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I love Londra
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E-book382 pagine5 ore

I love Londra

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Info su questo ebook

«Una lettura imperdibile.»
Daily express

Autrice del bestseller I love New York e I love Hollywood

Angela Clark si è perdutamente innamorata degli Stati Uniti. Le cose stavano cominciando ad andare finalmente per il verso giusto, quando una telefonata perentoria l’ha richiamata a casa: non può mancare al compleanno di sua madre, a Londra. Per Angela è difficile lasciarsi alle spalle, seppure per pochi giorni, la scintillante vita newyorkese. È sicura che ad aspettarla non troverà altro che pioggia, brutti ricordi e ancora pioggia. Come se non bastasse, corre il rischio di ritrovarsi faccia a faccia con Mark, il suo ex fidanzato. L’unica cosa da fare è accettare l’idea di fare ritorno a Londra e rimboccarsi le maniche per sistemare una volta per tutte la sua vita. Chissà che non scopra finalmente che la città piovosa da cui è scappata con il cuore infranto non è poi così male, persino paragonata alle luci scintillanti di New York…

Un’autrice bestseller del Sunday Times 
Oltre un milione di copie in tutto il mondo

N°1 in Inghilterra

Tradotta in oltre 25 lingue

«Divertente, romantico e frizzante. Questa lettura è uno spasso.»
Closer

«Lindsey Kelk ha uno stile esilarante e sorprendente. Una lettura imperdibile.»
Daily Express

«Irresistibile per le fan di Sex and the City.»
Closer
Lindsey Kelk
Inglese, autrice bestseller di romanzi rosa, ha una rubrica mensile su «Marie Claire». Vive a New York, una città che adora, anche e deve ammettere che Londra e i cocktail con le amiche le mancano molto. I love New York è rimasto in vetta alle classifiche per quasi un anno. Prima di I love Londra, la Newton Compton ha pubblicato anche I love Hollywood e Paris je t’aime.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822727053
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    Anteprima del libro

    I love Londra - Lindsey Kelk

    2121

    Titolo originale: I Heart London

    Copyright © Lindsey Kelk 2012

    Originally published in the English language

    by HarperCollins Publishers Ltd.

    Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2705-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Lindsey Kelk

    I love Londra

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Ringraziamenti

    Della, Beth, Sarah, Jacqueline, Ryan, Emma e Rachel

    Mi chiedono sempre chi sia la mia Jenny e io rispondo

    che sono fortunata, perché in realtà non ne ho una, ho tutte voi…

    Se necessario sarei disposta a togliervi il diaframma

    A te no, Ryan.

    1

    «Scusa il ritardo», farfugliai entrando di corsa nella sede della rivista «Gloss», già alle prese coi bottoni, spingendo la porta con il sedere per aprirla. «Ho avuto un’emergenza Jenny e ho perso le scarpe e non riuscivo a trovare un taxi e com’è possibile che oggi faccia tanto caldo? E ho la camicia ridotta uno schifo, ma se non sbaglio ho lasciato qui una maglietta quindi…».

    «Miss Clark».

    Avevo già sfilato per metà la camicia dalla testa e tenevo le braccia intrecciate nella posizione del cigno morente, quando qualcuno che di certo non era Delia Spencer pronunciò il mio nome. Sapevo che non era la mia amica e collega Delia Spencer, perché si trattava di una voce maschile. E l’avevo già sentita altre volte.

    «Mr Spencer?». Sbirciai da un’asola e vidi il nonno di Delia, proprietario della Spencer Media e in definitiva mio capo, appoggiato alla scrivania della nipote con aria decisamente truce. Dietro di lui, Delia, sulla sua sedia di pelle soffice, si mordeva un labbro e cercava di non ridere. Nessuno dei due sembrava particolarmente impressionato dal mio reggiseno. E in effetti ne avevo di migliori.

    «Che bello vederla». Cercai di riabbassare la camicetta con tutta la nonchalance possibile, per poi tendere verso Mr Spencer la mano e un sorriso abbagliante. «Le chiedo scusa».

    «Non importa», disse. Poi si alzò, ignorò la mia mano e andò dritto dritto nella nostra microscopica sala conferenze. «Se ho capito bene, ha avuto un’emergenza ed è ridotta uno schifo».

