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Nel nome dell'impero
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Nel nome dell'impero
E-book510 pagine9 ore

Nel nome dell'impero

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Info su questo ebook

«Ben Kane è l’astro nascente del romanzo storico.»
Wilbur Smith

Un grande romanzo storico
Dall'autore del bestseller Le aquile della guerra

14 d.C., Germania. Sono passati ben cinque anni da quando le tribù germaniche sono riuscite ad annientare in una formidabile imboscata tre legioni romane. Una sconfitta pesante, che ha lasciato il segno nell’esercito romano. Per Lucio Tullo e i suoi legionari, unici sopravvissuti all’attacco, è giunto il momento della rivincita contro un nemico che minaccia seriamente le sorti del glorioso impero romano. L’impresa è però resa difficile dallo schieramento compatto dei barbari, riuniti sotto il comando del feroce Arminio, un tempo alleato di Roma, la cui sete di vendetta non si è mai placata. In un primo momento la fortuna sembra essere dalla parte dei romani, che entrano in territorio nemico e conquistano con apparente facilità un villaggio dietro l’altro, ma abbassare la guardia potrebbe rivelarsi di nuovo fatale. I guerrieri del nord infatti, a differenza di molti soldati romani, sono disposti a sacrificarsi con ogni mezzo fino alla fine… 

Bestseller del Sunday Times

Il racconto epico e avventuroso di una guerra entrata nella storia

«Ben Kane è la nuova stella nascente del romanzo storico.»
Wilbur Smith

«Un trionfo.»
Sunday Express

«Straordinario, davvero avvincente.»
The Times

«Un libro che fa immaginare come dovevano essere le battaglie al tempo dei romani.»
Ben Kane
È nato in Kenya e si è poi trasferito con la famiglia in Irlanda. Laureato in Veterinaria, è un grande appassionato di storia. È considerato uno dei massimi autori di romanzi storici contemporanei. Tra i suoi più grandi successi La legione dimenticata, I figli di Roma e la serie dedicata al gladiatore Spartacus. La Newton Compton ha pubblicato Le aquile della guerra e Nel nome dell'impero, i primi libri di una nuova trilogia.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2017
ISBN9788822712752
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    Anteprima del libro

    Nel nome dell'impero - Ben Kane

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Elenco dei Personaggi

    Prologo

    Parte prima

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    Parte seconda

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    XLIII

    XLIV

    Nota dell’autore

    Glossario

    en

    1696

    Titolo originale: Hunting the Eagles

    Copyright © Ben Kane 2016

    Ben Kane has asserted his right to be identified as the author of this Work in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    First published as Hunting the Eagles by Preface Publishing, an imprint of Cornerstone.

    Cornerstone is a part of the Penguin Random House group of companies.

    Traduzione dall'inglese di Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: settembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1275-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ben Kane

    Nel nome dell'impero

    omino

    Newton Compton editori

    Per Selina Walker,

    uno dei migliori editor in circolazione. Grazie!

    Elenco dei Personaggi

    (Quelli contrassegnati con * sono storicamente documentati)

    Romani/Alleati

    Lucio Cominio Tullo: centurione veterano, un tempo appartenente alla Diciottesima Legione, ora alla Quindicesima.

    Marco Crasso Fenestella: optio di Tullo, nonché suo vice.

    Marco Pisone: uno dei soldati di Tullo.

    Vitellio: un altro dei soldati di Tullo, e amico di Pisone.

    Saxa: un altro dei soldati di Tullo, e amico di Pisone.

    Metilio: un altro dei soldati di Tullo, e amico di Pisone.

    Ambiorix: gallo e servitore di Tullo.

    Degmar: appartenente alla tribù dei Marsi e servitore di Tullo.

    Lucio Seio Tuberone: nobile romano, ora legato legionario e nemico di Tullo. *

    Settimio: centurione anziano della Settima Coorte, Quinta Legione e comandante di Tullo. *

    Flavoleio Cordo: centurione anziano, Seconda Coorte, Quinta Legione.

    Castricio Vittore: centurione anziano, Terza Coorte, Quinta Legione.

    Procolino: centurione anziano, Sesta Coorte, Quinta Legione.

