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Un errore così dolce
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E-book285 pagine4 ore

Un errore così dolce

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Info su questo ebook

È tornato. Già solo averlo nella stessa città sarebbe stato un dramma, ma si è addirittura trasferito nell'appartamento di fronte al mio. Ed è così bello da farmi venire voglia di mangiarmelo. Ecco perché devo stargli alla larga. Il fatto è che non so resistere. E anche se tra noi volano scintille (un paio di volte ho pensato che il palazzo sarebbe andato a fuoco a causa di uno dei nostri sguardi) non mi farò ingannare, non questa volta.
Una laurea in marketing e più di cinque anni nel settore della pubblicità mi hanno insegnato che il "vero amore" è solo una sciocchezza che si usa per vendere lucidalabbra, diamanti e profumi. Semplicemente non esiste.
Ma lui mi provoca in continuazione, dicendo che mi sbaglio. E vuole a tutti i costi dimostrarmelo. Così l'ho sfidato a provarci. E potrebbe essere stata la cosa più stupida che abbia mai fatto.

Melanie Harlow
è un'autrice bestseller di USA Today e ama definirsi una "Michigan girl". Adora i cocktail, i tacchi alti e le storie d'amore. I suoi romanzi ruotano sempre intorno a personaggi moderni in cui è facile immedesimarsi, alla ricerca del più classico dei lieto fine. Vive poco fuori Detroit con il marito e le due figlie.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2019
ISBN9788822731203
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    Anteprima del libro

    Un errore così dolce - Melanie Harlow

    Capitolo uno

    Jaime

    Ero in trappola.

    Non era una metafora: ero letteralmente, fisicamente intrappolata in un armadio. E nemmeno il mio: era il suo. Aveva il tipico odore degli armadi degli uomini, avete presente? Una base di cuoio e acqua di colonia con qualche dolce nota di testosterone qua e là. Non del tutto sgradevole. Unico e mascolino, a suo modo sexy, a dire il vero. Ma, accovacciata come una rana sulle sue scarpe da ginnastica, non ero dell’umore giusto, e di sicuro non nella posizione giusta per eccitarmi. Le cosce mi facevano male e quando mi ero intrufolata in fretta e furia nell’armadio non ero riuscita a chiudere del tutto l’anta, il che significava che ero più che visibile attraverso l’apertura. E, per di più, avevo il singhiozzo.

    L’ho già detto che ero ubriaca?

    Oh Cristo.

    Avevo appoggiato il bicchiere di vino da qualche parte, vero? A cosa cavolo stavo pensando? E per quale assurdo motivo appena l’avevo sentito entrare mi ero nascosta in quel cazzo di armadio invece di uscire dalla porta sul retro? Avrei potuto raggiungere il mio balcone attraverso le scale di servizio, o addirittura sgattaiolare fino alla porta d’ingresso, fingendo di essere appena tornata dal lavoro. Lui non sapeva che mi ero presa un giorno libero.

    Dio, che stupida.

    E non avevo neanche scoperto nulla di utile per le mie indagini, a parte che mancavano due preservativi dalla scatola di Trojan da dodici (taglia extralarge, se vi interessa) che era nel cassetto del suo comodino. Chissà se li aveva usati nel corso di quelle due settimane, da quando si era trasferito. Vivevo al piano di sopra, la sua camera da letto era proprio sotto la mia, e non mi era sembrato di sentire nessun gemito attraverso il pavimento, ma io lavoravo tutto il giorno, a volte pure fino a tardi… e forse lui era uno di quelli che se la spassano il pomeriggio.

    Sembrava proprio il tipo. Un bel boccone da assaporare mattina, pomeriggio e sera. Come quei deliziosi, piccoli panini farciti di Pancake House.

    Mi saliva dentro una gelosia immotivata mentre lo immaginavo farcire a suo modo una bella biondina, sussurrandole porcate all’orecchio, facendo cigolare le molle del materasso mentre le persone adulte, quelle che vivono nel mondo reale e che hanno un lavoro vero, si spezzavano la schiena in ufficio. Smettila. Hai problemi ben più grossi che scoprire chi si sbatte mentre sei in ufficio. Tipo uscire da qui, per esempio.