    «E ho perso le scarpe», sussurrai a Delia, fremendo.

    «Buon lunedì», bisbigliò lei di rimando, seguendo il nonno nella saletta. «Emergenza Jenny? A che livello di pericolosità siamo?»

    «Arancione? Forse anche un bel rosso corallo. Sta perdendo la testa. Dovevo intervenire».

    «L’importante è che adesso stia bene». Mi rivolse un’occhiata solidale e aprì la porta della saletta. «C’è un maglione di riserva sulla mia sedia. Senza schifezze sopra».

    Delia, più di chiunque altro, aveva seguito la spirale discendente della mia amica del cuore, Jenny, negli ultimi tempi. Erano passati sei mesi da quando aveva rotto con il suo ex-ex, e da allora era riuscita a rovinarsi la vita alla grande. O era così oppure stava facendo un’audizione per la nuova stagione di Jersey Shore. Speravo la seconda: le sarebbe servito presto un nuovo lavoro, se non si rimetteva in riga.

    «Perfetto», borbottai tra me e me; mi cambiai in fretta e controllai se la camicia aveva subìto danni permanenti. «A fare del bene ci si rimette sempre».

    «Quindi, la fase di lancio avverrà nel terzo trimestre, così da essere sul mercato per la settimana della moda e avere Gloss in tiratura limitata a New York», dissi, con tutta la sicurezza di cui ero capace. Con la coda dell’occhio vidi Delia annuire. Di fronte a me, Mr Spencer, il mio capo, prima conosciuto come Bob, non annuiva. Sorseggiava caffè e mi inchiodava con uno sguardo così affilato che avrebbe potuto certamente perforare una scatola di latta. Dissimulai un verso intimidito e cliccai sull’ultima slide della presentazione di PowerPoint. Eh, sì, ero diventata una da PowerPoint. «A questo punto, dopo esserci conquistati uno zoccolo duro di lettori, nel quarto trimestre saremo pronti per farci distribuire nella West Coast e poi, nel primo trimestre seguente, su tutto il territorio nazionale, con l’idea di espanderci a livello internazionale nel terzo trimestre dell’anno successivo».

    Ero molto fiera di me. Dopo un inizio tutt’altro che promettente, ero riuscita ad arrivare alla fine delle slide senza fare casini e non avevo rovesciato niente sul pullover di Delia. Prometteva bene. Bastava il permesso a procedere di Mr Spencer e poi saremmo state letteralmente operative. Cercai di assumere la mia miglior posa da Ruota della fortuna davanti allo schermo a scomparsa e rivolsi un sorriso smagliante al mio pubblico di due persone. Ero sicura al novantanove percento di sembrare pazza, però Bob manteneva la sua espressione concentrata e Delia non mi aveva ancora presa a calci, quindi la consideravo una vittoria.

    «Interessante», disse Mr Spencer. «Molto interessante».

    Tanto tempo prima, Mr Spencer e io eravamo amici per la pelle – ci eravamo incontrati da Pastis per il brunch e lui mi aveva offerto il lavoro dei miei sogni a Parigi. Eravamo legatissimi – poi, però, potrei avere accidentalmente chiamato sua nipote, nonché gemella omozigote di Delia, Cici, con diversi epiteti coloriti e non proprio lusinghieri in un’e-mail e, be’, le avevo tirato un pugno in faccia a Natale. Dopo quell’episodio ci eravamo un po’ allontanati. Aveva dato a Delia e me l’opportunità di mettere in piedi «Gloss», avevamo un piccolo ufficio nella sede della Spencer Media e il necessario per lavorare; aveva inoltre accettato, con riluttanza, di farmi da garante quando avevo chiesto il rinnovo del visto, ma finiva lì. Nessuno regalava niente nella famiglia Spencer. Specialmente non a una ragazza della Gran Bretagna sboccata che buttava a terra un membro della famiglia alla festa di Natale, vestita come un Babbo puttana. Era una storia lunga, ma Cici se l’era proprio cercata. Delia era d’accordo con me. Spesso. Non avevo una sorella, ma in caso contrario avrei voluto che fosse come lei: gentile, generosa e più intelligente di chiunque avesse mai partecipato a The Apprentice. Una come Cici non la volevo. Era come Ursula con Ariel, la crema al caffè nei biscottini alla nocciola. Il male assoluto. Ma ormai era uscita di scena. O almeno, negli ultimi due mesi circa non aveva cercato di rovinarmi la vita, quindi andava tutto bene. E per fortuna, perché ero stata molto impegnata.