    Germanico Giulio Cesare: nipote adottivo di Augusto, nipote di Tiberio e governatore imperiale della Germania e delle Tre Gallie. *

    Tiberio Claudio Nerone: imperatore e successore di Augusto. *

    Augusto: precedentemente Gaio Ottavio e altri nomi, figlio adottivo di Giulio Cesare e primo imperatore romano. Morto alla fine del 14 d.C. dopo più di quarant’anni al potere. *

    Aulo Cecina Severo: governatore militare della Germania Inferiore. *

    Lucio Stertinio: uno dei generali di Germanico. *

    Calusidio: soldato comune che affrontò Germanico. *

    Bassio: primipilo della Quinta Legione.

    Gaio e Marco: soldati ribelli.

    Emilio, Benigno, Gaio: soldati con cui Pisone gioca d’azzardo.

    Publio Quintilio Varo: defunto governatore della Germania, indotto con l’inganno a guidare il suo esercito in una terribile imboscata nel 9 d.C. *

    Germani/Altri

    Arminio: capotribù della tribù germanica dei Cherusci, mente dell’imboscata alle legioni di Varo e nemico giurato di Roma. *

    Maelo: fidato vice di Arminio.

    Thusnelda: moglie di Arminio. *

    Osbert: uno dei guerrieri di Arminio.

    Flavo: fratello di Arminio. *

    Inguiomero: zio di Arminio e recente alleato, capo di un’ampia fazione di Cherusci. *

    Segeste: padre di Thusnelda, alleato di Roma e capo di una fazione di Cherusci. *

    Sigismondo: figlio di Segeste e fratello di Thusnelda. *

    Artio: ragazza orfana salvata da Tullo in Le aquile della guerra.

    Sirona: donna gallica che si occupa di Artio.

    Scylax: cane di Artio.

    Prologo

    Autunno, 12 d.C., Roma

    Il centurione Lucio Cominio Tullo soffocò un’imprecazione. La vita era diversa, più spietata, dopo il massacro nella foresta avvenuto tre anni prima. Bastava la minima cosa per catapultarlo nel feroce caos di quei giorni di fango e sangue, quando migliaia di guerrieri germanici avevano teso un’imboscata, cancellando dalla faccia della terra tre legioni, tra cui la sua. Adesso la causa scatenante era un violento temporale sulla città di Roma, e la conseguente mota che gli schizzava le gambe e gli faceva affondare i sandali.

    Tullo chiuse gli occhi e udì di nuovo il sonoro e angosciante barrito dei guerrieri germanici. huuuummmmmmmm! huuuummmmmmmm! Il grido di battaglia, levatosi dagli uomini nascosti nel folto degli alberi, aveva guastato il coraggio dei suoi soldati proprio come il sole di mezzogiorno fa cagliare il latte. Se Tullo avesse rivissuto solo le grida scandite, forse l’avrebbe sopportato, ma nelle sue orecchie risuonavano anche le urla di dolore degli uomini che invocavano le loro madri ed esalavano l’ultimo respiro. Raffiche di lance sibilavano in alto, trafiggendo scudi e carne: menomando, mutilando, uccidendo. Crepitavano le fionde, i cui proiettili cozzavano sugli elmi; i muli ragliavano in preda al panico. La sua stessa voce, rauca per lo sforzo, ruggiva ordini.

    Tullo sbatté le palpebre, davanti a sé non vedeva la strada trafficata ma una pista fangosa. Proseguiva per miglia, attraverso file infinite di alberi e tratti di sabbie mobili. Era costellata di equipaggiamenti abbandonati e corpi di uomini. Legionari. I suoi legionari. Prima dell’attacco a sorpresa, Tullo avrebbe litigato con chiunque avesse ventilato la possibilità che il suo intero comando, una coorte di oltre quattrocento uomini, venisse annientato da un nemico armato per lo più di lance. Se qualcuno avesse prospettato che tre legioni potessero essere sopraffatte allo stesso modo, l’avrebbe bollato come pazzo.

    Era un uomo più saggio, più umile, adesso.

    La brutale esperienza, e le sue conseguenze, avevano inasprito anche Tullo. Poiché l’aquila della sua legione era andata perduta, la Diciottesima era stata smobilitata. E la stessa sorte avevano subito la Diciassettesima e la Diciannovesima. Lui e gli altri sopravvissuti erano stati distribuiti tra le altre legioni di stanza sul Reno. L’umiliazione definitiva era stata la retrocessione da centurione anziano a centurione semplice. Con il congedo in vista, era stato un colpo letale per la carriera. L’intervento di Lucio Seio Tuberone, suo nemico nonché all’epoca tribuno senatoriale, aveva assicurato un tramonto ignominioso al suo servizio militare. Se non fosse stato per Tuberone, rimuginò Tullo, avrebbe ancora potuto comandare una coorte.

