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I pilastri della cattedrale
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I pilastri della cattedrale
E-book353 pagine5 ore

I pilastri della cattedrale

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Info su questo ebook

«Superbo, leggendario, geniale, imperdibile!»

Un grande romanzo storico

Era un luogo sacro
Nessuno doveva conoscerne il segreto

Roma, XIII secolo.
L’abbazia di Farfa, seconda per potenza solo a San Pietro, è guidata da Gregorio da Urbino, uno spregiudicato protagonista degli intrighi politici di Roma, inviso sia al papa che all’imperatore Federico II. L’abate, noto per essere tanto spietato quanto scaltro, tiene legato a sé un giovane di umili origini, Dante, che usa come pedina per i suoi raffinati complotti. Dante è così costretto a partecipare alle sue losche trame ma, grazie alle sue abilità, riesce ad avvicinare il potente Luca Savelli, fedele al papa e avversario di Gregorio, fino a conquistarne la fiducia. Man mano che Gregorio acquista potere, minacciando persino di rovesciare il Vaticano con un esercito abilmente radunato, il giovane si troverà a dover compiere delle scelte sempre più difficili tra la fedeltà al suo mentore e la gratitudine per l’amicizia di Savelli. Ma Dante non sa che il destino ha qualcosa di molto, molto grande in serbo per lui.

Un abate scaltro e spietato 
Una nobile famiglia fedele al papa

Tra intrighi e vendette, la difficile ascesa di un giovane nella lotta per il potere 

Le atmosfere di I pilastri della terra incontrano quelle di Il nome della rosa per un grande esordio letterario
Massimo Aureli
È appassionato di archeologia e di storia antica fin da ragazzo, ama fare ricerche su personaggi e luoghi storici meno conosciuti. L’interesse per la scrittura è cresciuto dopo aver lavorato nella biblioteca comunale del paese in cui vive. Mentre approfondiva lo studio di alcune famiglie romane del Medioevo, ha riscoperto la voglia di scrivere e, dopo un anno di lavoro, ha terminato il suo primo romanzo: I pilastri della cattedrale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2018
ISBN9788822719003
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    Anteprima del libro

    I pilastri della cattedrale - Massimo Aureli

    Prefazione

    Tra il 1243 e il 1245 nelle terre della Sabina e nei luoghi della Valle del Tevere, in prossimità di Roma, accaddero fatti che cambiarono il corso della storia. In quel periodo il Sacro Romano Impero era affermato, ma l’inizio dell’inesorabile declino di Federico ii mise a rischio il suo tentativo di tener testa alle forze di Innocenzo iv, vescovo di Roma. Fu solo questione di tempo, non si poté evitare di lasciare il posto a un periodo della storia chiamato Grande Interregno¹.

    Fu il caos.

    In quello scenario si dipanò la storia di Gregorio, un abate che, approfittando di questa contesa, sfidò follemente il potere papale e quello imperiale per inserirsi come terzo contendente e coronare così un suo grande sogno. Gregorio fu l’abate della strategica abbazia di Farfa situata in Sabina, nelle terre confinanti con il feudo di Torrita di proprietà della nobile famiglia romana Savelli, abbazia che estendeva il suo potere fino alle Marche a nord e fino al Molise a sud. L’abbazia di Farfa era potentissima. Controllava un territorio così grande che le sue proprietà quasi accerchiavano lo Stato Pontificio, e cominciò ad avere un’influenza tale da risultare scomoda persino a papa Innocenzo iv.

    Di come andarono veramente le cose se ne seppe solo sette secoli dopo grazie a un importante ritrovamento. Durante alcuni restauri nella parte più antica della basilica abbaziale, venne ritrovato un anello crociato e un manoscritto in lingua volgare che venne chiamato codex Sabellus (codice Savelli). La sua esistenza era ormai leggendaria e nessuno aveva mai creduto alle fantasiose storie legate a questo manoscritto. Grazie a questo codice fu possibile non solo scoprire la storia di Gregorio, ma far luce su altri fatti storici ancora oggi poco delineati, a cominciare dal conoscere che cosa uccise Federico ii, e cosa successe veramente all’inizio del Grande Interregno, passando per ordini templari segreti mai conosciuti.