    Finalmente eravamo pronte a partire. Avevamo un numero di prova che era una bomba, un business plan sensato, autori pronti a partire e persino un distributore che aveva accettato di occuparsi della rivista. Mancavano solo gli inserzionisti. E per ottenere quelli, dovevamo convincere nonno Bob a includerci nel meeting annuale dei venditori della Spencer Media. Secondo Delia era una partita già vinta, ma io non ne ero altrettanto sicura. Sì, aveva assistito a tutta la presentazione senza nemmeno una capatina in bagno. E aveva guardato il suo iPhone una volta sola e non abbastanza a lungo da essersi messo a giocare a Fruit Ninja. A meno che non fosse un asso in quel gioco. Probabilmente lo era.

    «Per cui, avete già un distributore?», domandò a Delia.

    «Trinity», confermò lei. «Come ben sai, sono i secondi più importante per la moda femminile negli Stati Uniti».

    «E distribuirete direttamente attraverso di loro?», chiese ancora.

    «Esatto». Annuì.

    «E lei è sul serio a piedi nudi?». Fece un gesto del capo nella mia direzione.

    Oooh.

    «Sì. Ma è anche un’ottima autrice, una fantastica progettista creativa e un’acquisizione eccezionale per la tua compagnia».

    Cercai di non arrossire. Caspiterina.

    «Anche se è un po’ eccentrica».

    Non potevo controbattere nulla. Anche se smussava il complimento iniziale.

    «So che mi pentirò di averlo chiesto ». Bob finalmente si voltò verso di me. «Che ne è stato delle tue scarpe?»

    «Ecco, ero a casa della mia amica Jenny…». Appena aperto bocca, capii che non sarei riuscita a fermarmi. «…e avevo preso in prestito un paio delle sue, ma lei era ubriaca marcia e piangeva come una fontana e mi ha costretta a toglierle…».

    «Non hai un paio di scarpe?», mi interruppe Bob. «Non ti seguo…».

    «Forse dovremmo concentrarci sulle domande relative alla rivista, per ora», suggerì Delia. «E lasciare che il problema scarpe di Angela si risolva da solo. Hai qualche dubbio sul progetto aziendale?».

    Bob guardò Delia, poi me e infine il telefonino. «No. È molto chiaro e conciso».

    Delia era raggiante. «Domande sulla parte creativa?»

    «Nessuna. Conosci quella branca di mercato meglio di me».

    «Nessuna domanda di nessun genere?». Raddrizzò il colletto dell’abito a camicia celeste. «Il momento di farle è adesso, nonno».

    Il solenne magnate delle comunicazioni dai capelli grigi si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sul nostro tavolo da conferenze di vetro. «A essere sincero, Delia, l’unica cosa che voglio sapere è perché Angela non ha le scarpe».

    Delia si appoggiò allo schienale della sedia, si sfregò la fronte e mi rivolse un rapido, brusco cenno di assenso.

    «Ecco…».

    «Non è stato affatto spaventoso», dissi, roteando nella mia sedia da ufficio dopo che Bob se ne era andato. «Adesso che facciamo?»

    «Va tutto bene». Delia stiracchiò in alto le braccia tonificate dallo yoga. «Ci dirà di sì. Non ha motivi per non farlo. Ho un buon presentimento».

    «Lieta che qualcuno ce l’abbia», commentai, torva. Io non ne avevo assolutamente. L’unica cosa che sentivo erano i piedi sporchi e una gran voglia di bacon. «Allora perché non ha accettato e basta?»

    «Non ti agitare, Angela. Conosco mio nonno». Tanta sicurezza mi calmava un po’. «Non dice mai di sì subito. Gli piace rifletterci un po’, soppesare le diverse possibilità, ma gli abbiamo dato ogni motivo per accettare. E poi, lo so che mi vuole nel reparto riviste. Cici non si comporta certo come l’erede in pectore per quando lui andrà in pensione».

