. E luglio non era bassa stagione. Secondo la leggenda – e il sito Web – c'erano tre stazioni della metropolitana all'interno dell'aeroporto, ma ci misi un secolo a trovarne una, perché continuavo a guardarmi alle spalle in cerca della ragazza che mi ricordava – ma che decisamente non era – Amy.

    Una o due volte mi sembrò di scorgerla a qualche metro da me, la chioma simile a un cumulonembo e un'espressione vigile e determinata sul viso. E ogni volta la persi tra la folla.

    Sempre ammesso che mi stesse seguendo e che non avesse già avvicinato un altro turista straniero.

    Alla fine, trovai una stazione, salii sul treno poco prima che le porte si richiudessero con un sibilo, e barcollando mi diressi verso il primo posto libero. Mi sedetti con un sospiro e mi asciugai la fronte, facendo cadere il cappello che mi era valso tutte quelle attenzioni indesiderate. Mi guardai intorno inquieto, ma nessuno sembrava avermi seguito. La gente aveva tirato fuori cartine, brochure, dispositivi elettronici e roba da mangiare. Nessuno mi stava prestando il benché minimo interesse.

    Raccolsi il mio cappello, spazzai via qualche immaginario granello di polvere e lo poggiai sul sedile accanto al mio.

    Era un normale cappello. Un fedora di paglia della marca Peter Grimm. Il genere d'accessorio utilizzato da molti ragazzi. Forse non da ragazzi come me. O come il vecchio me. Perché adesso volevo essere il genere di ragazzo che indossava un cappello se ne aveva voglia. E c'era forse un luogo migliore per sperimentare un nuovo look se non un altro continente, dove non avresti dovuto rendere conto a nessuno se la prova si fosse rivelata fallimentare?

    E poi c'era stato quel velato riferimento alla mia valigia. Che aveva di così strano? Le lanciai uno sguardo. Era vecchia, vissuta, il che era proprio quello che mi piaceva. Era appartenuta a mio nonno. Come il Libro, dal titolo Esquire's Europe in Style, quella valigia di tweed a righe lo aveva accompagnato durante il suo viaggio in Europa negli anni Sessanta. Certo, cominciava a mostrare i primi segni di cedimento, ancor più dopo aver attraversato l'Atlantico ed essere stata caricata su un paio di nastri trasportatori... In effetti, pensandoci bene, non era stata una scelta molto oculata.

    Soprattutto se avesse continuato a suscitare strane reazioni da parte di ragazze inglesi fuori di testa.

    Mi guardai di nuovo intorno con circospezione.

    Niente.

    Rilassati. Forse il mio viaggio non aveva avuto il migliore degli esordi, ma ormai era acqua passata.

    E, a proposito del passato...

    Frugai nel mio zaino, valutando l'idea di tirare fuori la macchina fotografica, salvo poi accantonarla perché non volevo avere la tipica aria da turista, e infine trovai rifugio nelle pagine di Europe in Style.

    Quel libro era stato una sorta di talismano per mio nonno quando, cinquant'anni prima, era partito per il suo personale Grand Tour. Dopo quello che era accaduto con Amy, era stato proprio lui a suggerirmi di andare all'estero per un paio di settimane. Diceva che il viaggio in Europa aveva rappresentato un punto di svolta nella sua vita, e non c'era dubbio che in quel momento io mi trovassi a un bivio.

    Osservai la copertina sciupata del volume, sulla quale spiccavano delle audaci vignette viola, e lo aprii alla pagina su cui avevo lasciato il segno.

    Per godere appieno dell'Inghilterra, occorre far parte di quel gruppo di persone che prediligono il silenzio e la quiete al rumore e alla frenesia, e che si sentono più a proprio agio col cuoio vecchio, il legno laccato e l'ottone lucido che con la plastica e le cromature. Aiuta una certa idiosincrasia nei confronti dei colori accesi, delle conversazioni ad alta voce, e in generale di qualunque attività che costituisca una fonte di stress...

    Il programma prevedeva che andassi a stare da zia Pat e zio Mike a Maida Vale. Lo zio Mike era inglese e si occupava di import-export, che inizialmente avevo pensato fosse un modo discreto per dire che era coinvolto in attività di spionaggio – o in qualcosa di peggio –, ma la banale verità era che i miei zii collezionavano una quantità imbarazzante di ceramiche e tessuti tessili provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.

    Al momento, si trovavano negli Stati Uniti, quindi avrei avuto la casa tutta per me, una cosa fantastica. E questo senza considerare la piscina al coperto, la palestra privata e la sala giochi.

