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Il trionfo dell'impero. La caduta della Britannia
Il trionfo dell'impero. La caduta della Britannia
Il trionfo dell'impero. La caduta della Britannia
E-book457 pagine6 ore

Il trionfo dell'impero. La caduta della Britannia

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Info su questo ebook

Il coraggio di pochi uomini difenderà la grandezza di Roma

42 d.C. La Britannia, terra dalle leggendarie ricchezze, è ormai l’ultima roccaforte incontrastata dei celti. Si tratta di un luogo pericoloso, abitato da uomini senza paura, guidati da mistici guerrieri druidi. Perfino i più valorosi soldati romani guardano con un misto di paura e sospetto il misterioso popolo che abita la regione. Il momento dello scontro è imminente e quattro legioni romane si sono radunate in Gallia al fine di intraprendere i preparativi finali per l’invasione. Due giovani soldati vengono inviati nel campo di addestramento sotto la spietata guida di Remo, un veterano sfregiato in battaglia. Quando l’invasione ha inizio, la potenza di Roma si abbatte con brutalità inaudita sul nemico. Uno dei guerrieri celti è costretto a fuggire dalla battaglia per intraprendere una disperata missione di salvataggio nell’isola dei druidi, dove una fanciulla sta per essere sacrificata. I destini di quattro individui, diversi per schieramento e lignaggio, stanno per intrecciarsi e rivelare un segreto in grado di cambiare il corso della storia.

È troppo tardi per la pace
Preparatevi alla guerra

Un’emozionante nuova serie sull’antica Roma, perfetta per i fan di Simon Scarrow

«Sangue, ferro e coraggio. K.M. Ashman è straordinario nel far vivere al lettore l’intero spettro dei sentimenti che devono aver provato i soldati romani sul campo di battaglia.»

«Una storia avvincente, cruda e ricca di dettagli che la rendono realistica. Questo sì che è un romanzo storico!»

K.M. Ashman
È nato e cresciuto in Galles e si dedica alla scrittura a tempo pieno. Ha pubblicato con successo oltre sedici romanzi, spaziando dal romanzo storico all’urban fantasy. Il trionfo dell’impero. La caduta della Britannia è il primo libro della serie Roman Chronicles pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2020
ISBN9788822744555
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    Anteprima del libro

    Il trionfo dell'impero. La caduta della Britannia - K.M. Ashman

    2597

    Titolo originale: Roman I. The Fall of Britannia

    Copyright © K M Ashman 2011

    Traduzione dalla lingua inglese di Marzio Petrolo

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione ebook: aprile 2020

    ISBN 978-88-227-4455-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    K.M. Ashman

    Il trionfo dell’impero

    La caduta della Britannia

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Epilogo

    Note dell’autore

    Fu un tempo di terrore,

    in cui la brutalità regnò sovrana,

    eppure, in fin dei conti,

    fu un’epoca di gloria!

    Prologo

    Provincia romana di Piceno, 20 d.C.

    Karim era in piedi al centro dell’anfiteatro, tutti i muscoli doloranti e i rivoli di sangue che gli colavano dal volto per poi cadere sulla sabbia costantemente assetata. Damocle il greco, il suo compagno di ludus, crollò in ginocchio nell’arena assolata con una mano sulla ferita da taglio che gli solcava il fianco, ricevuta un attimo prima di schiacciare il teschio del proprio avversario sotto il tacco della sua caliga chiodata in uno sfogo di violenza e spirito di sopravvivenza. Attorno ai due, tutti coloro che avevano combattuto come demoni per tenersi strette le proprie miserabili esistenze e per aggrapparsi alla tenue promessa di un’elusiva libertà giacevano morti o in fin di vita, vittime patetiche della ferocia gladiatoria.

    Quel giorno i festeggiamenti per il compleanno del governatore Sibilo Augusta erano iniziati in anticipo e l’intera arena era circondata da un’atmosfera di frivolezza. Un gruppo di nani itineranti accorsi da ogni parte d’Europa intratteneva la folla con rievocazioni di battaglie e gare a dorso di pony nel perimetro interno dell’anfiteatro.

    Stranezze della natura che di rado si vedevano a Roma, figurarsi a Piceno, vennero fatte sfilare nell’arena. Le giraffe percorrevano con grazia l’anello interno, gli occhi all’altezza degli spettatori seduti nelle file più basse, mentre scimmie gigantesche rinchiuse in resistenti gabbie vennero trascinate al centro della pista e costrette a battersi il petto dai loro domatori.

    Seguirono squadre di gladiatori addestrati, che ingaggiarono battaglie violente ma non letali per preparare la folla a quel che sarebbe seguito. Per tutto il giorno, le emozioni e la violenza andarono aumentando finché infine il ritmo soffuso di tamburi distanti non permeò l’intera arena, sostenendo la febbrile trepidazione del pubblico.