    Hic!

    Oh cielo. Se fosse entrato nella stanza, mi avrebbe scoperto di sicuro.

    Ma perché era tornato a casa così presto? Mi sembrava che avesse lezione fino a tardi il giovedì. L’avevano annullata per il maltempo? O forse l’aveva saltata perché non se la sentiva di guidare con la neve? Che fighetta. Avevano previsto venti, al massimo venticinque centimetri di neve. Praticamente niente in Michigan! La California doveva averlo rammollito.

    Hic!

    Oh, merda. Sta arrivando.

    Stava entrando nella stanza, lo sentivo, così ho provato a indietreggiare, ma sono inciampata sulle sue scarpe sbattendo i piedi contro l’anta dell’armadio. Merda! Mi aveva sentito? Ho trattenuto il respiro quando è passato di fronte al guardaroba, diretto verso il bagno. Un attimo dopo, ho sentito il rumore di una cintura che veniva slacciata. Una cerniera lampo abbassata.

    Ho alzato gli occhi al cielo. Gesù. Ma dai! Non chiude la porta quando fa pipì? Gli uomini sono proprio dei maiali.

    Lo sciacquone, poi l’acqua che scorreva nel lavandino. Almeno si lava le mani.

    «Allora, bellezza… che ne dici di una bella doccia calda?».

    La sua voce mi ha spaventato e il cuore ha cominciato a battermi all’impazzata nel petto. C’era qualcun altro? Gesù, esisteva una cosa peggiore che farsi beccare da Quinn Rusek nel suo armadio? Certo che sì: farsi beccare nel suddetto armadio di fronte alla ragazza che aveva intenzione di sbattersi sotto la doccia. Eppure non avevo visto nessun altro – stava parlando con me?

    Hic!

    Mi sono tappata la bocca con una mano, pensando disperatamente a una scusa credibile. Alex, mio fratello maggiore, era il proprietario della casa e io avevo, diciamo, in gestione i due appartamenti. Perciò non era totalmente assurdo che mi trovassi lì. Se magari ci fosse stato un qualche problema…

    Mio fratello mi ha chiesto di controllare… ehm…

    Il riscaldamento. Farà molto freddo stanotte.

    Il frigo. Fa ancora quel ronzio fastidioso?

    I tubi. Ho il lavandino intasato.

    Sì, ecco. Un problema di tubature.

    Poi ho sentito entrare qualcuno. Sapevo che tu eri a lezione fino a tardi e mi sono spaventata a morte. Sono corsa a nascondermi nell’armadio, terrorizzata!

    Ancora meglio. Così si sarebbe sentito in colpa lui per avermi spaventato. Era un amico di Alex, però, quindi se non avessi fatto attenzione ci avrebbe messo un attimo a scoprire la mia bugia. Dovevo assolutamente chiamare mio fratello. E liberarmi di quel cazzo di singhiozzo.

    «Ma sì, starsene al caldo, nudo e bagnato, sembra proprio un bel piano per questo pomeriggio gelido».

    Trattenendo il gridolino che minacciava di sfuggirmi dalla gola, ho appoggiato mani e ginocchia a terra, affacciandomi con l’intenzione di trovare una via di fuga. Non nutrivo la speranza di dare un’occhiata al suo petto nudo. Agli addominali scolpiti. Al cazzo extralarge. Niente affatto.

    A un certo punto, il maglione blu scuro che indossava è volato fuori dal bagno, atterrando sul pavimento davanti a me. Ma che cazzo? Si stava spogliando? Di certo avrebbe chiuso la porta se fosse rimasto nudo, no?

    Mi sono sporta un po’ più avanti.

    «Ah, adesso sì che me la goooodo».

    E poi, sono stata colpita da due cose. La prima: una T-shirt, che mi è finita dritta in faccia prima di atterrare sul maglione. La seconda: la consapevolezza che mi stava stuzzicando.