    Nonostante fosse da sempre suo desiderio lavorare nel campo editoriale, Delia aveva evitato la Spencer Media finché non avevamo cominciato a lavorare su «Gloss», perché la sorella pazza come un cavallo era già nel team di «The Look». Tuttavia, mentre la massima ambizione di Cici era rubare campioni di moda e rovinare la vita ai freelance inglesi (cioè a me), Delia voleva ereditare le redini dell’azienda. In apparenza era una bionda principessa

    WASP

    dell’Upper East Side, ma sotto sotto era un supergenio che puntava molto in alto. Era una Serena van der Woodsen con il cervello di Rupert Murdoch e credeva in se stessa al punto da far sembrare Lady Gaga un po’ insicura. Compiangevo chiunque provasse a mettersi sulla sua strada.

    «È solo che non sopporto l’idea che salti tutto». Appoggiai la testa sulla scrivania fresca e sbirciai il mio iPhone. Oooh, era tempo di raccogliere i piselli nel mio villaggio dei puffi. «Se si tira indietro, gli ultimi sei mesi saranno stati uno spreco di tempo».

    «Non succederà». Delia scandì le parole con una chiarezza e determinazione che io nemmeno provavo a fingere. «Senti, perché non ti prendi il pomeriggio libero? Non possiamo proprio fare niente, finché non ci richiama».

    «Volevo parlare con Mary di qualche nuova idea per gli speciali». Rigirai l’anello con lo smeraldo attorno al dito. Mary Stein sarebbe diventata caporedattore, una volta preso il volo ufficialmente. A essere proprio sincera, ero un po’ sorpresa che avesse accettato. Avevamo lavorato insieme sul mio blog quando mi ero trasferita a New York e io ero stata una spina nel fianco; tuttavia, avevo la sensazione che scalpitasse dalla voglia di lasciare il blog e tornare in una rivista vera. Detto questo, in attesa che avessimo avuto una copertura finanziaria totale continuava a lavorare a TheLook.com, però trovava sempre il tempo di criticare alla grande le mie idee, più spesso che poteva. L’amavo con tutto il cuore. «E non sarebbe male rivedere di nuovo i progetti per il sito».

    Delia mi sorrise. «Ti sei accorta che lo fai sempre quando sei agitata? Girare attorno al dito l’anello di fidanzamento?»

    «Davvero?». Guardai il baiocco con diamanti e smeraldi e sentii che sorridevo. «Non me ne ero resa conto».

    «Fai tenerezza». Sorrise. «Quando sei sotto stress, ti calma. Promette bene per il futuro, non credi?»

    «Immagino di sì». Era un pensiero piacevole. «Probabilmente però ho solo una gran paura di perderlo».

    «A proposito di anelli di fidanzamento, ho una cosa per te». Tirò fuori una spessa rivista patinata dalla sua magnifica borsa di Hermès Birkin e me la lanciò sulla scrivania. Atterrò con un tonfo gradevole e si aprì a una pagina piena di abiti da sposa meravigliosi.

    «Che cos’è?». Guardai la copertina. «Perché mi manca? Ce li ho tutti, questi magazine». Era vero. C’erano talmente tante pile di riviste nel mio appartamento che avevo cominciato a usarle come tavolini. Faceva tutto parte del mio cronico posticipare l’organizzazione del matrimonio: se avevo le riviste, era già un primo sforzo in quella direzione.

    «In realtà viene dalla Gran Bretagna», mi spiegò Delia. «Ho indossato alcuni degli abiti di quella stilista quando si occupava di alta moda normale, ma adesso è passata ai vestiti da sposa. Sono eccezionali. Ho attaccato un post-it alla pagina che dovresti guardare».

    Alta moda normale. Come se esistesse. Aprii a caso la rivista su un gruppo troppo bello di modelle troppo belle con addosso abiti da sposa troppo belli. Accarezzai la carta lucida e cercai di fingere di non essere a piedi nudi e con addosso un pullover preso in prestito perché quel giorno avevo già mandato a p una camicia. Come facevo a mettermi un abito da sposa?