    L’eccitazione esplose finalmente quando vennero spalancati due cancelli di legno e una mandria di tori con la bava alla bocca e accecati dal dolore si riversò nella pista nel tentativo di sfuggire alle torture in corso dietro le quinte. Si trattava della Venatio, il brutale spettacolo che contrapponeva animali e uomini in una dolorosa e violenta lotta unilaterale. Si aprì un altro cancello e dieci bestiarii, gladiatori addestrati per affrontare gli animali, si lanciarono all’inseguimento delle bestie mentre venivano sommersi dalle urla della folla in tripudio.

    Non appena le lotte preorganizzate giunsero al termine, gruppi di criminali scarsamente preparati furono costretti ad affrontare animali esotici, incluse tigri dall’Est e ippopotami e coccodrilli dall’Africa. Alla fine, venne versato il primo sangue umano, ma non era altro che un preludio a quel che sarebbe accaduto.

    La folla poté poi godere di una meritata pausa; i cittadini erano assetati dopo aver assistito a tanta violenza. I commercianti nei vomitoria vendevano bevande e dolciumi, e una fila di schiave a petto nudo e con in mano cesti contenenti la carne degli animali cotta arrosto si aggirava per l’arena lanciando bocconi di cibo tra il pubblico. Molti si erano portati da mangiare da casa, e avevano fatto una pausa con frutta e formaggio o, nel caso dei più benestanti, pezzi di carne fredda accompagnati da fiaschi di vino tiepido.

    Infine il pubblico tornò a sedersi, in attesa dello spettacolo del tardo pomeriggio. Era allora che sarebbe iniziato il vero divertimento, quel che tutti stavano aspettando. Sangue e violenza, meglio se perpetrati tra esseri umani.

    Il primo turno spettò ai noxii, i criminali condannati all’arena per aver commesso sconsideratezze punibili con la morte. Adulteri, schiavi fuggiti, disertori, o semplici nemici di guerra, tutti venivano costretti a combattere l’uno contro l’altro fino allo stremo per guadagnarsi l’opportunità di vivere un giorno in più. Finte battaglie si susseguirono nell’arena; soldati con indosso i loro migliori abiti da parata abbattevano schiavi disarmati che rappresentavano i nemici di Roma, in sfarzose rievocazioni di celebri battaglie ben note al pubblico.

    Donne e bambini condannati vennero riversati privi di armi nell’arena, momentaneamente sollevati per l’inattesa libertà; un istante dopo, però, i ruggiti dei leoni affamati li portarono a riflettere sulla loro nuova e alquanto breve aspettativa di vita. Infine, arrivò il momento che tutti avevano atteso, l’evento principale del giorno: i giochi gladiatori.

    Sedici combattenti addestrati, all’apice di prestanza e abilità fisica, marciarono nell’anfiteatro accompagnati da urla assordanti e musica. Eccolo il fulcro, la celebrazione finale per il cinquantesimo compleanno del governatore Sibilo Augusta. Una sfilata di magnificenza gladiatoria che gli era valsa la concessione dei combattimenti sine missione da parte dell’imperatore.

    Il pubblico sapeva che si trattava di un’occasione rara, e molti avevano viaggiato per centinaia di miglia per assistere a combattimenti tra gladiatori in cui ogni lottatore doveva vincere per sperare di sopravvivere. Era molto semplice. I sine missione venivano concessi di rado, poiché il costo dell’addestramento dei gladiatori era talmente esorbitante e il prezzo dei giochi talmente elevato che solo gli uomini più ricchi potevano permettersi di finanziare manifestazioni del genere. Il governatore Sibilo era uno di questi uomini, o almeno era quella l’impressione che voleva dare. In realtà stava annegando in un mare di debiti a causa di una dipendenza dal gioco d’azzardo che minacciava di mandare in frantumi la sua posizione privilegiata e la sua influenza.

    In ogni caso, era il suo compleanno e aveva un asso nella manica, un gladiatore il cui nome era quasi del tutto sconosciuto nell’arena. Sibilo aveva deciso di puntare su quest’uomo straordinario. Aveva fatto un’enorme scommessa con Gaio Pelonio Mecilio, un eroe di guerra da poco tornato in patria che si era ritirato con una sostanziosa pensione e vaste terre concessegli dall’imperatore in persona per il coraggio mostrato nei venticinque anni di servizio militare.

    Sibilo gongolò tra sé e sé. Che poteva saperne un semplice soldato di tali questioni? Al termine dei giochi, i suoi debiti si sarebbero ridotti in modo sostanziale, ovviamente alle spese dell’ex militare. L’accordo era semplice. Sibilo aveva scommesso che durante la finale Karim, il numida dalla lucente pelle nera, sarebbe stato l’ultimo uomo vivo in tutta l’arena.