    «tullo!».

    Trasalì, chiedendosi chi l’avesse riconosciuto lì, a centinaia di miglia da dove avrebbe dovuto essere.

    «tullo!». Anche se la strada era affollata e l’aria satura dei suoni di ogni giorno – le competizioni tra i venditori, due meticci che si contendevano un brandello di carne, botta e risposta tra passanti – l’acuto richiamo della donna si udì comunque. «tullo!».

    Ci volle tutto il suo autocontrollo per non reagire. Non c’è un’anima a Roma che mi conosca, si disse Tullo per la centesima volta quel giorno. Per lo meno solo una manciata, e le probabilità di incontrarne qualcuna sono vicine a zero. Non sono altro che un cittadino in un mare di altri, che se ne va per fatti suoi. I funzionari imperiali ignorano la mia identità e non si interessano di cosa faccio in città. Anche se mi fermassero, posso cavarmi d’impiccio mentendo. Sono un veterano diventato mercante, qui a Roma con un vecchio compagno per assistere al trionfo di Tiberio, nulla di più.

    Uomo massiccio di mezza età, dalla mascella lunga e sfregiata e i capelli corti in stile militare, Tullo era ancora attraente con quella sua aria vissuta. Portava una tunica biancastra che aveva visto giorni migliori. La cintura metallica lo contrassegnava come soldato o, secondo le sue intenzioni, ex soldato. Marco Crasso Fenestella, il compagno dai capelli rossi, era più brutto, più magro e nerboruto, e anche nel suo caso la cintura ne connotava la formazione militare.

    «Eccoti qui, Tullo», disse la voce femminile. «Per l’Ade, dove sei stato?».

    Più disinvolto che mai, Tullo voltò la testa e scrutò i volti delle persone vicine. Il Tullo che era stato chiamato, da sua moglie a quanto pare, era un arnese tozzo, con metà dei suoi anni, ma più basso e con due volte il suo giro vita. La moglie era un pochino meglio, una pettoruta sciattona dalle guance rosse vicino al bancone di una taverna. Tullo si rilassò e, proprio in quel momento, Fenestella gli bisbigliò all’orecchio: «Peccato che non stesse chiamando te! Ti avrebbe dato da mangiare e, se fossi stato fortunato, un posticino tra le sue gambe».

    «Levati dalle palle, cane». Tullo spinse via l’optio, ma stava sorridendo. La differenza di rango era stata annullata da innumerevoli anni di vita in comune, e dall’essere sopravvissuti a orrori che pochi potevano immaginare. Fenestella lo chiamava signore solo in presenza di altri soldati o quando era irritato con Tullo.

    I due uomini continuarono a farsi strada verso il centro della città. Malgrado fosse presto, le vie strette erano gremite. Roma era trafficata di giorno e di notte, avevano scoperto, ma la prospettiva di un trionfo quell’oggi, in onore dell’erede dell’imperatore, aveva fatto uscire chiunque fosse in grado di camminare, zoppicare o saltellare su un piede solo. Giovani e vecchi, ricchi e poveri, sani e malati, deboli e infermi, tutti erano ansiosi di assistere all’esibizione marziale e approfittare del cibo e vino gratuiti che sarebbero stati offerti.

    Superarono la via dei Fornai, assaporando l’intenso aroma del pane che cuoceva, e poi il vicolo dei Falegnami, che riecheggiava del suono di seghe e martelli. Tullo si fermò da un armaiolo nella via della Forgia per ammirare con sguardo avido le pregiate spade in esposizione. Nessuno dei due badò alle offerte degli uomini muniti di tavoletta e stilo della piazza degli Scribi. I loro sguardi indugiarono sulle donne avvenenti dei locali migliori lungo la strada delle Meretrici, ma continuarono a camminare.

    «È stata una follia venire qui», disse Fenestella, scuotendo la testa colpito dall’imponente entrata di un grosso complesso di terme pubbliche e dall’enorme statua dipinta di Augusto che si ergeva all’esterno. «Ma sono contento che l’abbiamo fatto. Questo posto è una dannata meraviglia».