    «Ho segnato la pagina con le sue creazioni. Se vuoi parlarci fammelo sapere: sono certa che sarebbe più che felice di darti una mano». Le brillavano gli occhi. Mi scaldava un po’ il cuore ricordare che la gente sapeva mostrarsi dolce, ogni tanto, soprattutto dopo una mattinata come quella. «E se ti serve una mano per trovare la location del ricevimento, devi solo dirlo. Ho tantissimo contatti. Ma sono certa che non ne avrai bisogno. Però, davvero, basta una parola».

    «Certo». Asciugai un po’ di mascara colato sotto gli occhi e aggiunsi location alla lista infinita di cose di cui prima o poi mi sarei dovuta occupare. Poi mi reimmersi nel porno nuziale. Oh, i guanti… i guanti vintage di pizzo, lunghi fino al gomito… «Ancora non abbiamo deciso niente. Per adesso, so solo cosa non vogliamo».

    «Cioè?».

    Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle belle foto. «Agadoo. Animali vivi di qualsiasi genere. I nostri genitori».

    «Non so cosa sia un Agadoo. Sono d’accordo sugli animali vivi, ma non so proprio come farai a tenere alla larga i vostri genitori».

    «Be’, se non glielo diciamo, non lo sapranno mai». Feci il broncio. «A volte penso che avremmo dovuto sposarci a Las Vegas».

    «Non dici sul serio e lo sai». Delia rabbrividì. «I matrimoni a Las Vegas sono molto 2008. Come sta Alex?»

    «In sala d’incisione». Accennai un sorriso. «È sempre in sala d’incisione».

    Chiunque incontrassi pensava che fosse fichissimo essere fidanzata con il membro di una band. Non vedevano altro che litri di champagne, avventure di mezzanotte al rock-and-roll e serenate sudate dal palcoscenico. La realtà era molto meno romantica. Eravamo più tipi da sidro che da bollicine e il massimo delle mie avventure notturne consisteva nel decidere se mi andava o no di alzarmi a fare pipì. E per quanto riguardava le serenate sudate, be’, non potevo mentire: c’era qualcosa di meraviglioso nell’ascoltare una canzone composta solo per te; ma tirarla fuori dalla testa di Alex e registrarla, così che migliaia di altre ragazze potessero fingere che fosse stata scritta per loro, era un procedimento incredibilmente doloroso.

    Ai primi di gennaio negli occhi di Alex era apparso uno sguardo vitreo e improvvisamente si era trasformato in una creatura notturna. Dai primi freddi intensi dell’inverno fino al disgelo e al ritorno del sole di aprile, aveva lavorato alle sue canzoni per tutta la notte e dormito di giorno. Per tutto il giorno. Eravamo a maggio e non aveva ancora finito. Ogni sera emergeva al tramonto dalla camera da letto, confuso e disordinato, e riusciva a concentrarsi solo quando prendeva in mano la chitarra, una tazza di caffè o le chiavi dello studio. All’inizio mi faceva tenerezza, ma alla terza volta che portavo fuori la spazzatura da sola ero stata costretta a tirargli uno scappellotto.

    «Davvero, va’ a casa». Delia aveva un tono perentorio. «Prenditi il giorno libero, è un ordine. Va’ a casa, passa un po’ di tempo con il tuo fidanzato, leggi le tue riviste matrimoniali. E non tornare finché non avrai scelto i colori».

    «I colori?»

    «Vattene! Stamattina sei stata fantastica. Hai mostrato il reggiseno a mio nonno, hai gestito una presentazione a PowerPoint molto convincente a piedi nudi e te la sei vista con una crisi internazionale di Jenny Lopez, tutto prima dell’ora di pranzo. Ti spetta il pomeriggio libero».

    Se la metteva così, sembrava ragionevole.

    A casa c’era silenzio. Anche se la mia amica/capa mi aveva dato il pomeriggio libero, mi sentivo comunque come se avessi vinto qualcosa. Cosa c’era di meglio che rientrare quando avresti dovuto essere in ufficio?

    «Ehilà?». Sentii solo l’eco della mia voce. Nessuna risposta da Alex. Casa nostra non era enorme, ma spaziosa – portefinestre, open space, pavimenti di legno. Sarebbe stata bellissima, con meno macello in giro. C’erano confezioni di cibo da asporto sparse ovunque, pile di riviste che fungevano anche da tavolini e bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti appoggiati su ogni superficie disponibile. Eravamo degli animali.