    Pelonio aveva accettato la scommessa tra i fumi dell’alcol e ora, trascorse tre settimane e dopo aver assistito agli allenamenti del gladiatore, si pentiva della decisione presa quella sera, e in particolare del suo amore per il vino non diluito, il maledetto vizio che tanto spesso gli era costato più di quanto potesse permettersi. Tuttavia, il dado era tratto e non poteva più farci nulla.

    Karim si era allenato per ricoprire il ruolo di provocator e combatteva con la spada e lo scudo, protetto da un pettorale metallico, un parabraccio e un elmo a doppia piuma. I provocatores di solito combattevano l’uno contro l’altro, ma in alcuni casi potevano scontrarsi contro altri tipi di gladiatori, dai retiarii, che si battevano armati di tridente, daga e rete da pesca, fino agli hoplomachi, esperti nel combattimento con la classica spada in dotazione all’esercito romano, il gladio, e un piccolo scudo circolare.

    La sanguinosa battaglia ebbe inizio, e quando gli originari sedici contendenti si ridussero a otto l’equilibrio nella mischia venne alterato dall’improvvisa aggiunta di due carri immessi nell’arena. Provenivano da un altro tipo di giochi, e ciascuno dei mezzi ospitava due lottatori armati di lance. Erano i temuti essedarii, e il loro unico scopo era quello di uccidere i lottatori rimasti in vita.

    I gladiatori unirono le forze per abbattere i carri. Scagliarono le lance tra i raggi delle ruote e falciarono le zampe ai cavalli con spade o asce. Senza il vantaggio dei carri, gli uomini a bordo erano del tutto inefficaci, e a dispetto della strenua difesa non erano all’altezza della soverchiante esperienza dei gladiatori locali nell’infliggere una morte violenta e dolorosa.

    Ma proprio quando i rimanenti otto iniziavano a sperare di poter sopravvivere, ricevettero l’ordine di combattersi a vicenda. Ciascun lottatore esausto fece ricorso all’ultimo briciolo di forza per tentare di sconfiggere gli avversari, ognuno abilissimo nella propria specialità; alla fine le estenuanti battaglie serali avevano lasciato in piedi due soli gladiatori: Karim il numida e Damocle il greco.

    Karim tornò a volgere lo sguardo verso Damocle. Era ormai chiaro che non vi sarebbe stata alcuna pietà e che il governatore li avrebbe costretti a lottare all’ultimo sangue. Il greco era suo amico e i due si erano addestrati spesso insieme per i giochi. Non era mai una buona idea stringere amicizie per via della probabilità che un giorno ci si ritrovasse a scontrarsi l’uno con l’altro. A ogni modo, nel corso dell’ultimo anno, i due avevano instaurato un forte legame nato dal mutuo rispetto e dalla comprensione reciproca. Karim aveva capito che a dispetto di quell’amicizia era giunto il momento di affrontare il suo compagno nella battaglia finale. Era quel per cui si erano addestrati, ed entrambi sapevano che un giorno sarebbero morti nell’arena. Nessuno dei due temeva la morte, ma tenevano al modo in cui si moriva. Karim si avvicinò al greco zoppicando e lo aiutò a rimettersi in piedi.

    «Forza, amico», disse, «abbiamo un romano corrotto e una folla assetata di sangue da intrattenere».

    Damocle alzò lo sguardo sul pubblico in visibilio.

    «Non hanno assaporato sangue a sufficienza?»

    «Sono romani», rispose il numida, «non sarà mai abbastanza».

    «Allora diamo loro un finale che valga la pena ricordare».

    Si incamminarono verso il centro dell’arena, a una ventina di passi l’uno dall’altro, il viso rivolto allo spietato promotore dei giochi. Fieri, entrambi coperti di sangue in piedi in mezzo alla carneficina che li circondava, eppure esaltati dalle urla e dalle cantilene della folla in adorazione.

    In alto sugli spalti, il governatore Sibilo e i suoi ospiti si godevano lo spettacolo dai loro comodi sedili, spiluccando dolcetti e bevendo il miglior vino fresco proveniente dalle cantine della villa del governatore, un lusso che nemmeno si sarebbe potuto permettere. Sibilo richiese a gran voce che venisse fatto silenzio.

    «Cittadini di Piceno», annunciò non appena il clamore della folla si fu placato, «osservate i due campioni rimasti, Damocle il greco e Karim il numida. Sono certo che concorderete con me sul fatto che la gara sia stata giusta e che entrambi si siano guadagnati il rudis».