    Un po' meno fantastico fu arrivare a destinazione. Occorsero più di un'ora e tre cambi – quattro, tenendo conto della volta in cui avevo sbagliato treno –, ma alla fine mi trovai sui gradini d'ingresso di una palazzina di mattoni rossi a due piani che sorgeva su un'ampia strada ombreggiata. L'edificio, l'intero isolato sembravano usciti dalle pagine di Mary Poppins. Le porte e le cornici delle finestre erano dipinte di un bianco brillante. Non c'era un giardino di fronte alla casa, ma la costruzione era circondata da un sentiero di ciottoli e da cespugli di rose gialle. Una vite rossa si arrampicava artisticamente intorno alla porta principale coi suoi pannelli di vetro smerigliato.

    Era perfetta. Assolutamente perfetta. Quasi fosse saltata fuori da Europe in Style. Per la prima volta da quando ero partito, cominciai a sentirmi davvero in vacanza e non come se stessi facendo nove giorni di pellegrinaggio, preghiera e penitenza.

    L'unica nota stonata era la musica a tutto volume che giungeva dal secondo piano. Of All the Gin Joints in All the World dei Fall Out Boy suonava terribilmente fuori posto in quel contesto.

    Che il maggiordomo si stesse godendo qualche momento di pace e-non-tanta-tranquillità? A dirla tutta, non ero nemmeno troppo sicuro che zia Pat e zio Mike ce lo avessero un maggiordomo...

    Decisi di non usare le mie chiavi e di suonare alla porta.

    Ci vollero parecchi trilli e un'altra canzone dei Fall Out Boy prima di ottenere qualche riscontro. In realtà, fui costretto ad attaccarmi al campanello prima d'intravedere una pallida ombra al di là del vetro opaco.

    La porta si aprì di colpo rivelando un ragazzo muscoloso con addosso soltanto un paio di pantaloni da ginnastica grigi. Era più grande di me. Restammo a fissarci a vicenda per qualche istante.

    Occhi verdi, testa rasata, un paio di orecchini e un nuovo tatuaggio che ritraeva una sirena strabica. Mio cugino Robbie.

    Mio cugino Robbie che avrebbe dovuto essere... ovunque fuorché lì.

    Grandioso. E io che pensavo che quello fosse un quartiere di gente rispettabile. «Ehi!» esordii, sforzandomi di sembrare felice di vederlo.

    Quando finalmente mi riconobbe a sua volta, notai la sua espressione mutare da fastidio a preoccupazione. «No» disse. «No, no, no. Non puoi essere qui.»

    «Come? Ma sono qui.»

    «Devi andartene.»

    «I tuoi genitori hanno detto che...»

    Robbie si protese in avanti e sibilò: «Non m'importa di cosa hanno detto i miei genitori, devi levare le tende. Ora».

    «Ma devo fermarmi qui. È tutto organizzato» bofonchiai.

    «C'è Serena» replicò lui, come se la cosa chiudesse la questione.

    «Oh, fantastico» replicai. Quale delle tante era Serena? Le ragazze di mio cugino tendevano ad avvicendarsi tra loro in modo del tutto casuale.

    «Stiamo per tornare insieme. Credo. Quindi non puoi stare qui, Jeff. Vattene. Adesso.» Robbie fece per chiudere la porta.

    Dopo un attimo di smarrimento, allungai una mano per arrestare quel movimento lento ma inesorabile. «Aspetta. Robbie, aspetta un secondo. Quando posso tornare?»

    «Non lo so!» Da dentro l'appartamento giunse un mormorio interrogativo, e mio cugino mi rivolse un'occhiataccia, spingendo la porta con più decisione.

    Io feci altrettanto. Per essere precisi, accostai la spalla alla lucida superficie di vetro e opposi resistenza, ma i miei sforzi furono vani. Robbie giocava nella squadra di rugby della George Washington University. Io facevo atletica leggera alla Georgetown. I corridori non smuovono montagne, le aggirano.

    «Non oggi» sibilò lui. «Non stanotte. Ti farò sapere io quando puoi tornare.»

    «Ma dove dovrei andare nel frattempo?»

    «Dove ti pare. In albergo. L'importante è che te ne vai.» Diede un'ultima, vigorosa spinta, e la porta ritornò nella sua sede con un colpo dal suono definitivo.

    Vidi l'impronta del mio palmo sudato sul vetro.

    Rimasi fermo sul sentiero di ciottoli, fissando incredulo la casa di mattoni rossi.

    Che cazzo...?

    E ora? Che accidenti avrei dovuto fare a quel punto?

    Misi una mano in tasca per tirare fuori il telefono e chiamare zia Pat, ma mi fermai. Sarebbe stato un po' come pestare il piede per terra chiamando la mamma.