    1 Il Grande Interregno è un periodo storico che va dalla deposizione di Federico ii da parte di papa Innocenzo iv (nel 1245), all’elezione di Rodolfo i nel 1273, ventotto anni in cui il Sacro Romano Impero non ha un suo imperatore. Durante questo periodo vennero eletti dei re, ma nessuno di loro riuscì ad esercitare concretamente il potere imperiale.

    Prologo

    A.D. 1245

    2 maggio

    «Avanti», disse con voce stanca l’abate Gregorio. «Avanti!», ripeté.

    L’abate alzò a quel punto lo sguardo e intravide un ragazzino che stava alla porta e titubava a entrare. Così, per la terza volta, l’abate disse visibilmente irritato: «Avanti, ragazzino insolente; o sei per caso venuto qui per spiarmi?»

    «No, signore!».

    «Eccellenza, impudente ragazzino, Eccellenza!… Cosa sei venuto a fare?», chiese l’abate scuotendo la testa e continuando a scrivere.

    Entrando cauto, il fanciullo gli rispose con voce intimorita. «Mi hanno detto di portarvi questa, Eccellenza, altro non so».

    «Lasciala qui… sul mio scrittoio», rispose l’abate tenendo la testa china.

    Il ragazzino si avvicinò e, frettolosamente, appoggiò una pergamena sullo scrittoio, tornando subito sull’uscio della porta accanto a me. L’abate Gregorio nemmeno si accorse della mia presenza. Riuscì però a vedere con la coda dell’occhio un timbro familiare stampigliato sul sigillo della pergamena: un timbro raffigurante un cavallo cavalcato da due cavalieri. L’abate si fermò all’istante. Ne riconobbe subito la provenienza. Appoggiò quindi lentamente il calamo sullo scrittoio senza togliere le dita con cui lo afferrava. Il tempo scorreva e ancora non trovava il coraggio per aprire la pergamena da cui non riusciva a togliere lo sguardo. Alla fine si decise. Lasciò definitivamente il calamo, prese in mano la lettera, tolse il sigillo e cominciò a leggere il messaggio. Mentre i suoi occhi scorrevano le parole, lo sguardo stanco dell’abate cambiò in gelido stupore.

    «Questa è la fine!», ebbe la forza di sussurrare soltanto.

    Capitolo 1

    A.D. 1286

    15 giugno

    Oggi, 15 giugno 1286, ho deciso di mio proprio pugno di cominciare a scrivere quella che si può definire una richiesta di perdono, una richiesta di pietà per i miei peccati. Ora sono vecchio e molto malato ed è mio desiderio liberarmi di grossi pesi e vecchi fantasmi, e questo è il giorno giusto. Ho voluto scrivere subito la causa delle mie notti insonni, quasi per esorcizzare i miei incubi, le mie persecuzioni. Desidero anche descrivere quello che i miei occhi hanno visto veramente in tutti gli anni della mia lunga vita. Voglio spiegarvi come andarono le cose, perché l’abate Gregorio da Urbino ricevette quella pergamena e quale fu la vera storia che grazie alla damnatio memoriae nessun libro riporterà mai.

    Mi chiamo Dante e sono stato il servitore personale dell’abate Gregorio fin da quando avevo sette anni. Sono nato in una famiglia povera in un borgo chiamato Farfa, una zona non troppo distante dalla più nobile e imperiale Roma. Nessuno in famiglia aveva mai preso i voti, e la vita monastica non faceva per me. A causa della povertà, i miei familiari non trovarono di meglio che affidarmi a Gregorio e questo mi assicurò un pasto caldo ogni giorno in quel periodo di miseria. Era privilegio di pochi vivere in abbazia e mia madre lavorò tanto per assicurarmi quel posto. Non sapevo quanto questo avrebbe cambiato la mia vita per sempre!