    Incrociò lo sguardo dell’arbitro, i cui meticolosi accoppiamenti avevano fatto in modo che Karim avesse avversari favorevoli negli ultimi due turni. Il giudice non si sentiva di certo in colpa, i duecento denari ricevuti da uno degli scagnozzi di Sibilo equivalevano allo stipendio di un anno per un funzionario di basso livello, e l’uomo aveva una famiglia da mantenere.

    La folla esultò. La simbolica spada di legno della libertà raramente veniva concessa, e mai a due lottatori. Sibilo sollevò la mano, in attesa che il pubblico si placasse.

    «Purtroppo», continuò, «è possibile conferire un solo rudis».

    «Lasciateli andare entrambi», gridò qualcuno.

    Ancora una volta, Sibilo sollevò la mano con un sorriso benevolo in volto.

    «Tuttavia», proseguì, «la gara non è giunta al termine».

    Il silenzio avvolse di nuovo l’arena e il governatore si voltò verso i due gladiatori feriti che lo fissavano dalla pista ricoperta di sangue.

    «Un’ultima competizione», tuonò, «contro un nemico comune. Sopravvivete e sarete entrambi uomini liberi».

    Karim e Damocle costrinsero i loro stanchi corpi a ergersi in tutta la loro imponenza; sollevarono le spade per dimostrare di aver udito le parole del governatore. Sibilo si girò verso un altro cancello e con tutto il fiato che aveva fece riecheggiare le proprie parole tra i muri dell’arena, presentando la sfida finale.

    «Cittadini di Piceno», gridò, «ammirate i galli!».

    La folla esultò in preda all’euforia quando una ventina di guerrieri si riversò nell’arena, ma poi tutti tacquero, confusi dallo spettacolo che si parava davanti ai loro occhi. Non erano affatto guerrieri, ma donne. Avevano i capelli crespi e acconciati in forme orripilanti con colla di pesce, e i loro corpi nudi erano imbrattati di vernice blu. Ogni donna aveva in mano un pugnale da scuoio e con gli occhi sondava l’arena in cerca dei bersagli che rappresentavano la chiave per la sopravvivenza.

    Gli spettatori non erano gli unici a essere confusi; nemmeno Gaio Pelonio comprendeva cosa stesse accadendo. Sapeva che Sibilo avrebbe cercato di imbrogliarlo, ma quello era del tutto imprevisto. Donne o meno, erano moltissime e c’era una possibilità concreta che Karim venisse ucciso.

    «Soddisfatto della tua scommessa?», chiese il governatore appoggiandosi allo schienale accanto al suo ospite.

    «Non dovrei esserlo?», domandò Pelonio.

    «Non vedo perché no, le probabilità sono chiaramente a tuo favore».

    Un corno risuonò nell’arena, seguito dalle urla delle donne che si lanciavano contro i due gladiatori, entrambi i suoni sommersi dal ruggito della folla che accompagnò l’inizio dell’ultima battaglia.

    Karim era pronto. Non aveva problemi a uccidere delle donne, lo aveva fatto diverse volte in passato, e quelle non erano certo diverse. Si preparò alla carneficina, gambe e spalle larghe, ginocchia leggermente piegate, scudo sollevato e gladio in posizione d’attacco. Ma l’assalto che attendeva non arrivò mai, perché le donne strepitanti lo evitarono e sciamarono attorno a Damocle. Karim si voltò confuso, osservando la mischia che avviluppava il suo amico. Sebbene molte di loro caddero vittima della spada del greco, alla fine venne sopraffatto e gettato a terra dal gran numero di corpi.

    Poco prima il carceriere aveva spiegato un concetto semplice al gruppo di donne.

    «Se uccidete prima l’uomo bianco», aveva detto, «chiunque di voi sopravviva verrà riportata nel proprio Paese e liberata. Se viene ucciso prima il nero, le sopravvissute verranno date in pasto ai leoni».

    La menzogna aveva funzionato alla perfezione. Per quanto ne sapevano, quella era la loro unica opportunità per sfuggire all’inferno della schiavitù e tornare a casa. Perciò, con la falsa speranza nel cuore, avevano sopportato i goffi tentativi degli altri schiavi di farle sembrare feroci con pittura e colla tra i capelli, prima di essere trascinate nell’arena.

    Karim intuì il pericolo troppo tardi e in preda alla rabbia si lanciò nella mischia, menando fendenti a qualsiasi forma in movimento. Le donne si fecero prendere dal panico, e quelle poche rimaste, isteriche, si precipitarono verso il perimetro dell’arena in cerca di riparo. Karim si inginocchiò accanto al suo compagno, ma si rese subito conto che era troppo tardi: Damocle aveva perso la spada nella mischia ed era caduto a terra mortalmente ferito dalle numerose pugnalate.

    Karim raccolse il gladio e strinse le dita del greco attorno all’impugnatura, assicurandosi che il compagno morisse con la sua arma in mano.