    Pensandoci bene, forse avrei dovuto chiedere a mia madre di chiamare zia Pa... No. Avevo ventidue anni, non dodici.

    Lanciai uno sguardo all'ampia strada alberata. Se Serena avesse avuto un briciolo di cervello, se la sarebbe filata entro l'ora del tè. Forse dovevo solo sedermi lì ad aspettare. Trovare un posto tranquillo sotto un albero e controllare le mie e-mail per una o due ore. Caricare qualche foto su Instagram, magari?

    O anche no.

    Perché non ci andava quello stronzo di Robbie in un cazzo di hotel?

    Be', sì, quella era casa sua, in fondo... ma ciò non toglieva che lui fosse uno stronzo.

    Provai a riflettere. Ma il mio cervello era come ottenebrato. Probabilmente perché non ero riuscito a dormire in aereo.

    Ero in cerca di avventure e novità, certo. Ma volevo anche un posto pulito e sicuro in cui passare la notte. Senza contare che non avevo previsto di dover spendere dei soldi per l'alloggio mentre ero in Inghilterra.

    Mi sembrava di aver già avuto la mia bella razione di sfortuna. Prima quella strana ragazza mi aveva preso in giro per il cappello. Poi Robbie mi aveva messo alla porta.

    Il sole di luglio mi picchiava sulla testa. Che ora era? Aveva importanza? Qualunque ora fosse, non era un'ora reale. Non era la stessa ora su cui era regolato il mio corpo.

    Non potevo starmene lì impalato. Dovevo trovare un albergo.

    Tirai fuori il cellulare. L'icona NOTE mi saltò subito all'occhio.

    Chiamare George.

    Il mio stomaco ebbe un guizzo improvviso, simile a quello di un pesce moribondo. Ma pensandoci bene... perché no? Avrei comunque dovuto chiamarlo prima o poi, e magari lui avrebbe potuto consigliarmi un hotel economico in zona... o qualcosa di simile.

    Composi il numero.

    Il telefono cominciò a squillare. La mia salivazione si azzerò. Meditai di riattaccare.

    «Sorocco.»

    Era la voce di George? Il tono profondo e brusco sembrava più quello di suo padre, che – anche se non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo – avevo sempre pensato fosse uno stronzo. Riuscii a rimettere in moto la lingua. «George?» chiesi titubante.

    «Come posso aiutarla?»

    «Sono Jeff.»

    «Jeff chi?» chiese l'uomo molto impegnato all'altro capo del telefono.

    Si è dimenticato di me?

    Quattro anni erano tanti, certo. Ma i diciotto anni precedenti non contavano nulla? Insomma, i suoi vivevano nella casa accanto alla nostra. Il George che mi aveva insegnato a fare la mia prima impennata in bici non poteva avermi dimenticato. Il George che mi aveva insegnato a vincere al Game Boy non poteva avermi dimenticato. Ma quello non sembrava nemmeno lo stesso George.

    Scusi, ho sbagliato numero!

    Il che rendeva quella chiamata ancora più imbarazzante di quanto avessi preventivato. E avevo preventivato che sarebbe stata molto imbarazzante.

    «Jeff dall'America. Jeff della porta accanto. Jeff Blythe» insistetti.

    «Jefferson?» rispose George cambiando radicalmente tono.

    Non mi resi conto di quanto fossi teso finché non fui travolto da un'ondata di sollievo. Allentai la mia presa di ferro sul cellulare. «Sì, esatto. Ciao.»

    «Questa sì che è una sorpresa.» Sembrava cauto, diffidente, e non potevo certo biasimarlo.

    «Ehm, già. A ogni modo, sono qui e...»

    «Sei... Scusa, temo di non aver sentito» disse lui, interrompendomi. «Hai detto che sei qui

    «Sì. Sono a Londra. Volevo dirti ciao

    «Ciao?» ripeté George, come se si trattasse di un concetto arcano.

    Solo troppo tardi mi resi conto di che impressione avrebbe fatto quella chiamata. Quattro anni senza una parola e, quando finalmente decidevo di farmi vivo, era per chiedere un favore.

    Provai a salvare la situazione. «Magari uno di questi giorni potremmo vederci per pranzo. O per cena? Come preferisci.»

    «Certo. Possiamo organizzarci. Per quanto conti di fermarti?»

    «Quattro giorni.»

    George emise un suono che avrebbe potuto essere una risata. «Okay, organizzarsi potrebbe essere più difficile del previsto» disse. «Dove alloggi?»

    Due secondi prima avevo deciso di non raccontargli la mia triste storia, ma in qualche modo mi sfuggì di bocca. «Dovevo stare da zia Pat e zio Mike a Maida Vale, ma c'è Robbie – mio cugino – in casa, e preferirei andare altrove, quindi non posso risponderti al momento. Anzi, non è che avresti un albergo da consigliarmi?»