    Tutto cominciò nella primavera del 1243, precisamente a maggio; lo ricordo perché Gregorio fece ritorno da un viaggio di due mesi nelle diverse abbazie da lui amministrate sparse tra Marche, Umbria, Abruzzo e Molise. Fu allora che per la prima volta lo vidi strano. Non parlava più come prima e non teneva più le sue tanto amate lezioni di politica rivoluzionaria. Era come se fosse caduto in un lungo stato meditativo. Passava le giornate da solo sui banchi dei copisti e scriveva. Lo so perché, preoccupato, lo seguivo spesso e lui nascondeva subito ogni cosa quando scopriva che lo stavo osservando.

    Io avevo ormai ventidue anni e Gregorio lo conoscevo bene. Non era un tipo allegro; quante volte mi aveva ripreso quando ero più piccolo perché semplicemente volevo ridere e scherzare. «Il riso è il male», ripeteva; ma più me lo diceva e più ridevo e così finii diverse volte in penitenza nel supplicium, come chiamava lui la biblioteca quando mi ci chiudeva tutta la notte al buio. Ma in quella primavera tutto era cambiato, tutto era diverso. Potevo ridere delle sue rare lezioni di filosofia e lui, lasciandomi perplesso, mi diceva semplicemente: «Fai bene a ridere ragazzo, perché quando tutto cambierà, potrebbe rimanerci solo il pianto». Quelle parole continuavano a riecheggiare nella mia mente. Cosa voleva dirmi Gregorio e, soprattutto, cosa stava progettando di così grosso da poter rischiare di piangere in eterno? Avrei ben presto cominciato a scoprire diverse cose visto che nei mesi successivi, nell’estate del 1243, mi nominò suo consigliere privato e fidato.

    Aveva da poco espulso dall’abbazia il suo vecchio consigliere frate Girolamo, per aver cercato di ottenere servigi e denaro, e promettendo ripetute udienze e particolari attenzioni a chiunque avesse avuto la mira di ottenere favore presso Gregorio. Con un annuncio, però, l’abate spiegò che ora voleva un consigliere laico per evitare rivalità, contrasti e simonia. Ancora me lo ricordo quel giorno. Per me fu una grande emozione, ma non fu lo stesso per alcuni dei confratelli di Gregorio che ambivano a quel posto! Non fu facile quel primo periodo a causa di quei malumori che facevano fatica a passare, ma poi, piano piano, tutto tornò alla normalità, comprese le molte attività che si svolgevano all’abbazia.

    Bello quel borgo, mantiene sempre un fascino speciale. La lunga strada che passa in mezzo alle case e il portone che si apre sull’area abbaziale dando sulla grande piazza davanti alla basilica. Il bel chiostro con un olmo nel centro alto il doppio del tetto. Per non parlare di quando in fondo si raggiunge il convento che chiude il borgo con una balconata dalla vista meravigliosa. Queste erano le cose che mi godevo spesso tra lo studio e il lavoro che facevo. Con quel nuovo incarico però, non avevo più tanto tempo di girare per le stradine attorno al borgo o passeggiare in mezzo agli stupendi boschi. Anzi, stando a stretto contatto con l’abate quasi ogni momento, mi accorsi ben presto che passavo quasi tutto il giorno nel suo studio a scrivere ciò che mi dettava. E, scrivendo per lui missive per ogni signore dei feudi e per i diversi nobili, nonché vescovi e cardinali, mi resi conto che quello che stava succedendo attorno all’abbazia, a cominciare dalla cacciata di frate Girolamo al ritorno dal lungo viaggio dell’abate, era solo l’inizio di qualcosa di molto pericoloso e di molto più grosso di noi.

