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Oltre i confini
Oltre i confini
Oltre i confini
E-book332 pagine5 ore

Oltre i confini

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Info su questo ebook

The Bridge Series

Numero 1 del New York Times

Dall'autrice della Hacker Series

Olivia Bridge è sempre stata una brava ragazza: ottimi voti, buone frequentazioni e adesso ha anche un bel lavoro procuratole dai suoi facoltosi genitori. Una vita ordinata, perfetta, che però non fa per lei. Così Liv, nella speranza di trovare la sua strada, lascia tutto e segue i suoi fratelli a New York. Ma appena arrivata nella Grande Mela, due uomini incrociano il suo cammino. Will Donovan ha i soldi che servono per trasformare le ambizioni dei fratelli Bridge in realtà. E poi c’è Ian Savo, a cui la vita sembra troppo breve per giocare secondo le regole della società borghese. Quando Will, grazie al loro patto, gli dà finalmente la possibilità di stare con Liv, non si fa più scrupoli, e l’idea di rinunciare a conoscere meglio una bellissima donna solo perché è la sorella del suo collega non gli pare più un problema… 

Un’autrice da 2 milioni di copie vendute
Tradotta in 22 lingue

«La scrittrice più trasgressiva dell’estate.»
Diva e donna
Meredith Wild
è un’autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today», tradotta in molti Paesi. Ha esordito nel self-publishing prima di firmare un importante contratto con il gruppo editoriale Hachette. Nel 2015 ha fondato la Waterhouse Press, casa editrice indipendente. Torna a pubblicare con la Newton Compton, dopo il successo mondiale della Hacker Series (Senza difese, Senza colpa, Senza pentimento, Senza controllo e Senza rimpianto), portando in Italia la Bridge Series.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2018
ISBN9788822723956
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    Anteprima del libro

    Oltre i confini - Meredith Wild

    2021

    Titolo originale: Over the Edge

    Copyright © Meredith Wild 2016

    Published by arrangement with Waterhouse Press LLC

    All rights reserved

    The moral rights of the author have been asserted

    Traduzione dall’inglese di Serena Tardioli

    Prima edizione ebook: agosto 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2395-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Meredith Wild

    Oltre i confini

    The Bridge Series

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Epilogo

    Scena bonus da Darren e Vanessa

    Ringraziamenti

    Dedicato a tutto il Team Wild

    che adora le storie succulenti tanto quanto me!

    Capitolo uno

    Olivia

    Dai finestrini del treno vidi le pareti nerastre del tunnel sotterraneo farsi indistinte. L’odore acre che i troppi corpi ammassati in un unico spazio emanavano si mescolava a quello innaturale della metropolitana: qualcosa di meccanico che al tempo stesso sapeva di gas.

    In fondo al vagone un gruppo di adolescenti in uniforme scolastica chiacchierava ad alta voce. Alcuni uomini di mezza età in completo si tenevano ai pali e fissavano i cellulari. Una donna dai lunghi capelli sale e pepe aveva un aspetto stanco e spossato, come se fosse stata in treno tutta la notte. Eravamo un pot-pourri di culture e umanità, stipati in un vagone metallico soffocante.

    Sussultai quando una mano calda toccò la mia. Accanto a me, una bambina di non più di cinque anni gentilmente tracciò con la punta del dito i contorni del braccialetto di platino con pendente che mi adornava il polso: quel gioiello di Tiffany era un regalo da parte dei miei genitori.

    «Che carino». La bambina mi guardò e, sorridendo, spalancò gli incantevoli occhi castani.

    «Grazie», dissi, ricambiando il suo dolce sorriso.

    Era stupenda, nonostante fosse così giovane. Una vera bellezza. Ma, guardandola da vicino, notai della sporcizia sotto le unghie e gli orli scuriti del vestito. Accanto a lei era seduta una donna che immaginai fosse la madre. La pelle abbronzata e intessuta di rughe ne rivelava l’età e l’espe­rienza. La donna lanciò uno sguardo a me e alla figlia prima di rivolgersi a quest’ultima in una lingua che non conoscevo, una serie di suoni e inflessioni di rimprovero. La bambina ritrasse la mano alla svelta e fissò il pavimento.