    Sono tornata a nascondermi nell’armadio.

    Sa che sono qui, il coglione. Sta giocando con me.

    Come ai vecchi tempi. Come facevamo nella piscina sul retro di casa mia, solo addirittura con meno vestiti addosso. Be’, se pensava che mi sarei arresa solo perché minacciava di spogliarsi, si sbagliava di grosso. Potevo rimanere lì anche tutto il giorno.

    Ho sbirciato di nuovo.

    O. Mio. Dio.

    Sono rimasta a bocca aperta. Se ne stava lì – senza maglietta, con i jeans slacciati – in posa di fronte allo specchio. Tendendo i bicipiti. I pettorali. Gli addominali.

    Ogni linea e ogni curva del suo corpo era pura perfezione: le cosce muscolose, il sedere rotondo, la vita stretta, le braccia scolpite. Non che ne fossi sorpresa. Aveva smesso di fare il modello da qualche mese, ma continuava ad allenarsi ogni giorno come se fosse ancora il suo lavoro. E poi c’erano i doni che gli aveva dato la natura, quelli per cui non doveva neanche faticare: occhi azzurri capaci di mandarti in pappa il cervello, lineamenti impeccabilmente simmetrici, mascella squadrata e pelle perfetta.

    Dopo essersi baciato i bicipiti – sul serio? Non ci credo – si è strofinato il collo con una mano, mentre l’altra scivolava lentamente sull’addome scolpito raggiungendo l’orlo delle mutande.

    Ero senza fiato.

    Oddio. Oddio. Oddio. Non arriverà fino a quel punto, vero?

    Sudavo, il corpo teso all’estremo. Il singhiozzo se n’era andato, almeno.

    Cosa dovevo fare? Arrendermi?

    È quello che farebbe una brava persona, mi diceva la coscienza.

    Ma io ero una brava persona?

    Sei una guardona ubriaca. Direi proprio di no, quindi.

    E allora? Che male c’era a dare solo una sbirciatina? Arrivata a questo punto, potevo anche spingermi fino in fondo… Se mi fossi arresa, avrebbe avuto la partita in pugno. Non era meglio smascherare il suo bluff? Vedere fino a che punto riusciva a spingersi?

    Grande, ora sei una pervertita, oltre che una guardona.

    E forse era vero perché, quando è scomparso dietro la porta socchiusa aprendo l’acqua della doccia, sono sgattaiolata fuori per avere una migliore visuale. Magari potevo intravedere il suo riflesso allo specchio, no? O forse sbirciarlo attraverso la fessura dalla porta?

    All’improvviso, un paio di jeans sono volati per la stanza atterrando con un tonfo di fronte a me.

    Seguiti subito dai boxer blu attillati.

    Non ho avuto neanche il tempo di farmi girare la testa, perché la porta si è spalancata e Quinn è comparso sulla soglia, coprendosi il pacco come se al posto delle mani avesse due maledette foglie di fico.

    Sono rimasta senza fiato.

    «Allora?», ha chiesto con quegli occhi azzurri e vibranti. «Ora che si fa?».

    Oh, Cristo Santo.

    E all’improvviso non stavamo più giocando.

    Capitolo due

    Jaime

    Magari vi starete chiedendo come ha fatto una donna sana di mente, istruita e del tutto razionale come me a finire intrappolata nell’armadio di un uomo.

    Posso spiegare.

    Quando mio fratello Alex mi ha telefonato per chiedermi un favore, pensavo che c’entrassero le sue nozze ormai imminenti. O, come le chiamava lui, il mio grosso grasso matrimonio gay. Proprio come me, Alex non ama lo sfarzo e l’ostentazione, ma Nolan, il suo fidanzato, ha sempre sognato di sposarsi in primavera in pompa magna e dunque è così che andrà, il prossimo cinque aprile. (Mio fratello è una bella persona, al contrario di me).