    CAPITOLO 2

    A.D. 1243

    agosto

    Una delle prime lettere che mi fece scrivere fu per il senatore di Roma, un certo Luca Savelli.

    «Allora Dante, scrivi:

    Pregiatissimo senatore Luca Savelli. La vostra famiglia ci onora nel confinare con le nostre terre, e i nostri rapporti di vicinato devono servire a rinforzare il vincolo che lega entrambi a Sua Santità Innocenzo iv. Questa mia serva alla vostra pregiata persona di invito a visitare la nostra abbazia per discutere al più presto di affari e pregare per il nostro Santo Padre. Vostro Reverendissimo abate Gregorio.

    Vedi, Dante, il senatore di Roma è il rappresentante massimo di una famiglia importante, perché nipote del defunto papa Onorio iii. Noi possiamo stringere una bella amicizia con lui che ha contatti importanti a Roma», mi confidò appena finito di dettare, mentre teneva i gomiti sullo scrittoio e congiungeva le mani fissando il vuoto. Quel giorno non me lo disse perché forse aveva ancora una briciola di pudore, ma tempo dopo capii che quella frase, nel suo cuore, aveva avuto un seguito. Ora posso dire con certezza che non pensava al bene né del Sacro Romano Impero, né a quello della Chiesa, sperava semplicemente di ottenere qualcosa. Se devo essere sincero, un dubbio mi era venuto ma non dissi nulla. Primo, non ero sicuro di quello su cui ragionava; secondo, non potevo rompere quel magico equilibrio di un rapporto nuovo che stava nascendo tra noi.

    Chiusi così la pergamena e la sigillai.

    Gregorio si alzò dalla sedia. Era un uomo che non aveva da molto passato il mezzo secolo, una figura di marcantonio con due spalle larghe, ancora in forze ma con una barba che iniziava seriamente a canutire. Mi venne incontro mettendomi un braccio intorno alle spalle e mi disse: «Dante, fai presto e porta subito questa missiva ai Savelli oggi stesso, chissà che il senatore non sia nel suo palazzo di Torrita». E poi mi diede una pacca sulla spalla. Non feci in tempo nemmeno a rispondere che già si mise a recitare delle preghiere e si perse nelle sue meditazioni che, sono sicuro, non avevano niente a che fare con Dio. Io nel frattempo chiamai alcuni incaricati dei frati benedettini e chiesi loro di prepararmi la carrozza di Gregorio per raggiungere Torrita il prima possibile. Non è molto distante dall’abbazia, si deve solo guadare il Farfa, il piccolo fiume che dà nome al borgo, e fare un po’ di strada nel bosco fino ad arrivare sulla sponda del Tevere. Visto che avremmo dovuto utilizzare una grande chiatta per passare alla sponda opposta del fiume e salire per Torrita, al varco ci fermarono le quattro guardie dei Savelli. Due di loro si accostarono allo sportello della nostra carrozza e, senza nemmeno chiedere chi fossimo, intimarono: «Non si passa!… Siete al confine. Qui iniziano le terre di Sua Signoria, il senatore Luca Savelli».

    L’entusiasmo per l’incontro che mi attendeva svanì in quell’istante, ma ero deciso ad arrivare a Torrita.

    «Sono il collaboratore personale del Reverendissimo Gregorio, abate di Farfa», risposi con un po’ di timore.

    «Siete nel territorio di un senatore di Roma, il vostro potere religioso non ha valore… si ferma qui», rispose una delle due guardie con tono di chi non ammette repliche.

    Così provai ad andare oltre. «Io non sono un frate… Sono solo un messo portalettere dell’abate», e lo dissi convinto perché era vero che non avrei mai voluto indossare il saio.

    Fortunatamente, una delle due guardie rimaste alla sbarra intervenne. «Controllate la carrozza e, se non ci sono problemi, fateli passare».