    «Finalmente è finita», disse Damocle con voce flebile.

    «È stata una buona morte, amico mio», disse Karim, «lo scriverò sulla tua lapide».

    «Sotterrami in profondità, numida», sorrise Damocle, «quella spada di legno era quasi mia».

    «Presto sarai libero, greco», rispose Karim, «riposa bene».

    Gli occhi di Damocle si chiusero mentre la vita abbandonava il suo corpo, il sangue già assorbito dall’avara sabbia dell’arena.

    Era disonorevole per un gladiatore morire per mano di una donna, e Karim sapeva che l’ombra del greco avrebbe vagato per l’eternità oppresso dall’onta. Adagiò delicatamente il corpo dell’amico a terra, si alzò in piedi, lo sguardo al cielo, ed emise un ruggito primitivo che gelò il sangue di tutti gli astanti. Si voltò con gli occhi iniettati di sangue, in cerca delle responsabili della morte del greco.

    I cinque minuti seguenti, durante i quali Karim cedette alla furia omicida, furono i più sanguinosi dell’intera giornata. La folla era in delirio, tutti si godevano lo spettacolo e urlavano indicazioni a Karim, in preda a un piacere indicibile per lo sfoggio di violenza. Infine, il lottatore si ritrovò ancora una volta in piedi al centro della pista, il gladio che gli pendeva inerte dalla mano, la testa ciondolante per la stanchezza, mentre la folla gettava fiori dagli spalti.

    «Karim, Karim, Karim», cantilenavano senza sosta.

    Il governatore Sibilo era fuori di sé dalla gioia, conscio che i suoi piani progettati fin nei minimi particolari erano finalmente andati in porto. Non c’era dubbio sul fatto che quelli fossero i migliori giochi mai organizzati a quel tempo, e che perfino l’imperatore Tiberio ne sarebbe stato impressionato. Sorrise all’imbronciato Pelonio e alzò la mano per chiedere silenzio, attendendo che la folla assetata di sangue si placasse.

    «Karim della Numidia», iniziò, «sei riuscito a…».

    All’improvviso una donna tra la folla lanciò un grido.

    «Un’altra!», urlò. «Una barbara è ancora in vita».

    Karim si voltò di scatto, all’erta e pronto ad affrontare il pericolo. Si lanciò di corsa verso il cavallo morto dietro cui si era nascosta l’ultima barbara. E di nuovo gli spettatori andarono in visibilio quando il gladiatore trascinò l’avversaria dal suo rifugio al centro dell’arena tirandola per i capelli. Dopo averla gettata a terra davanti alla folla strepitante, il numida sollevò il gladio, pronto a sferrare il colpo fatale, ma si fermò all’improvviso, gli occhi confusi e increduli.

    «Uccidila!», gridò qualcuno.

    «Che stai aspettando?», urlò un altro. «Ammazza la strega!».

    Karim premette la punta della spada sotto il mento della donna, costringendola ad alzarsi in piedi. Aveva combattuto in molti Paesi, uccidendo più uomini e donne di quanto avesse intenzione di ricordare, ma non aveva mai ammazzato un nemico del genere. La donna guardò terrorizzata il suo carnefice, le lacrime le bagnavano il volto dipinto di blu; la speranza le baluginò negli occhi quando comprese di avere un’opportunità.

    «Ti prego», gemette nella sua strana lingua, «non farci del male».

    Tremando dalla paura, la donna gli porse il fagotto di tela che aveva tenuto nascosto tra le membra materne, un neonato con gli occhi ancora chiusi.

    Karim fissò il piccolo, profondamente addormentato tra le braccia della madre; abbassò la spada, tutta la furia era ormai svanita. Lentamente, raggiunse di nuovo il centro dell’arena.

    Qualcuno in mezzo alla folla colse l’occasione per recuperare una certa compostezza e iniziò ad applaudire. Il resto del pubblico prese esempio e alla fine l’applauso esplose in un’esultanza incontrollata. Poco dopo tutti gli spettatori dell’anfiteatro erano ancora una volta in piedi, per celebrare non solo la maestria e la brutalità del gladiatore, ma anche la sua umanità e pietà.

    «Affascinante», disse Sibilo a Pelonio sovrastando il clamore della folla, «ma non ha alcuna importanza, la scommessa è conclusa. Il mio gladiatore è l’ultimo uomo rimasto in vita, e a tempo debito mi occuperò dei preparativi necessari per ricevere i documenti della tua proprietà». Si alzò per andarsene.

    «Aspetta», disse Pelonio.

    «C’è forse qualche problema?», domandò il governatore.

    «La scommessa non è da considerarsi conclusa», disse l’ex soldato a bassa voce. «C’è un altro sopravvissuto».