    Nessuno me l’aveva mai detto in faccia, ma trasudavo privilegio. Lo sapevo. Il modo in cui ero stata cresciuta mi stava alle costole ovunque andassi. Quella consapevolezza faceva sì che New York fosse il luogo migliore e peggiore da chiamare casa. Ogni giorno per strada l’estrema ricchezza incontrava l’estrema povertà. Provavo a rimanere nel mezzo, ma avevo conosciuto un solo tipo di vita.

    Scesi alla mia fermata e lasciai la stazione movimentata per la strada affollata. Espirai l’aria stagnante della metropolitana che avevo inalato in quegli ultimi dieci minuti. La maglietta leggera che indossavo non poté nulla contro la fredda brezza del primo mattino. Cercai di stringermi nella giacca; purtroppo non era stata concepita per essere abbottonata.

    Girai l’angolo e vidi subito l’edificio. A un solo isolato dalla fermata della metropolitana, il prestigioso immobile avrebbe ospitato il nostro nuovo centro fitness, il progetto in cui mi ero imbarcata con i miei fratelli, Cameron e Darren, mesi prima.

    Erano stati loro a informarmi che quella settimana avrebbero innalzato i muri. I cantieri edili non erano proprio il mio forte, ma dato che ero stata coinvolta nell’ideazione e nella progettazione della nostra seconda sede, volevo dare uno sguardo veloce ai progressi della ristrutturazione.

    Mi soffermai davanti all’ingresso. Un’insegna temporanea era stata affissa sopra l’entrata e diceva: futura sede della bridge fitness, proprietà donovan. Un’ondata di orgoglio mi invase quando pensai a tutto ciò che i miei fratelli e io avevamo realizzato con quella rischiosa iniziativa imprenditoriale, senza il sostegno economico dei nostri genitori. Cameron e Darren ce la stavano facendo con le proprie forze, anche se la ricchezza della nostra famiglia sarebbe stata il pretesto ideale per facilitare le cose.

    Appena fui dentro, un tipo diverso di orgoglio mi fece andare a testa alta. Stavano in effetti innalzando i muri: appena oltre l’ingresso, una linea di montanti di legno disposti in modo uniforme separava l’entrata dal resto della palestra. Avevo passato ore a esaminare attentamente la cianografia con l’architetto, e quel muro non doveva essere lì. Ciononostante, un operaio stava conficcando un chiodo dietro l’altro nella struttura.

    «Questo muro non dovrebbe essere qui», dissi, indicando i listelli incriminati.

    L’operaio si voltò verso di me e poi indicò l’altro lato della stanza, dove c’erano due uomini impegnati in una conversazione. «Il capo è laggiù, se vuole parlarci».

    Senza alcuna esitazione, mi avvicinai a loro. «Scusatemi», dissi con tono deciso, riuscendo a malapena a controllare la mia irritazione.

    Entrambi gli uomini si voltarono verso di me. Quello più anziano aveva i capelli grigi rasati e dolci occhi castani. Quello più giovane si pietrificò quando mi vide. Mi fissò, accarezzandomi lentamente tutto il corpo con i suoi occhi blu. Mi strinsi di nuovo nella giacca. Purtroppo il gelo mattutino aveva trasformato i miei capezzoli in due piccoli ghiaccioli, e chiunque non fosse stato cieco avrebbe potuto notarlo.

    Mi schiarii la voce e mi preparai a metter su una filippica. «Abbiamo un problema».

    «Qual è il problema, signorina?». L’uomo più anziano corrugò la fronte.

    «Tanto per cominciare, quella dovrebbe essere una parete di vetro. Deve far sospendere i lavori. Sta sprecando manodopera e materiali. Non è quello che prevede il progetto».

    L’uomo più giovane prese la parola. «E lei chi è?».

    Inclinai la testa quando vidi gli occhi dell’uomo socchiudersi leggermente. Il blu intenso delle sue iridi mi scrutava con una tale insistenza che mi fece rabbrividire.