    Controllarono dentro e sotto la carrozza, infine, aprirono la sbarra e ci fecero attraversare. Salimmo per una strada molto ripida e tortuosa; non ero mai stato a Torrita ma sembrava bella. Dominava la Valle del Tevere proprio come i Savelli dominavano Roma. Arrivammo al ponte levatoio e ci fecero entrare nel cortile del palazzo. Scesi dalla carrozza e ammirai il bel chiostro affrescato con uno scorcio sulla Sabina che catturò il mio sguardo. Ne rimasi talmente affascinato che tornai in me solo quando mi sentii chiamato in causa. «Quindi tu saresti il collaboratore di Gregorio?», chiese qualcuno con una voce profonda.

    Mi voltai e rimasi impietrito. Era proprio lui, Luca Savelli, senatore di Roma e nipote dell’ormai scomparso papa Onorio iii. In realtà Luca Savelli non era il senatore in carica, lo era stato alcuni anni prima. Come senatore, però, fu quello che ebbe l’influenza maggiore sul popolo romano e le sue attività; fu colui che interpretò meglio la vita di Roma e dei suoi cittadini. Per questo motivo fu l’unico a essere chiamato da tutti senatore anche dopo la fine del suo mandato. Quel giorno mi sentivo confuso dal grande onore di trovarmi alla sua presenza. Lui era in piedi sulla scalinata che portava al piano superiore, petto in fuori e mani dietro la schiena e io immobile, come un pezzo di legno, ad ammirarlo. Era alto e aveva un bel portamento, viso spigoloso e senza barba; di aspetto aggraziato e curato, proprio un vero senatore romano. Indossava una tunica di seta con un’ampia scollatura. Sopra, un bel mantello ricamato e ornato di frange che teneva chiuso sulla spalla destra per mezzo di un vistoso fermaglio d’oro.

    Vedendolo così inarrivabile ed eccelso, alcune domande cominciarono a vessarmi: perché Gregorio non era venuto personalmente? Perché lasciare a me l’onore e il privilegio di incontrare Savelli? Fortunatamente non rimasi troppo a pormi interrogativi e risposi. «Sì, sono io».

    Non seppi aggiungere altro. Com’ero giovane e inesperto! D’altra parte io non dovevo trovarmi lì, non avevo un titolo né nobiliare né religioso. È vero, Gregorio mi aveva insegnato a leggere e a scrivere, ma non avevo approfondito gli studi. Da ragazzo venuto dal borgo e figlio di mezzadri, mi ritrovavo al cospetto di un senatore di Roma, la città che non avevo mai visto, che mi affascinava tanto e che desideravo conoscere. Come dicevo, ero inesperto e quindi non parlavo; nella mia mente frullavano così tante emozioni che probabilmente il senatore se ne accorse e sorrise. «Sei qui per un saluto, o per cos’altro?», mi chiese.

    «Una lettera per voi dall’abate!», risposi frettolosamente.

    Feci per avvicinarmi allungando la lettera, ma una delle guardie presenti mi fermò e me la tolse dalla mano portandola al senatore.

    Mentre la prese per aprirla feci un inchino di commiato e salii sulla carrozza. Mi seguiva con lo sguardo intanto che uscivo dal palazzo; e più mi allontanavo più mi davo dello stupido perché non ero stato capace di essere all’altezza di quella situazione. Quando arrivai all’abbazia non fecero nemmeno in tempo a fermare la carrozza che Gregorio mi venne incontro ad aprirmi lo sportello. «Come è andata, ragazzo?», mi chiese.

    Era così eccitato dalla voglia di sapere dell’incontro con Savelli che, probabilmente, era stato tutto il tempo ad aspettarmi impaziente nel cortile. Era la prima volta che mi dava un incarico così importante e che mi attendeva quasi fuori dall’abbazia. Risultò anche molto strano agli astanti, infatti non passò inosservato che Gregorio, il potente abate, aprisse lo sportello a me, inutile servo. Comunque gli risposi che Savelli non era stato di molte parole.