    «E chi sarebbe?», sbottò il governatore. «Il greco è morto e i giochi sono terminati. Ora devo andare, poiché ho uno schiavo da liberare e una fattoria da ispezionare».

    «Il neonato», disse Pelonio, senza staccare gli occhi dalla ragazza terrorizzata che due guardie stavano portando via dall’arena.

    «Che vuoi dire?»

    «È un maschio o una femmina?»

    «Che importanza avrebbe?», chiese Sibilo prima che il lume della ragione investisse i suoi occhi. La scommessa riguardava l’ultimo uomo in vita, e se il bambino si fosse rivelato un maschio, si poteva dire che tecnicamente avesse perso la scommessa. Cercò di riflettere al meglio delle sue possibilità. Avrebbe potuto ordinare alla guardia di uccidere il piccolo, ma senza una ragione valida rischiava di perdere il sostegno della folla, vanificando lo scopo dei munera.

    Fissò il vecchio soldato nel tentativo di valutarne le reali intenzioni. Diversi cittadini rispettabili avevano assistito alla scommessa. Si era parlato dell’ultimo maschio che sopravviveva nell’arena, nessuno ne aveva specificato razza o età, e molte scommesse venivano reclamate in base a criteri meno precisi. Avrebbe potuto ignorare la situazione e prendersi la fattoria con la forza, ma Pelonio godeva del favore di Tiberio in persona. Il governatore tornò a sedere, la mente in subbuglio.

    «Rifletti bene, soldato», ringhiò, «non ho nessuna intenzione di andare fallito per colpa di un cavillo. Non credere di poter esigere alcuna parte delle mie ricchezze per via del figlio bastardo di una barbara. Ho vinto questa scommessa e reclamerò il mio premio».

    Ma Pelonio non era sopravvissuto a venticinque anni di servizio militare senza trarne una certa comprensione strategica. Non poteva pensare di mettere in imbarazzo quell’uomo e aspettarsi di sopravvivere più di qualche settimana; era troppo potente. Capì che doveva lasciare al governatore una via di fuga dalla scommessa senza perdere la faccia, eppure tentando di tenersi le sue terre. Il governatore adorava scommettere e, sebbene Pelonio avesse un passato tutt’altro che edificante con il gioco d’azzardo, comprese che non aveva altra scelta se non quella di mettere sul tavolo un’altra scommessa.

    «Ho un’altra opzione da proporti», disse lentamente, «una nuova scommessa. Se il neonato è una femmina, sarà valido l’accordo originale e la mia fattoria sarà tua». Si voltò verso Sibilo: «Tuttavia, se è un maschio, rinuncerò a qualsiasi pretesa nei tuoi confronti, ma terrò la mia proprietà».

    «E per quale motivo faresti una cosa del genere?», chiese Sibilo, gli occhi socchiusi e la mente concentrata sull’inattesa via di fuga.

    «Voglio il gladiatore».

    «Karim?»

    «Sì».

    «E ogni scommessa verrà cancellata?»

    «Del tutto».

    Sibilo fissò Pelonio a lungo. Il gladiatore era un bene prezioso, ma in confronto al debito che avrebbe dovuto pagare a quel soldato arricchito il suo valore era del tutto irrilevante.

    «Accetto», disse, «ma a una condizione».

    «Dimmi».

    «Finché avrò fiato in corpo, non dovrai restituirgli la libertà né assumerlo come gladiatore per combattere contro di me. Dovrà rimanere uno schiavo fino alla mia morte».

    «Accetto», rispose Pelonio.

    «Allora siamo d’accordo». Il governatore si alzò in piedi e gridò in direzione dell’arena. «Guardia, di che sesso è il neonato?».

    Il soldato si avvicinò alla donna, e dopo una breve colluttazione la colpì con il dorso della mano gettandola a terra, per poi sollevare il piccolo da un piede.

    «È un maschio», gridò a sua volta, «e ce l’ha grosso come un cavallo».

    Sibilo fremette e mise su un sorriso falso, e tutti nell’arena scoppiarono a ridere.

    «Cittadini», urlò infine, «ho un’ultima decisione da comunicarvi. Nella mia infinita pietà, lascio il numida alla custodia del mio buon amico, Gaio Pelonio, in onore delle sue imprese e del servizio prestato al nostro imperatore, il glorioso Tiberio. Che possa regnare a lungo».

    «Ave Tiberio», rispose il pubblico, come da copione.

    Il governatore si voltò verso Pelonio.

    «Non è altro che uno schiavo», ringhiò, «ne posseggo a migliaia».