    «Sono Olivia Bridge». Non mi scomodai a stringergli la mano: speravo che il nome gli fosse familiare.

    Raddrizzai la schiena, anche se non potevo competere con l’altezza dell’uomo dalle spalle larghe di fronte a me. Dal collo in su aveva il physique du rôle adatto a una rivista di moda: lineamenti marcati e una mandibola pronunciata, capelli biondo cenere che gli cadevano disordinatamente sulla fronte e labbra piene e definite.

    Ma era solo un comune muratore. Non era il mio tipo. Per niente. Il cotone della semplice t-shirt bianca ne delineava il corpo muscoloso. I jeans che indossava gli calzavano alla perfezione: attillati sulle cosce e gonfi all’altezza delle tasche, dove aveva infilato le mani, e in un punto un po’ più evidente. Distolsi rapidamente lo sguardo, notando la polvere bianca che segnava il tessuto sulle ginocchia.

    Mi rimproverai di averlo squadrato, ma era ovvio che non avesse un minimo di classe, dato che continuava a fissarmi il seno da almeno dieci secondi.

    Mi schiarii la voce, riacquistando la sua attenzione. «Questo progetto è mio. L’ho realizzato io».

    L’espressione impassibile dell’uomo non faceva altro che intensificare la mia rabbia ogni secondo che passava.

    Sospirando, alzai gli occhi al cielo. «Forse non è con lei che devo parlare. Chi è che comanda qui?».

    L’uomo sollevò un angolo della bocca e spostò il suo sguardo attento sul signore più anziano. «Tom, vuoi occupartene tu?». Mi indicò con la mano, come se fossi io il problema da gestire. «Vado a controllare come procede di sopra».

    «Consideralo fatto». Tom si strofinò la fronte e mi portò via. «Allora, è questa la parete di cui parla?»

    «Sì, doveva essere di vetro. Tutta quanta. Vogliamo che la gente entri e veda la struttura e tutto quello che offriamo, non del cartongesso. Dovete togliere questi montanti subito».

    «Okay». L’uomo aggrottò la fronte. «Deve esserci stato un cambiamento nel progetto».

    Sollevai le sopracciglia. «Avete la cianografia. Perché apportare dei cambiamenti?»

    «Questo qui è un muro portante, quindi immagino che, invece di mettere dei rinforzi, Will abbia modificato il progetto».

    «E perché lo avrebbe fatto?».

    L’uomo emise una risatina sommessa. «Be’, è molto più economico, tanto per dirne una».

    Aggrottai la fronte. «Non mi interessa quanto costa». La mia voce salì di un’ottava. «Non è quello che avevamo stabilito».

    L’uomo sospirò. «Immagino che dovrò sottoporre la questione a Will».

    «Chi è Will? Pensavo fosse lei il capo».

    Lui rise e si strofinò ancora la fronte. «No, io sono solo il capocommessa. Quello che comanda è Will Donovan. L’ha appena incontrato. È lui il proprietario del palazzo, quindi si fa quello che dice».

    «Oh».

    Merda. L’uomo che avevo scambiato per un muratore eccezionalmente attraente era Will Donovan, l’investitore e imprenditore edile di cui i miei fratelli parlavano spesso. Non l’avevo mai incontrato, ma avevo abbastanza informazioni su di lui da sapere che probabilmente l’avevo irritato. Peggio per lui. Non mi sarei fermata finché le cose non fossero andate come dicevo io.

    Mi misi una mano sul fianco e feci una rapida scansione della stanza vuota. Avrei dovuto lasciar perdere, ma non potevo. Cameron e Darren, anzi, tutti e tre ci eravamo impegnati troppo per iniziare a stringere la cinghia a quel punto. «Immagino che farà meglio a ripresentarmi a Will».

    «Da questa parte», disse l’uomo con una smorfia, prima di condurmi attraverso un lungo corridoio e su per le scale, verso il secondo piano.

    Will era appoggiato a un’isola da cucina e guardava delle cianografie che ne coprivano quasi tutta la superficie. Si raddrizzò quando entrammo: lui e Tom si scambiarono una rapida occhiata, ma non riuscivo a capire se fosse divertito o teso. Tuttavia, la sua altezza e la sicurezza dell’andatura mentre veniva verso di me mi fecero esitare.