    «Hai incontrato il senatore di persona?», chiese incredulo sgranando gli occhi.

    Gregorio era in ansia di sapere se fossi riuscito a consegnare la lettera anche semplicemente a qualche messo del senatore, che quasi gli prese un malore quando seppe che l’avevo consegnata proprio nelle mani di Luca Savelli.

    «Dante, come è stato?… Ti ha almeno degnato di uno sguardo?», continuava a chiedere.

    Perché tutto questo interesse alle reazioni di Savelli, perché questa voglia di essere nelle grazie del senatore? Io non capivo ancora cosa frullasse nella mente di Gregorio, ma quella volta non riuscii a dichiarare il vero, qualcosa mi stava frenando nel rivelare com’erano andate le cose veramente e così dissi solo: «No, non ha nemmeno voluto guardare in faccia chi avevano fatto entrare nel cortile del suo palazzo, ha preso la lettera dal suo servitore e se n’è andato».

    «Ma non mi hai detto che è stato di poche parole?».

    Esitai un momento. «Sì, sì! Ha detto solo: Riaprite i cancelli!».

    La sua espressione cambiò e divenne più seria. «Speriamo accetti il nostro invito, è molto importante per noi».

    Mi mise la mano sulla spalla e se ne andò. Quella sera andai nella mia camera, contento del nuovo rapporto con Gregorio, ma ripensando alla gentilezza e al sorriso del senatore riservati a me, umile servo di un abate. Ora desideravo sapere sempre di più cosa stava progettando Gregorio e perché era così interessato a quell’amicizia con i Savelli, proprio la famiglia che aveva avuto in seno un papa. Tutti sapevano di quanto Gregorio non sopportasse la sudditanza verso il papa e di quanto gli stesse stretto essere abate nonostante fosse a capo di migliaia di soldati e centinaia di prelati. Io ero cresciuto fuori dal mondo seminaristico ma, come mi era stato insegnato, siamo tutti uguali davanti a Dio e non capivo quel modo di essere uomini di Dio e allo stesso tempo cercare la preminenza su tutto. Non avevo mai sentito Gregorio parlare di Dio e nemmeno delle Sacre Scritture. I suoi argomenti erano solo potere e preminenza, denaro e soldati. Per questo non amavo quell’ambiente: era falso e lontano da quello che desideravo. Però era l’unico modo per avere un futuro e una speranza di non finire come la mia famiglia: reietto. A me piaceva più il mondo di Roma e dell’Impero con le sue famiglie nobili e l’istruzione per tutti; studiare l’arte e l’architettura e chissà, anche legge. Pensavo al mio futuro e non vedevo altro che Gregorio e l’abbazia… e la cosa mi rattristava. L’atteggiamento di Gregorio mi aveva contagiato, anch’io volevo di più; non mi bastava essere il servitore fidato di una delle persone più influenti del tempo.

    La mia però non era solamente voglia di avere di più, era anche voglia di sapere che non sarei vissuto a vita in una abbazia non avendo potuto fare nessuna delle cose che mi sarebbe piaciuto fare. Così quella notte si rafforzò in me il desiderio di poter diventare un cittadino di Roma e studiare; non volevo morire come un pezzente. Dovevo pensare a me stesso; se Gregorio fosse morto, dove sarei finito? Sarei tornato al mio borgo a raccogliere la frutta che cadeva dai carri diretti all’abbazia? Quello iniziò a essere il mio piccolo segreto, la mia gioia di vivere e di lottare per non lasciare che la fortuna di essere scelto per servire Gregorio si dissolvesse, senza che ne potessi approfittare in qualche modo.

    Alcune settimane dopo il mio incontro con Luca Savelli, arrivò un suo messaggero. Gregorio era emozionato e gli corse incontro come un bambino verso la madre. Si era dimenticato pure che aveva un servo da mandare incontro al messo e questo diceva tutto su quanto puntasse a quell’incontro. Fece le scale per salire al suo studio quasi correndo mentre gridava: «Dante, il messo di Savelli. Mi ha consegnato un messaggio».