    Gli ultimi ritardatari lasciarono l’arena e Pelonio si diresse verso la parte bassa degli spalti, superando il flusso di spettatori rimasti. Calpestò la sabbia insanguinata, ora affollata da schiavi indaffarati ad ammassare i cadaveri di cavalli ed esseri umani. Superò i cancelli del livello più basso dell’arena, fino a ritrovarsi avvolto nell’opprimente oscurità e nell’odore nauseabondo di animali, in sottofondo i lamenti dei feriti e dei gladiatori in punto di morte. Vide emergere dalla penombra una figura, e riconobbe la guardia che aveva rivelato il sesso del piccolo.

    «Evocatus», lo chiamò Pelonio.

    Il soldato si avvicinò e i due si salutarono stringendosi gli avambracci, entrambi veterani dell’esercito degni del rispetto reciproco.

    «Ave, Gaio Pelonio», lo accolse il soldato, «mi avevano detto che ti eri ritirato. Scommetto che migliaia di galli dormono meglio sapendo che hai appeso il gladio al chiodo».

    «Non saprei, amico mio», rispose Pelonio, «sembra che qui venga versato tanto sangue quanto in terra straniera».

    «Così va il mondo», commentò la guardia.

    «Dove posso trovare il numida?», domandò Pelonio.

    «In fondo al corridoio, ultima cella a destra».

    «Grazie», disse Pelonio, «fai un salto nella mia proprietà la prossima volta che sei in permesso. Ho diverse anfore di vino che non aspettano altro che di essere svuotate, e una gran voglia di rivivere le glorie del passato».

    «Mi sembra un’ottima idea», disse la guardia prima di aggiungere: «Pelonio, trattalo bene», facendo un cenno verso la cella di Karim. «È un brav’uomo».

    Pelonio annuì e iniziò a percorrere il corridoio. Trovò subito la cella e dalla porta socchiusa osservò per qualche momento una schiava intenta a pulire le ferite del numida. Il gladiatore, seduto su una branda di legno, beveva grandi sorsi da una tazza di vino, la luce tremolante della torcia che baluginava sulla sua pelle nera. Il numida alzò il capo e i due uomini si fissarono da una parte all’altra della cella.

    «Sai chi sono, Karim?», chiese infine Pelonio.

    Karim ingurgitò altro vino senza mai distogliere lo sguardo dal volto del vecchio soldato. Annuì in silenzio.

    «Posso entrare?»

    «Perché me lo chiedi?», domandò Karim. «Non sono forse di tua proprietà?».

    Pelonio entrò nella cella e si sedette su uno sgabello davanti al gladiatore.

    «Come ti senti?», domandò.

    «Ho appena ucciso più di venti uomini e donne senza alcuna ragione, se non per intrattenere un funzionario corrotto e un migliaio dei suoi compari ignoranti. Come credi che mi senta?»

    «Sei un gladiatore, non è per questo che vieni addestrato?»

    «Sono stato addestrato per combattere altri come me, non per uccidere bambini».

    «Il governatore non è un brav’uomo».

    «Non mi interessa più nulla. Ho sparso abbastanza sangue per cento uomini in cento vite diverse».

    «E allora perché lo fai?»

    «Che altra scelta ho? Se rifiuto, diventerei l’ennesimo brandello di carne per i leoni che occupano queste stesse celle e, come hai sottolineato anche tu, sono un gladiatore. Se mi lascio morire senza combattere, la mia ombra vagherà con gli spettri in un’oscurità senza fine».

    Cadde il silenzio.

    «Allora, verrò liberato?», chiese infine Karim.

    «Cosa faresti in tal caso?».

    Karim si strinse nelle spalle. «Probabilmente mi ubriacherei, farei del male a qualcuno e finirei di nuovo nell’arena, magari tra i noxii. Chi può dire quale sentiero ci attende?»

    «Allora ho un accordo da proporti, Karim», disse Pelonio. «Non posso liberarti, per colpa di Sibilo, ma posso donarti una vita lontano dall’arena».

    Karim rimase a fissarlo in silenzio, in attesa che l’ex soldato proseguisse.

    «Poco prima che rientrassi dalla Germania», continuò Pelonio, «sono riuscito a impedire che un ufficiale presuntuoso venisse ucciso dai membri di una tribù germanica. In seguito ho scoperto che si trattava del cugino di Tiberio. Al mio ritorno, sono stato accolto come un eroe per le strade di Roma, e mi è stata assegnata una fattoria con terreni che richiedono un giorno e mezzo di viaggio a cavallo per essere attraversati da parte a parte».

    «E?», chiese Karim.

    «Non sono un contadino, Karim, sono un soldato. Se la mia terra non viene gestita adeguatamente, andrò fallito nel giro di sei mesi, o la perderò in una partita a dadi truccata con quella merda di Sibilo. Non posso liberarti, ma posso nominarti prefetto della mia fattoria».

    «E cosa ne so io di agricoltura?»

    «Forse nulla, ma ho diversi contadini che lavorano quella terra da una vita, e possiamo acquistare altre braccia o più esperti, se ve ne fosse bisogno».