    «Che ti serve?». Il fiato caldo disegnava sbuffi argentati di vapore mentre attraversavo il parcheggio gelido all’uscita dal lavoro. Erano più o meno le cinque del pomeriggio, non staccavo così presto da almeno due settimane, ma era stata una lunga giornata e in quel momento volevo solo togliermi i tacchi e versarmi un bel bicchiere di vino. Avevo ancora del lavoro da sbrigare, ma potevo farlo da casa. «Fammi indovinare… Nolan vuole un drone per le fotografie».

    Alex ha riso. «No».

    «Una coppia di lama?». Ho spostato il cellulare nell’altra mano e ho infilato la chiave nella portiera della macchina. «Una vasca idromassaggio? Ariana Grande?»

    «Perché, potresti portarci Ariana Grande?»

    «Se te la porto sono esonerata dal discorso al ricevimento?»

    «Certo che no».

    «Be’, allora no, non posso». Scivolando sul sedile, ho chiuso la portiera. «Ma se ti interessa una star dell’industria automobilistica, sono al tuo servizio».

    In verità l’agenzia di marketing per cui lavoravo aveva clienti di ogni sorta, ma a Detroit erano quasi tutti del settore automobilistico.

    «No, grazie. E comunque, non chiamo per il matrimonio. È per la casa».

    «Oh». Ho fatto manovra, prendendo la lunga rampa verso l’uscita.

    «Ecco, potrei aver trovato un affittuario, se per te non è un problema».

    «Certo che no. Scusa, avrei dovuto darti una mano a cercare qualcuno. So che ti fa comodo l’affitto del piano di sotto. È che sono stata molto impegnata durante le vacanze e poi la scorsa settimana ho avuto quella presentazione importante…».

    «Non ti preoccupare. Siamo tutti impegnati, poi alla fine avrò comunque bisogno del tuo aiuto visto che è solo una soluzione temporanea».

    «Come mai?». Ho aperto il cancello con il pass e mi sono immessa nella via principale, guardando male il tizio che mi ha tagliato la strada passando con il rosso.

    «Perché gli serve un posto per un mese solo. Giusto il tempo che finiscano i lavori nel suo condominio. In realtà non sarebbe dovuto tornare in città prima di marzo, ma il contratto d’affitto a Los Angeles gli scadeva all’inizio dell’anno. Sono due settimane che vive in un albergo in centro, ma è stanco della vita in hotel: non sopporta più il cibo e il rumore, e soprattutto quanto gli costa. E poi, mi sembra un po’ solo. E visto che l’appartamento al piano di sotto è già arredato, ho pensato che fa proprio al caso suo».

    Solo? «Aspetta, lo conosci?»

    «Sì. È…». Si è schiarito la voce. Brutto segno. «Quinn».

    Non sono riuscita a frenare un gemito.

    «Lo so, lo so, non ti va proprio a genio, chissà perché…».

    «Forse perché con me si è comportato da stronzo prepotente e altezzoso. A parte questo è un ragazzo adorabile».

    «E dai, saranno passati almeno dieci anni da quando è successo».

    Ho sgranato gli occhi. C’era proprio bisogno di tirar fuori quella storia?

    «Guarda, sono sicuro che non se lo ricorda nemmeno».

    «Ma se te lo ricordi tu. Non posso credere che te l’abbia detto».

    «Ha pensato che fosse la cosa più giusta. Sapeva che eri sconvolta e si sentiva in colpa. Ci teneva a spiegarmi che non ha fatto nulla per incoraggiarti e che non ti ha mai sfiorato nemmeno con un dito. Mamma e papà gli pagavano mezza retta universitaria – cosa doveva fare secondo te?».

    Baciarmi, magari? Amarmi come lo amavo io?

    Con una fitta di dolore, ho ripensato al giorno in cui avevo cercato di sedurre il migliore amico di mio fratello alla festa del diploma a casa nostra. Tutti gli orribili particolari mi hanno inondato la mente come acqua dopo il crollo di una diga… Il vino nel bicchierone di carta rosso, buttato giù in un sorso solo per trovare il coraggio di fare la mia mossa. La totale mancanza di grazia con cui avevo spinto nel bagno al piano di sotto il ragazzo per cui avevo una cotta, chiudendo la porta alle nostre spalle. Il cuore che batteva all’impazzata mentre mi gettavo addosso a lui, in costume, avvicinando le labbra alle sue.