    Io ero già nel suo studio e fu contento nel vedermi lì.

    Ma mentre mi guardava, si fermò un momento. Poi come se si fosse dimenticato qualcosa, si diresse verso la finestra e si affacciò. «Dimenticavo, il messo mangia con noi oggi!», disse al frate che stava accompagnando il messo all’uscita.

    Poi, come un bambino è desideroso di scartare il suo regalo, aprì il rotolo di pergamena. Si accorse che stava esagerando… così riprese un po’ di contegno, ricongiunse le mani, si sedette al suo scrittoio e mi porse il rotolo di pergamena. «Siediti Dante… leggi per favore!».

    Lessi il messaggio.

    Era di Luca Savelli, che con parole adulatorie accettava l’invito di Gregorio. Anche questo mi sembrava strano; solitamente un abate del calibro di Gregorio non invita, aspetta di essere invitato, pregato, supplicato; e forse è proprio quello che avrebbe fatto il Gregorio di un tempo, ma evidentemente aveva cambiato la sua politica.

    «Dante, avremo qui il senatore romano, non è stupendo? E non si è fatto nemmeno pregare…». Poi si lasciò scappare: «È proprio il nostro uomo!».

    Si accorse che aveva parlato troppo, ma fece finta di nulla alzandosi dallo scrittoio.

    «Andiamo a pranzo!… Abbiamo un ospite».

    Mentre scendevamo le scale, un urlo agghiacciante squarciò il silenzio. Era la cuoca che continuava ad urlare.

    «Oh mio Dio!… Oh mio Dio!», ripeteva.

    Ci precipitammo giù nelle cucine da dove provenivano le grida e io arrivai per primo. Vidi la cuoca con le mani sulla faccia mentre guardava in basso. Avanzai lento e più mi avvicinavo, più intravedevo il corpo di una persona. Sbiancai nel riconoscere il messo di Luca Savelli giacere per terra in una pozza di sangue. Un coltello da cucina gli era stato piantato nel cuore e il suo orecchio era stato tagliato. Presi sottobraccio la cuoca e la portai fuori proprio nel momento in cui arrivò Gregorio. I nostri sguardi si incrociarono e lui capì subito di chi era il cadavere. Per quello si affrettò e, inginocchiandosi sul corpo, urlò: «No! Questo no!… Proprio ora!».

    C’era stato un omicidio e la sola cosa di cui si preoccupava era che il morto fosse proprio il messo dei Savelli. Come al solito però, corresse subito le sue palesi considerazioni dando una veloce estrema unzione. Nel giro di pochi attimi, davanti all’entrata della cucina, ci furono una ventina di persone tra frati e servi. Gregorio disse di mantenere la calma. Molti, infatti, stavano già dicendo che c’era un assassino tra di noi. Gregorio era visibilmente scosso e irritato, ordinò a due servitori del gruppetto di curiosi di togliere il corpo da lì e trasferirlo nella cripta in attesa di decidere il da farsi. Mentre lo portavano via, mi avvicinai a Gregorio e gli dissi che forse dovevamo indagare per sapere qualcosa di più.

    «Dobbiamo?!… Ricordati che sei solo un servitore e che qui decido io cosa fare e cosa non fare!», urlò. «Non accetto consigli da nessuno, guai a voi se so che qualcuno ha riferito una tal questione al di fuori di questa abbazia!», aggiunse.

    Era furibondo! Non era più lui, o meglio, era tornato il Gregorio di un tempo. Qualcosa, qualcuno aveva frustrato i suoi piani. Già… Chi l’avrebbe detto ai Savelli? Ma soprattutto, cosa gli avrebbe detto? Dopo aver fatto tornare tutti alle loro attività, mi chiamò nel suo studio e io lo seguii. Inutile dire che tremavo come una foglia.