    Ci vollero un paio di secondi prima che lui chiedesse: «Non hai un posto in cui stare?».

    «Ce l'avevo. E lo avrò. Solo che adesso non ho ancora deciso dove andare.» Lo sforzo di suonare risoluto e sicuro di me non fece altro che sottolineare il mio smarrimento. Conoscevo solo due persone nell'intero continente. Se mi fosse successo qualcosa di grave, nessuno sarebbe potuto correre in mio soccorso. Quella consapevolezza mi gettò nello sconforto.

    George tacque.

    Forse aveva paura che lo avessi chiamato con l'intento di accamparmi a casa sua, il che, inutile negarlo – il mio viso in fiamme parlava da solo – era ciò che avevo sperato. Ma ero finito in un altro vicolo cieco e, considerati i nostri... trascorsi, non potevo certo biasimarlo per non essere affatto turbato dall'idea che potessi passare la notte sulla panchina di un parco. In fondo, avrei dovuto essere capace di trovarmi un albergo da solo.

    Solo che ero davvero esausto. Ecco tutto. Era più facile affrontare un'avventura dopo aver dormito.

    E George continuava a tacere.

    Sentii gli occhi bruciare, ma anche stavolta diedi la colpa al jet lag. Avevo tutto sotto controllo. Cominciai a farfugliare: «Be', allora ciao... Fammi uno squillo se ti va di...»

    «Grazie mille» disse George. La sua voce giunse ovattata, come se avesse allontanato il telefono dalla bocca. Un attimo dopo aggiunse in tono più nitido: «Dove ti trovi in questo momento, Jefferson?».

    Jefferson. Era l'unica persona al mondo a chiamarmi in quel modo... a parte i miei genitori quando erano incazzati. Jefferson Tyler Blythe, che razza di storia è questa? Quella domanda mi accompagnava da una vita intera.

    Fui costretto a lottare contro il groppo che mi serrava la gola per rispondere. «Randolph Mews. È tra Randolph Road e Randolph Avenue.»

    «Perfetto. È proprio dietro l'angolo. Tieni duro. Vengo a prenderti.»

    Provai un'altra, imbarazzante ondata di sollievo. Così imbarazzante che mi sentii in dovere di protestare.

    George mi mise a tacere senza tante cerimonie. «Piantala. Non passerai la notte in albergo, e questo è quanto.»

    Piantala.

    Quella parola suonò estranea alle mie orecchie, e mi fece capire in un istante quanto tempo e quanta distanza si fossero accumulate tra me e il George che conoscevo. Il suo tono non era tanto insofferente, quanto sbrigativo. Probabilmente lo avevo interrotto mentre era impegnato al lavoro, e mi sentii in colpa per questo, ma soprattutto mi sentii rassicurato. Era abbastanza vicino da correre in mio soccorso, e si era già messo in viaggio.

    Per quanto mi seccasse fare la parte del ragazzino rompipalle, in quel momento ero come un pesce fuor d'acqua.

    Avevo bisogno di un po' di tempo per raccogliere le idee.

    Così ringraziai George e interruppi la chiamata. Avevo la testa arroventata, la faccia velata di sudore. Mi tolsi il cappello e mi asciugai la fronte con la mano. Non mi ero aspettato che l'Inghilterra fosse così calda. Mi ero fatto l'idea che dovesse essere fresca e brumosa. Accidenti, mi ero immaginato banchi di nebbia e lampioni a gas.

    A ogni modo, magari quella situazione si sarebbe rivelata meno imbarazzante del previsto. C'era stato un tempo in cui George era stato come un fratello per me, in tutto e per tutto, eccetto che per il DNA. Mi ero comunque ripromesso di chiamarlo, prima o poi – era tutto programmato –, e non solo perché gli dovevo delle enormi scuse.

    Ripensare a quel giorno terribile, mi fece tornare alla mente alcune delle cose che aveva detto ad Amy. Avevo capito da tempo che una delle ragioni per cui avevo reagito come avevo reagito con George era il timore latente che qualcuno potesse pensare che anch'io...

    «Ehi!» urlò una donna alle mie spalle. La voce era aspra, perentoria. E familiare.

    Mi girai. Capelli biondo platino che sembravano arricciarsi e crepitare come attraversati da una corrente elettrica, fiammeggianti occhi blu. Somigliava a Jade Raksha di The White Haired Witch of Lunar Kingdom. Ovviamente non lo era. Era la ragazza dell'aeroporto.

    «Dov'è il mio uovo?» domandò.

    2

    «Prego?» Ero

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