    L’imbarazzante momento in cui mi ero resa conto che non ci stava.

    Era scoppiato a ridere.

    Quello stronzo aveva riso di me.

    «Jaime, che diavolo stai facendo?». Aveva acceso la luce, mi fissava con un misto di imbarazzo e perplessità. Aveva degli occhi così belli, di un azzurro capace di farti rabbrividire.

    «Non è ovvio?». Con una nuova audacia, gli avevo appoggiato la mano sul pacco, sentendo il cazzo fremere sotto il nylon del costume umido.

    «Cristo, fermati». Rideva sempre più nervosamente mentre mi allontanava la mano.

    «Perché? Non è quello che vuoi?». Sbattevo gli occhi, confusa. Non sentiva la stessa chimica che percepivo io quando eravamo insieme? Erano mesi che mi guardava in maniera diversa, prendendomi in giro più del solito e flirtando anche di fronte agli altri. Appena un’ora prima, mentre giocavamo in piscina, mi aveva messo le mani ovunque – ero certa che mi avesse sfiorato il culo più e più volte. Avevo frainteso tutto, forse?

    Adesso mi sembrava a disagio.

    «Ascolta, per me sei come una sorellina e…».

    «Ho solo un anno meno di te», avevo ribattuto, provando a scivolargli di nuovo accanto. «E non sono per niente tua sorella».

    Quinn si era allontanato ancora da me, passandosi una mano fra i capelli biondo cenere, ancora umidi per il bagno in piscina.

    «Sì, ma… Mi dispiace. Non posso e basta».

    Ed era stato in quel momento che gliel’avevo detto.

    (Tenetevi forte).

    «Ma io ti amo».

    Aveva strabuzzato gli occhi. «Cosa?»

    «Mi sono innamorata di te, Quinn».

    Dopo un momento di totale silenzio – nessuno dei due riusciva neppure a sbattere le palpebre – Quinn era scoppiato a ridere. Di gusto.

    La vergogna e l’umiliazione avevano cominciato a scorrermi nelle vene. «Oddio. Dimentica tutto. Questa cosa non è mai accaduta». Senza aggiungere altro, avevo spalancato la porta ed ero corsa dritta in camera mia, con le lacrime che mi bruciavano negli occhi. Come avrei potuto guardarlo in faccia di nuovo?

    Fortuna volle che non fui più costretta a farlo. Forse voleva evitare la mia casa (o forse me) di proposito, o magari era completamente preso dai preparativi per il college: in ogni caso, un mese dopo il fattaccio, Quinn era partito per la UNC Chapel Hill e io non l’avevo visto mai più.

    Non era durato neanche un anno là, perché una qualche agenzia di modelli lo aveva scoperto – ogni volta che ci penso, alzo gli occhi al cielo – e aveva incollato la sua stupida faccia perfetta sulle buste di quei negozi che dissanguano i ragazzi spingendoli a comprare vestiti made in China a prezzi troppo alti.

    E nelle foto non indossava neanche i loro vestiti! Era sempre seminudo – ridicolo, davvero! (Anche se questo non mi aveva impedito di prendere ogni singolo catalogo e nasconderlo sotto al letto).

    Alla fine, dopo aver finito il liceo e studiato marketing, ho capito che quelle foto non avevano il solo scopo di vendere vestiti… Vendevano un’idea. Uno stile di vita. Un marchio.

    Nello stesso periodo ho imparato anche che non bisogna fidarsi di niente e nessuno che sembri troppo bello per essere vero. Tutti vendono qualcosa – e se non sei tu che stai vendendo, allora stai comprando.

    E io di stronzate ne ho già comprate anche troppe, nella mia vita.

    «Jaims, ci sei?». Alex mi pareva un filino impaziente.

    «Sì, sì, sono qui», ho risposto. «Scusa».

    «Allora, va bene per te?».