    CAPITOLO 3

    A.D. 1243

    agosto-settembre

    «Non ti permettere mai più di rivolgerti a me in quel modo in pubblico… sei il mio servo!», mi disse con la giugulare gonfia.

    Poi stette un bel po’ a fissare il vuoto; per me passò una vita. Non riuscii a dire nemmeno una parola, neanche di scuse. A un certo punto lo vidi più calmo e con un colorito più normale; si avvicinò al mio orecchio e a bassa voce mi sussurrò: «Solo in privato ti concedo di essere il mio consigliere, ma che non succeda più davanti ai frati e agli altri servi. Se solo sapessero che mi confido con te farebbero una rivolta».

    Bastò questo a farmi tornare il sorriso e a distendere il clima. Purtroppo però, non poteva tornare tutto come prima, perché avevamo un cadavere da sistemare e un assassino da trovare, non potevamo pensare ad altro.

    «Dante, per i Savelli ho pensato che possiamo aspettare che ci chiamino e a quel punto diremo loro che noi non sappiamo nulla e che l’abbiamo visto lasciare il borgo sulle sue gambe… Che ne pensi?».

    Ero con uno dei più alti rappresentanti della Chiesa dopo il papa e mi stavo rendendo complice di un peccato capitale. Non riuscivo ad accettare che proprio dentro l’abbazia stavo vedendo giochi di potere tali da non curarsi di coprire un peccato capitale come l’omicidio con un altro peccato, anche se veniale, come la menzogna. Così, ora lo posso confessare, pensavo di trovarmi proprio nella famosa spelonca di ladroni di cui si parla nel Vangelo e che quello fosse un luogo sempre più lontano da Dio. Non avrei voluto avere niente a che fare con un omicidio.

    Ma la mia risposta si limitò a essere soltanto: «Penso sia un’ottima idea, padre!».

    Dopo quella conversazione, Gregorio mi disse di andare con lui nella cripta per esaminare il corpo; nel frattempo l’abate aveva fatto sbarrare e circondare dalle guardie tutto il borgo perché voleva sapere cosa stesse succedendo… Si chiedeva: Perché uccidere proprio il messo dei Savelli?. Allora forse qualcuno oltre l’abate sapeva cosa stava accadendo. Io ancora non capivo… Quanto avrei voluto chiedere a Gregorio cosa mi stesse nascondendo, cosa stesse progettando, ma non potevo; non era quello il momento, soprattutto dopo la sfuriata di poco prima. Così dovevo seguirlo passo dopo passo e cercare di capire qualcosa. Quello fu un buon momento per carpire alcuni segreti.

    Mentre il corpo del messo stava lì sull’altare della cripta, Gregorio parlava sottovoce fra sé e intanto studiava la ferita. Estrasse il grosso coltello da cucina e guardò attentamente il taglio. Scuoteva di continuo la testa e non si capacitava di non riuscire a trovare una soluzione. Cominciò a rovistare nelle vesti del messo, ma nulla, niente indicava chi potesse avere incontrato. Poi mi chiese di dargli una mano per spostare il corpo nelle catacombe, così per il momento sarebbe stato in un posto più consono. Intanto cominciò a farsi delle domande: Chi era veramente? Cosa ci faceva nella cucina e chi l’aveva portato lì?. Gregorio fece chiedere a tutti coloro che stavano nell’abbazia e a tutti gli abitanti del borgo, ma non trapelò niente che potesse indicare un sospettato o un movente. Dopo alcuni giorni di ricerche, Gregorio era sempre più nervoso e intrattabile così presi coraggio e gli chiesi un momento per confessarmi. Mi disse che era sorpreso di questa mia richiesta. «Ho bisogno di vedervi nel confessionale al crepuscolo», insistei.

    Ero nervoso anch’io! Desideravo quell’incontro perché, nonostante stessi tutto il giorno con lui, non aveva mai tempo di ascoltarmi con tranquillità, ma in confessionale era diverso, lì doveva

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