    «Intendi dire schiavi?»

    «Potremmo offrire loro un futuro ben più preferibile rispetto a quello offerto dalle bestie dell’arena. Tu e io siamo uguali, Karim. Conosciamo solo la via della spada, ma l’agricoltura è una questione diversa, ed è qualcosa che possiamo imparare. Quello di cui ho bisogno è qualcuno che possa suscitare rispetto nel mio personale e che non abbia timore di impartire la disciplina qualora sia necessario. Qualcuno di cui mi possa fidare. Credo che tu sia la persona che cerco».

    «Ti fideresti di un assassino».

    «Mi fiderei di un gladiatore».

    Ancora una volta, silenzio.

    «E se rifiutassi?»

    «Puoi rimanere qui e continuare a uccidere per intrattenere uomini mediocri, ma se vieni con me il lavoro sarà duro e le giornate lunghe. Se non altro avrai un letto caldo la sera, cibo nello stomaco e un modesto salario al termine di ogni mese. La scelta è tua».

    «Quando vuoi saperlo?».

    Pelonio scoppiò a ridere.

    «Ti serve davvero del tempo per decidere, Karim? Ti sto offrendo una vita di normalità e pace in confronto a una di morte e violenza. Sono stato un soldato per gran parte della mia vita e ho ucciso più uomini di quanti riesca a ricordare. So bene quale alternativa è preferibile, Karim. Fidati, non c’è paragone». All’improvviso, un trambusto proveniente dal corridoio in penombra attirò la loro attenzione.

    Un gruppo di guardie ben armate era in piedi nel corridoio; i soldati osservavano uno dei loro mentre trascinava una donna fuori dalla cella tenendola dai capelli.

    «Fermi», gridò Pelonio, «che sta succedendo?»

    «Non interferire, vecchio», lo intimò una delle guardie, «non sei più in servizio e non hai alcuna autorità, qui».

    Pelonio riconobbe la donna dell’arena.

    «Dove la state portando?», chiese, il tono di voce più calmo, nel tentativo di non esacerbare la situazione.

    «Ha un appuntamento con Sibilo», disse il soldato, gli è appena costata parecchi soldi». Quando riprese a trascinarla, ricominciarono anche le urla.

    «Aspettate», gridò di nuovo Pelonio, riflettendo il più in fretta possibile, «che ne sarà del bambino? Sono certo che Sibilo non se ne farebbe nulla, giusto?».

    Per un attimo, il soldato guardò la donna che stringeva forte il figlio al petto. Sibilo non aveva parlato del neonato, e nemmeno i suoi gusti perversi arrivavano a tanto. Si strinse nelle spalle.

    «Cosa vuoi farne?»

    «Ti darò dieci denari per lui».

    «Non è mio diritto venderlo».

    «È vero, ma sono certo che nessuno ne sentirà la mancanza. Se il governatore ti chiederà di renderne conto, io te lo restituirò e nessuno verrà mai a sapere del nostro accordo».

    Il soldato esitò.

    «Dieci denari», ripeté Pelonio.

    «Non saprei».

    «Cinquanta denari», intervenne Karim sottovoce.

    Tutti si voltarono verso il gladiatore, esterrefatti.

    «E dove troveresti una cifra del genere?», chiese il soldato.

    «Fare il gladiatore è un lavoro redditizio, purché si riesca a rimanere in vita», disse Karim. «Ho vinto numerosi premi. Molti li ho spesi in vino e donne, ma ho un gruzzoletto da parte. Pagherò cinquanta denari per il bambino».

    La donna terrorizzata rimase a fissare la scena in preda al panico. Nonostante non comprendesse la conversazione, aveva capito che gli uomini stavano discutendo di qualcosa di importante riguardante il suo destino.

    «D’accordo», disse infine il soldato. «Ma se il governatore me lo chiederà, dovrete riportarmi il bambino».

    Karim si avvicinò alla donna e le parlò con calma, facendole cenno di consegnargli il piccolo. Lei comprese lentamente che il suo futuro da schiava le serbava ben poche speranze, come gli eventi del giorno avevano dimostrato. Quell’uomo l’aveva già risparmiata una volta, e non aveva ragione di credere che avesse cambiato idea all’improvviso. Gli occhi della donna si velarono di lacrime; strinse il bambino per l’ultima volta, ricoprendolo di baci. I presenti rimasero in silenzio mentre lo salutava e, dopo essersi sfilata dalla testa un ciondolo di cuoio inciso, lo mise attorno al collo del bambino, le lacrime che le rigavano il volto.

    «Ora basta!», disse la guardia. «Sibilo sta aspettando».

    Karim prese il piccolo tra le sue mani gigantesche.

    «Prydain»,

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