    Avrei voluto rispondere di no – in fondo Alex diceva sempre che l’ultima parola su chi avrebbe occupato l’appartamento di sotto spettava a me – ma non potevo. Mio fratello non mi faceva scucire quasi nulla per l’affitto e, quando mi serviva un favore, non si tirava mai indietro. «Solo per un mese?»

    «Un mese», ha ribadito. «E poi sloggia. Forse anche meno, dipende dai lavori a casa sua. Tu sei sempre in ufficio, comunque, scommetto che non vi incrocerete nemmeno».

    «Ottimo». Ho imboccato la via di casa e ho notato una BMW nera targata California parcheggiata accanto al marciapiede. Le luci nell’appartamento erano accese. «Santo cielo, Alex… ma è già qui?»

    «Ehm, ora devo proprio andare».

    «Cosa avresti fatto se avessi detto di no?», ho sbottato entrando nel vialetto. Non lo aveva bloccato con la sua stupida macchina, almeno. Probabilmente avrei dovuto sgomberare il garage e dargli il secondo posto auto. Non che ne avessi il tempo. Mi sta già infastidendo, visto?

    «Per favore, ascolta, devo scappare davvero. Abbiamo appuntamento con il fioraio, e Nolan dice che devo assolutamente andare anch’io. Fammi solo un favore: comportati in maniera civile, intesi? Hai saputo di sua madre».

    Quel pensiero ha lenito la mia irritazione. Aveva lavorato come domestica da noi per… un’eternità, praticamente. Una madre single che di sera faceva anche la cameriera e lasciava spesso Quinn da solo. Da ragazzo avrà mangiato più da noi che a casa sua, nonostante la madre fosse una cuoca provetta. Nostra madre, con la sua laurea in ingegneria biomedica, sapeva a malapena bollire un uovo; ma la signora Rusek ci portava spesso deliziose zuppe, pane, polpette e pierogi fatti in casa. Forse si sentiva in debito per tutto il tempo che Quinn passava da noi.

    «Sì, mamma me l’ha detto appena è successo. Cancro, giusto? Quando è stato, due anni fa?»

    «Sì. Quinn l’aveva portata in California per seguirla nelle cure. Credo che si sentisse in colpa per essere stato così preso da lavoro e viaggi da non accorgersi che stava male. Mi ha detto che avrebbe dovuto portarla da un dottore molto, molto prima».

    «È terribile». Quando avevo saputo che la signora Rusek era morta, avevo pensato di contattare Quinn. Avevo comprato addirittura un biglietto di condoglianze, ma alla fine avevo lasciato perdere. Il biglietto si trova ancora in fondo al cassetto della mia scrivania in ufficio.

    «E poi era a Parigi durante quegli attentati. La cosa l’ha sconvolto un bel po’».

    «Ah, non lo sapevo».

    «Nemmeno io. Non fino a poco tempo fa, almeno. Negli ultimi anni non ci siamo sentiti molto, eravamo entrambi molto impegnati, ma credo che ora abbia proprio bisogno dei vecchi amici».

    «Quindi è tornato a Detroit per te?»

    «No, ma credo che inconsciamente voglia tornare al tempo in cui le cose erano semplici, o una roba del genere. Ha detto che si sentiva un po’ perso, e voleva ritrovare la bussola. Assicurarsi di combinare qualcosa di buono nella vita».

    «Uhmm». Sono entrata in garage, ho spento la macchina e mi sono sorpresa sentendo il cuore che mi batteva fortissimo in petto. Erano passati dieci anni dall’ultima volta che l’avevo visto – e probabilmente un mese da quando avevo controllato il suo Instagram. Era incredibile: il solo pensiero di averlo di nuovo accanto mi stava condizionando. «Quindi non fa neanche più il modello?»

    «Questa è l’impressione che ho avuto».

    «Forse ha perso il suo fascino», ho detto, speranzosa. «O è ingrassato di venti chili».

    Alex si è messo a ridere. «Ne dubito. Devo davvero andare, Jaims. Perché non passi a

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