    La segreteria telefonica segnalava due messaggi, che ignorai di proposito; preferivo lavare i miei poveri piedi. Solo due persone mi chiamavano al numero fisso: mia madre, perché aveva paura che Skype le rubasse l’anima, e quelli delle televendite, perché loro l’anima non ce l’avevano proprio. Non avevo voglia di sentire nessuno dei due.

    Quando i miei piedi non sembrarono più quelli di un hobbit, diedi un’occhiata al soggiorno. Era davvero un disastro. Finché non avevo altro pensiero al mondo che scrivere su un blog, passavo ore e ore in posizione orizzontale sul divano, ogni tanto pulivo e guardavo il mondo che mi passava davanti agli occhi. Trascorrevo giornate intere a vagabondare per la città e sognare la prossima avventura, sprecavo innumerevoli fine settimana nel Lower East Side con Jenny, la nostra amica Erin e un cocktail di troppo. Adesso che il tempo libero a disposizione era poco e sacro, io cercavo di dimenticare il dovere di lavare i piatti, Erin era a casa con le caviglie gonfie e Jenny, mollata due volte dall’amore della sua vita, partiva per la tangente più in fretta di uno dei concorrenti minorenni di

    X

    Factor. Guardai fuori della finestra, più o meno in direzione del suo appartamento e mi chiesi se fosse riuscita ad arrivare in ufficio. L’Empire State Building ammiccò nel sole. Che provocatore.

    Un sonoro sbadiglio proveniente dalla camera da letto mi fece sobbalzare. Alex era a casa. Alzai al massimo l’aria condizionata e voltai le spalle ai piatti. Faceva già caldo, troppo per essere tarda primavera, e volevo solo buttarmi a letto e accoccolarmi sotto una coperta insieme a lui, ma era dura accoccolarsi sotto una coperta quando sudavi come un cavallo. Aprii piano piano la porta e sorrisi alla vista del mio fidanzato, in stato comatoso, spalmato in mezzo al letto. I capelli scuri scivolarono via dalla fronte quando si mosse; la pelle pallida sembrava quasi traslucida, per via della reclusione autoimposta. La maglietta che indossava quando aveva perso i sensi si era tutta attorcigliata e le gambe erano intrappolate nelle lenzuola candide. Era adorabile. E da infarto. Nel senso buono.

    Una parte di me non voleva svegliarlo. Sembrava così in pace, e poi era bello spendere qualche minuto a fissarlo senza metterlo a disagio né sentirmi una pervertita. Sfortunatamente, ero goffa come un bue e l’unico modo in cui riuscivo a togliermi una gonna a tubino era girando la chiusura sul davanti; e a volte, quando la suddetta gonna è appiccicata alla pelle, girarla sul davanti è più difficile di quanto potreste pensare. Dopo aver lottato fin troppo a lungo con il gancetto, lo strattonai con tutte le mie forze e finalmente riuscii a catapultarmi addosso al comodino. Le mie creme e pozioni varie si sparpagliarono rotolando sul pavimento con gran fracasso. Mi immobilizzai, afferrai il comodino e aspettai che il vasetto di Crème de la Mer, regalo di Natale di Erin, si fermasse in silenzio vicino all’armadio.

    «Giorno, Angela», borbottò Alex, senza muoversi.

    Avevo scoperto che era questo il problema dei vestiti da signorina: indossarli e toglierli metteva in serio pericolo la mia incolumità.

    Salii gattoni sul letto fresco e le lenzuola morbide, accanto ad Alex. Per essere così magro, aveva un corpo sorprendentemente comodo contro cui accoccolarsi. Spalle ampie e braccia forti si aprirono e mi avvolsero non appena affondai nel materasso.

    «Ehi». Mi baciò sui capelli e sbadigliò di nuovo. «Sei a letto».

    «Mi sono presa il pomeriggio libero», risposi; mi rannicchiai addosso a lui, percorsa da un brivido di felicità. «Ho pensato che sarebbe stato bello vederti in faccia».

    «Alla mia faccia piace la tua», bisbigliò. «Aspetta, è pomeriggio?».

    Era adorabile così addormentato e confuso.