    «Signorina Bridge. È tornata».

    «Già», dissi semplicemente, moderando il tono ora che sapevo con chi stavo parlando.

    Fece un cenno a Tom. «Puoi tornare al lavoro. Me ne occuperò io». Mi rivolse di nuovo lo sguardo. «Cosa posso fare per lei?»

    «Tom mi ha spiegato qual è la situazione strutturale, ma sono preoccupata perché questo non è il progetto che avevamo approvato».

    «Cameron mi ha affidato la direzione artistica». L’uomo incrociò le braccia e il movimento mise in evidenza i muscoli tonici: una lieve distrazione, mentre elaboravo quelle ultime parole.

    «Le ha affidato la direzione artistica». Un’affermazione. O meglio, un’affermazione piena di incredulità: Cameron non l’avrebbe mai fatto. «Non capisco».

    «Parte del mio investimento è nella ristrutturazione. Se sono necessarie delle modifiche per restare nel budget, le faccio».

    «Lei sta compromettendo il nostro progetto e il nostro marchio. Come può aspettarsi di venir pagato quando sta rovinando la nostra idea?»

    «Penso che stia un po’ esagerando per un muro, signorina Bridge».

    Scrutai l’open space in cui ci trovavamo e con passo svelto oltrepassai Will. Mi fermai sotto un ampio arco, che crea­va un’entrata sontuosa tra la cucina e la sala da pranzo di quello che immaginai fosse essenzialmente un lussuoso appartamento.

    Mi voltai verso di lui e indicai l’arco. «Questo era un muro portante?»

    «Sì».

    «E si può dire che sia stato in grado di risolvere il problema?».

    Alzò appena gli angoli della bocca. «Ovviamente».

    «Per preservare la visuale?». Alzai il sopracciglio in segno di sfida.

    «Quella è una visuale da milioni di dollari, signorina

    Bridge, così come la stanza a fianco: inutile dire che il budget concede queste cose».

    «I nostri centri fitness non sono palestre sudaticce per ragazzotti palestrati. Devono attrarre visivamente, devono accogliere i nostri membri e ispirare stili di vita salutari. Vogliamo che i nostri clienti entrino dalla porta d’ingresso e provino queste sensazioni».

    «Venga a cena con me».

    Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Non mi aspettavo un cambiamento così drastico della conversazione. «Prego?».

    Spostò di lato la mandibola e spinse la lingua contro la guancia, come se stesse soppesando qualcosa. «Possiamo rivedere i progetti, apprezzo la sua passione per l’estetica. Sono sicuro che troveremo un punto d’incontro».

    «Possiamo trovare un punto d’incontro qui. Le sto dicendo…».

    «Sono l’unico investitore che avete per questo progetto e lei sta mettendo in discussione le mie scelte. Quindi può continuare a scocciarmi oppure possiamo approfondire meglio l’argomento a cena».

    Il sangue mi salì al volto mentre Will camminava verso di me. Quei suoi passi lenti e sicuri diventavano sempre di più una distrazione. Si fermò a pochi centimetri da me: l’energia e il senso di dominio che trasmetteva mi fecero quasi indietreggiare, ma mantenni la mia posizione.

    «Forse dovrei semplicemente parlarne con Cameron», dissi. Ma la minaccia velata suonava più fragile di quanto avrei voluto.

    «Mi faccia sapere cosa ne viene fuori», disse con tono piatto.

    Alzai il mento, soppesando l’ultima frase. A Will sarebbe bastata una conversazione studiata a tavolino con Cameron per assicurarsi la mia assenza dall’edificio fino alla cerimonia d’inaugurazione. Ero protettiva nei confronti del progetto, ma sapevo che mio fratello non avrebbe fatto nulla che potesse compromettere le scadenze programmate. E se averla vinta mi fosse costato una serata che altrimenti avrei passato a guardare repliche alla tv, allora d’accordo. Era chiaro che la strada che avevo intrapreso non mi avrebbe portata lontano.