    «Sei venuto a letto che ormai erano le cinque del mattino», osservai. «Quindi immagino che per te sia ancora notte fonda».

    «Oggi avevi una riunione». Mi prese una mano e intrecciò le dita alle mie. «Com’è andata?»

    «A essere sincera, non lo so», ammisi. Una delle condizioni del nostro fidanzamento era la trasparenza assoluta in ogni circostanza, cosa di cui pensavo che Alex cominciasse a pentirsi. «Però Delia dice che andrà tutto bene. Come vanno le registrazioni?».

    Alex cercò a tentoni il suo iPod, appoggiato sul comodino dal suo lato del letto, e me lo mise in mano. «Finite».

    Rotolai svelta su un fianco e lo baciai sulle labbra. «È fantastico!». Lo baciai di nuovo. Perché potevo. «Davvero hai finito tutto?»

    «Lo sai che altrimenti non te le farei ascoltare», rispose. «Ho finito».

    «Bravissimo». Scostai dagli occhi i miei capelli, che ormai erano troppo lunghi e avevano disperatamente bisogno di essere tagliati, per vederlo meglio. Che carino. «Mi sei mancato. Adesso che succede?»

    «Ora dormo». Mi baciò sulla punta del naso. «Per tanto, tanto tempo».

    «Mi sembra giusto». Rubai un altro bacio. Delizioso. «E dopo?».

    Speravo proprio che non parlasse di un tour, perché temevo che sarei stata costretta a legarlo al letto e non liberarlo mai più. Quell’uomo risvegliava la pazza che c’era dentro di me come nessun altro.

    «Pensavo…». I luminosi occhi verdi si aprirono in uno sfarfallio di ciglia e il sorriso pigro che avevo già percepito nelle parole arrivò alle labbra. Ero innamorata persa. «Che potrei sposare la mia ragazza».

    Premetti la fronte sulla sua, incapace di trattenere il sorriso più ampio e luminoso che mi fosse mai comparso sulla faccia. «Mi sembra una buona idea. Hai qualche progetto al riguardo?».

    Alex calciò via le lenzuola per intrecciare le gambe nude alle mie e mi attirò a sé. «Ho riflettuto molto sulla luna di miele», disse e mi coprì con il suo corpo. Queste erano le attività calde e sudate che mi piacevano. «Devo sperimentare un paio di cose».

    Era passato così tanto tempo da quando avevamo usato il letto per qualcosa che non fosse dormire, mangiucchiare o guardare una maratona di True Blood che provai un leggero senso di panico. Non riuscivo nemmeno a ricordare l’ultima occasione in cui eravamo stati entrambi coscienti e pronti all’amplesso. Ero così ansiosa che sembrava di rivivere la prima volta. Trattenevo il fiato e non ero sicura dei movimenti delle mie mani; tuttavia, una volta arresami alla sensazione di qualcosa che si scioglieva nel petto e al formicolio delle labbra, mi dimenticai che fuori era giorno, che portavo della biancheria scoordinata e all’improvviso, senza nemmeno doverci provare, fu di nuovo come la prima volta.

    Straordinario.

    2

    Un paio di ore dopo, ero mezzo addormentata e tutta nuda quando sentii il telefonino squillare nella borsa, lasciata in soggiorno. Alex era scivolato di nuovo nell’incoscienza – mi piaceva credere che fossero state le mie enormi abilità sessuali a sfiancarlo – e quindi, da brava comare ficcanaso, rotolai giù dal letto, infilai un paio di pantaloni, presi il telefonino e mi trascinai in cucina per non mostrare le tette ai vicini.

    Ovviamente, il telefono smise di squillare non appena lo abbrancai con le grinfie sudate, ma vidi subito un numero impressionante di messaggi e chiamate perse di Louisa, la mia più vecchia e cara amica nel Regno Unito. Passai un dito sullo schermo per aprirli e mi rifiutai di soffermarmi su tutti i pensieri orribili che mi passavano per la testa. Era sicuramente morto qualcuno, mentre saltavo il lavoro per una sveltina pomeridiana, che altro poteva essere? I messaggi di Louisa non mi fornivano molte informazioni, si limitavano a ripetere la richiesta di richiamarla non appena possibile e questo non fece che aumentare la mia preoccupazione. Ci sentivamo su Skype una volta alla settimana e ci scambiavamo messaggi quanto glielo permettevano i suoi impegni con la bambina; sapevo che non ero mancata a nessun appuntamento video. Sin da un paio di mesi prima, quando era nata Grace, non chiacchieravamo più come al solito, quindi sette Chiamami via messaggio alle dieci della sera circa in Gran Bretagna non potevano significare buone notizie. Armeggiai con i contatti sul mio iPhone, cercando il suo, ma fui interrotta da una chiamata in arrivo.