    «E la parete?». Incrociai le braccia, combattuta tra la frustrazione e la curiosità.

    Aveva uno scintillio divertito negli occhi, forse causato dalla mia ostinazione. O forse sapeva che stavo per accettare l’invito.

    «Dirò a Tom di fermare i lavori alla parete per adesso. Mi dia buca e per domattina troverà il cartongesso».

    Digrignai i denti, trattenendo tutte le imprecazioni che avrei voluto urlargli contro. «Va bene».

    Lui sorrise, mostrando due perfette file di denti bianchi e dritti. «La farò venire a prendere alle otto».

    Will

    Avevo un debole per le ragazze ricche. Forse perché avevo passato circa metà della mia vita a trovare metodi nuovi e creativi per farle cadere ai miei piedi. Ma tralasciando questo particolare, mi piaceva quello che celavano sotto la superficie. O quello che non celavano, a seconda della ragazza. Facevo un giochetto con me stesso: cercavo di indovinare quale fosse il lavoro del padre, in che quartiere vivessero, in quali scuole fossero andate. Mostravo interesse per loro, ma era solo una facciata: un modo per convincerle a tradire la loro educazione raffinata e lasciare che facessi tutto quello che volevo di loro a letto.

    Col tempo avevo scoperto che ogni ragazza ricca che conoscevo nascondeva appetiti sessuali voraci e morbosi, saziati all’occorrenza dal tipo d’uomo giusto che le invitava a giocare. Ed ero io. Ero io quel tipo.

    Volevo passare a prendere Olivia al suo appartamento a Brooklyn e lanciarle sguardi libidinosi per tutto il tragitto, fino al ristorante. Un preludio di tutte le oscenità che avevo in programma per lei – con il suo permesso, naturalmente. Ma mio padre mi aveva chiamato di nuovo, così lei era in macchina da sola e io ero bloccato nel mio appartamento a barcamenarmi in una conversazione che non volevo sostenere. Avevo ignorato le telefonate di mio padre per tutta la settimana, ma non potevo evitarlo per sempre.

    «Dove sei stato? È da un po’ che non ti sento». Le parole suonarono forzate, come se si stesse obbligando a essere affettuoso.

    Alzai gli occhi al cielo e trattenni un sonoro sospiro. Era raro che Bill Donovan perdesse tempo con i convenevoli, il che mi diceva che voleva disperatamente che lo ascoltassi.

    «Vieni al punto, papà. Che vuoi?».

    Rimase in silenzio per un momento. «Voglio parlarti di cosa può succedere nel caso avviassero delle indagini più meticolose».

    Scossi la testa, di nuovo arrabbiato per il macello in cui mi ero infilato. Un macello che si stava rapidamente allargando agli affari, nonostante gli anni che avevo passato ad assicurarmi che le nostre rispettive attività economiche venissero a contatto il più raramente possibile.

    «Pensi che succederà?».

    La sua voce era sommessa e pacata. «Non saprei. Abbiamo il miglior avvocato che possiamo permetterci, ma se c’è il rinvio a giudizio siamo finiti».

    L’inchiesta sulle pratiche economiche illecite sue e dei suoi soci in affari, con le quali avevano fatto transitare milioni di dollari tramite un’organizzazione benefica locale, stava andando avanti da mesi. C’erano state delle dicerie, ma fino a quel momento non era stata pronunciata alcuna accusa formale contro di loro. Se ciò fosse accaduto e lui fosse stato giudicato colpevole, avrebbe dovuto pagare un risarcimento e scontare la pena in uno di quei villaggi vacanze a nord di New York che chiamavano prigione per i criminali finanziari come lui e i suoi compari.

    Peggio ancora, il danno alla sua reputazione nel mondo finanziario sarebbe stato irreparabile.

    «Era un ente di beneficenza a favore dell’arte per giovani svantaggiati, Cristo santo. Non potevi scegliere qualcos’altro per frodarli e prenderti i loro soldi?».

    Mio padre fece un suono incomprensibile all’altro capo del telefono. «Non ti ho chiamato per parlare di questo, Will. Se uno di noi viene accusato, l’impresa ne soffrirà, tutti gli investitori se ne andranno. Ho bisogno che tu torni con noi finché la situazione non si stabilizzerà».

    Aveva cercato di tirarmi in quel fondo speculativo che gestiva con David Reilly fin dalla sua nascita, all’inizio dell’anno. I pochi aperitivi e pranzi che avevo gustato con gli investitori erano stati divertenti, ma non ero interessato a quel mondo. Avevo i miei progetti da coltivare.

    «Non paghi della gente per gestirti gli affari? Non hai bisogno di me».

    «Sei l’unico di cui mi fido. Specialmente nella situazione attuale. E oltretutto sono anche soldi tuoi».

    «Non mi interessano i soldi».

    «Pensi che non ti interessino perché non hai mai dovuto vivere un giorno senza. Me ne sono assicurato». Le parole schioccarono come una frusta al telefono: nascondevano una verità tagliente ed erano appesantite da anni di sforzi estenuanti, serviti a mettere in piedi una vita di ricchezze.

    Il nostro rapporto era sempre stato una questione di fatti: fatti sulla strada rodata per il successo, fatti sui soldi e sugli affari, fatti sulle donne che, in realtà, consistevano nelle sue opinioni prevenute sul gentil sesso e sull’utilità delle donne come strumenti di soddisfazione dei propri appetiti sessuali. Per lui contavano solo i fatti e non i sentimenti, ed ero stato cresciuto così.

    Stando alle sue regole, avrei dovuto liberarmi di lui, come se fosse stato una cattiva abitudine, e andare avanti con la mia vita. Cercavo di essere empatico, ma tutto ciò a cui riuscivo ad appellarmi era solo un po’ di preoccupazione e tanta rabbia al pensiero che mio padre fosse stato così irresponsabile da farsi persino beccare. Adesso rischiavo di rimanere intrappolato nei suoi affari, quando invece ero completamente assorbito dai miei. L’ultima cosa che volevo era ereditare i suoi problemi o il suo fondo speculativo.

    «Non voglio essere coinvolto in questa faccenda», dissi alla fine.

    «Quello che è successo con la Youth Arts Initiative è una questione a sé stante. I soldi del fondo sono puliti, hai la mia parola. Posso rimettermi in sesto dopo tutto questo, ma non senza il tuo aiuto. Vediamoci: ti spiego bene come stanno le cose e ti renderai conto di quanto c’è in ballo».

    Esitai. Era in un mare di guai e, per quanto non condividessi i suoi valori, era pur sempre mio padre, e potevo almeno sentire cosa aveva da dire, anche se non ero disposto a espormi per proteggere i suoi soldi. I nostri soldi, visto che ero il suo unico erede e lui avrebbe preferito bruciare ogni dollaro piuttosto che dare un centesimo in più a mia madre.

    «Sono nel bel mezzo di una grossa ristrutturazione, non ho molto tempo adesso».

    «Passerò al cantiere questa settimana. Non ci vorrà molto».

    Non lo volevo neanche lontanamente vicino al mio progetto. «Preferirei di no. Vediamoci per pranzo. Ti farò sapere quando e dove».

    «Okay. Grazie».

    L’accenno di vulnerabilità nella sua voce mi spaventò più di ogni cosa. Scorsi della disperazione dove c’era sempre stata solo una rigida e impavida dedizione al lavoro.

    Riattaccai e fissai l’orizzonte dalla mia finestra. Un altro panorama da milioni di dollari. Ne avevo tanti, e mio padre aveva ragione: non avevo mai conosciuto una vita che non avesse la sicurezza della ricchezza – una ricchezza che si diceva fosse stata accumulata con i metodi più spietati. Avevo preso la mia parte e me l’ero giocata in speculazioni in campo immobiliare. Ma non avrei mai intrapreso la sua strada: transazioni fra diversi conti, Paesi e investimenti, opzioni e contratti a termine, formule che avevano senso solo per gli assetati di denaro come mio padre.

    E, qualora alla fine avessi deciso di aprire una trattativa con lui, avrebbe provato a vendermi esattamente questo: una vita che non avrei mai voluto.