    Di mia madre.

    Qualcuno era morto, di sicuro.

    O stava per morire.

    Con una sensazione molto sgradevole alla bocca dello stomaco, risposi riluttante.

    «Mamma?». Presi uno strofinaccio dal mobile della cucina e me lo avvolsi attorno al petto. Non mi sembrava il caso di parlare al telefono con lei in topless. Grazie al cielo avevo i pantaloni. «Va tutto bene?».

    L’ultima volta che mi aveva chiamata all’improvviso, mio padre era finito in ospedale dopo un festino a casa di mia zia, a base di un’intera teglia di dolci alla marijuana. Da allora, aspettavo sempre di sentirmi dire che la lasciava per scappare con il lattaio o che usava i soldi destinati alle rate del mutuo per comprarsi il crack. Impossibile dire quale delle due opzioni fosse più probabile.

    «Angela Clark, devi dirmi qualcosa?».

    L’ira sommessa nella voce di mia madre suggeriva che mio padre non fosse nei guai, ma io sicuramente sì. Ed ero quasi certa di saperne il motivo. D’un tratto i messaggi di Louisa avevano senso e facendo due più due ottenevo un enorme e scintillante quattro color smeraldo.

    «Uhm, no, non credo», risposi, zuccherina. Dopotutto, fare la finta tonta aveva funzionato benissimo quella volta, a diciotto anni, quando avevo preso in prestito la sua macchina nel cuore della notte e l’avevo riportata a casa con tre magnifiche ammaccature nuove. Secondo me le davano personalità. Secondo lei, aumentavano l’assicurazione.

    «È vero o no…». Si interruppe e prese un respiro molto profondo e molto teatrale. «Che stai per sposare quel musicista?».

    Merda merdissima merda.

    Non l’avevo fatto apposta a tenere il fidanzamento segreto ai miei genitori, erano le circostanze a cospirare contro di me. E con circostanze intendevo un terrore freddo come la pietra. Avevo telefonato a Natale per dare a tutti la bella notizia, però mia madre era così arrabbiata per il fatto che non ero tornata a casa per il tacchino secco e i rancori in ebollizione e talmente furiosa perché avevo deciso di restare in quel Paese con quel musicista, che non ce l’avevo fatta: non ero riuscita a trovare il modo giusto per dirle che avevo appena accettato la proposta di quel musicista e che sarei rimasta in quel Paese per gli anni a venire. Con il passare delle settimane, più ci ripensavo, meno voglia avevo di accennare con nonchalance al mio fidanzamento.

    «Se sto per sposarmi?»

    «Sì».

    «Con Alex?»

    «Sì, Angela. Con Alex. O almeno, si spera».

    Per pronunciare il nome del mio fidanzato usò la voce speciale che di solito riservava alla nostra vicina Sandra e a Eamonn Holmes. E lei odiava la nostra vicina Sandra e Eamonn Holmes.

    «Be’, almeno non morirò zitella e sterile». Sì, sventolarle davanti una carota a forma di nipotino era un colpo basso, ma a mali estremi, estremi rimedi. «Giusto?»

    «Oh, buon Dio, Angela, sei incinta?», strillò nella cornetta, poi urlò a pieni polmoni nella direzione opposta: «David! È incinta!».

    «Ma no». Abbandonai la testa sulle ginocchia. Magari ero seduta mezza nuda sul pavimento sporco della cucina, con uno strofinaccio leggermente sudicio sulle tette, ma non ero incinta. Per quanto ne sapevo io, almeno. «Giuro».

    «Oh, Signore, dovevo saperlo», continuò a blaterare senza prestarmi attenzione. «Sei andata

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