    Diedi un’occhiata all’orologio e andai verso la porta. Ero in ritardo, seccato, e tutto ciò che volevo era sfogare quella frustrazione sulla bellissima ragazza viziata che era Olivia Bridge.

    Capitolo due

    Will

    Il maître di sala mi condusse a un tavolo privato per due in fondo all’Artu, il ristorante esclusivo che avevo scelto per la nostra cena. Appoggiata allo schienale della sedia, Olivia stava fissando lo schermo eccessivamente illuminato del suo cellulare. Teneva le gambe accavallate sotto una longuette di pizzo nera e bianca che le stringeva i fianchi e le cosce. La semplice maglietta nera era sia di buon gusto che succinta. Era ovvio che ogni capo del suo outfit fosse stato scelto con attenzione per conferirle un’aria professionale, tranne quelle gambe, slanciate da un paio di scarpe nere con tacco dodici, che volevo su entrambe le mie spalle.

    Mentre mi avvicinavo si irrigidì, e il suo sorriso si fece stentato. «Sei venuto. E pensare che eri preoccupato che io dessi buca a te».

    Era arrabbiata. Tenni a freno la lingua per un momento, perché quel suo caratterino irascibile si stava rivelando una mia debolezza. Non vedevo l’ora di toglierle tra le lenzuola quell’espressione altezzosa dal volto. Sentii il sangue scorrere nelle parti basse quando immaginai la silhouette attraente del suo corpo curvarsi per me, tra le urla di piacere, mentre affondavo dentro di lei alla ricerca del mio appagamento.

    Mi misi a sedere ed espirai l’aria destinata a parole che ancora non potevo proferire. Non era un’oca giuliva in un bar. Era una ragazza con un’ottima istruzione, armata di standard elevati e lingua tagliente. Dovevo andarci con i piedi di piombo se volevo ottenere quello che desideravo e, non c’era bisogno di dirlo, prevenire le potenziali reazioni negative dei suoi fratelli, una volta che avesse ascoltato la mia proposta.

    «Dovevo rispondere a una chiamata importante». Mi stesi il tovagliolo in grembo. «Sei già stata qui?»

    «Un paio di volte», disse lei con tono piatto. Con gli occhi fissi sul menu, fece del suo meglio per ignorarmi.

    Dopo qualche istante, il cameriere tornò a prendere le nostre ordinazioni. Quando sparì, il silenzio tra di noi era carico di possibilità elettrizzanti. La squadrai come si deve per recuperare il tempo perduto.

    «Sei adorabile, Olivia».

    Si infilò una ciocca di lucenti capelli bruni dietro l’orecchio. Era irrequieta, evitava il mio sguardo, il che tacitamente mi suggerì che non fosse immune ai miei complimenti spudorati nei suoi confronti. «Quindi volevi discutere dei progetti?»

    «Prima mi piacerebbe conoscerti», mormorai.

    Fece un respiro profondo e congiunse le mani davanti a sé. «Conosci già i miei fratelli. Perché all’improvviso sei così interessato a me?»

    «Quando vedo qualcosa che voglio, non mi gingillo e lo inseguo subito. Sono un po’ impulsivo».

    «E cosa vuoi esattamente da me?».

    Espirai lievemente. Volevo così tante cose… così deliziose e depravate. Mi chinai e le presi la mano con gentilezza, portandola verso di me attraverso il tavolo. Olivia dischiuse le labbra e piccoli respiri tremuli le fecero fremere il petto. La sua morbida pelle olivastra scivolava come seta sotto il mio tocco. Avvolgendo le dita intorno al suo polso, lasciai che il freddo metallo del bracciale mi si adagiasse sul palmo. Il gioiello aveva un piccolo ciondolo: una corona con le punte adornate di diamanti.

    «Carino».

    «Un regalo da parte dei miei genitori. Per la laurea».

    Il mio cervello cominciava a fumare. Sapevo già così tante cose di Olivia che il gioco era quasi scorretto. Eppure, non riuscivo a resistere.

    «Il college Vassar?»

    «Smith».

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