    «Agli inferi il divieto ufficiale, dico io», replicò Tullo ammiccando. «Un uomo deve vedere la città di marmo almeno una volta nella vita – e un trionfo, se può. Dopo quello che abbiamo passato tu e io, ci siamo guadagnati il diritto di vedere entrambi». Parlò a bassa voce, come facevano da quando avevano deviato dal dovere ufficiale, ovvero trovare reclute per la loro nuova legione, la Quinta Alauda, nella provincia della Gallia Narbonense, centinaia di miglia più a nord. Dopo un po’ di infruttuose sortite in varie cittadine, dove si erano sgolati fino a perdere la voce, era stato Tullo a proporre di raggiungere Roma per il trionfo di Tiberio, ricompensa per le sue vittorie nell’Illirico di qualche anno prima.

    Non si trattava solo di un temporaneo abbandono della loro missione ma di una sfida al decreto imperiale che pendeva su tutti i sopravvissuti alla terribile disfatta: il divieto a vita di mettere piede in Italia. Come aveva detto Tullo, però, chi avrebbe mai saputo quello che avevano fatto? Potevano essere di ritorno nella Gallia Narbonense entro un mese e lavorare giorno e notte per trovare le reclute necessarie. Purché fossero tornati alla base della loro legione a Vetera, sul Reno, con il numero richiesto di nomi, nessuno avrebbe fatto domande.

    Era stato facile convincere Fenestella: come Tullo, non aveva mai visitato la capitale dell’impero né assistito a un trionfo.

    «Assaggiate i vini col prezzo migliore di tutta Roma!», esclamò una voce alla loro sinistra. «Venite a fare un brindisi a Tiberio, l’eroe conquistatore!». Tullo si voltò a guardare. Il proprietario di una taverna, o più probabilmente uno dei suoi schiavi, stava su un barile da un lato dell’ingresso e con ampi gesti invitava i passanti a entrare.

    «Ti va un bicchiere veloce?», domandò Fenestella, accarezzandosi la barba rossa spruzzata di grigio.

    «No». La voce di Tullo fu ferma. «Non sarà altro che aceto, e lo sai. Finiremmo comunque col berne un otre e non troveremmo più un buon posto da cui guardare».

    Fenestella fece una smorfia triste. «E poi ci verrebbe da pisciare per tutto il tempo».

    Seguendo le indicazioni fornite dal padrone della loro locanda, un posto scadente e anonimo ai piedi dell’Aventino, arrivarono al Circo Massimo. Una volta lì, aveva detto l’uomo, non restava che decidere da dove guardare la parata. Dal campo Marzio, all’esterno della città, avrebbero avuto una buona visuale del corteo trionfale che si radunava, ma mancava l’atmosfera che prevaleva all’interno delle mura. Il Foro Boario aveva un buon numero di tribune temporanee, ma avrebbero dovuto essere lì alle prime luci per riuscire a trovare posto. Altri posti erano disponibili nel Circo Massimo, ma era lontano dal punto culminante della parata e tendevano a scoppiare disordini. Il Foro Romano o lo stesso Campidoglio offrivano le postazioni migliori ma la densità della folla del primo rasentava il pericolo mentre nel secondo erano ammessi solo gli ospiti invitati. «Non voglio dire che non siate brave persone o che vi fareste scoraggiare dal rischio della calca o dei tagliaborse», si era affrettato ad aggiungere il locandiere.

    Sia Tullo che Fenestella volevano assistere al corteo dal miglior posto possibile perciò avevano deciso di raggiungere il Foro Romano, che tanto li aveva colpiti durante la visita alla città del giorno prima. Ben presto, tuttavia, si resero conto che la folla e i funzionari che bloccavano le strade lungo il tragitto del corteo avrebbero impedito loro di avvicinarsi alla destinazione desiderata prima del passaggio di Tiberio. Avevano bisogno di una guida.

    Tullo schioccò le dita a un monello dall’aria sveglia che oziava all’angolo della strada. «Tu! Vuoi guadagnarti una moneta?».

    Quando era più giovane, Tullo era stato un ottimista, uno a cui piaceva vedere il meglio negli altri. Adesso non più. La scioccante rivelazione che Arminio era un traditore, il suo feroce agguato alle legioni di Varo e il vergognoso trattamento inflitto a Tullo e ai suoi compagni sin da allora – dai loro simili – aveva influenzato in modo negativo la sua visione del mondo. Non ci si poteva fidare di nessuno, fino a che non si fosse dimostrato degno. Tullo aveva perciò seguito il monello preparato a un’eventuale aggressione di malviventi in qualsiasi punto del loro tragitto.

    Alla fine, la guida non giocò sporco ma li condusse rapido, attraverso un dedalo di vicoli e stradine, a una strada che confluiva, così disse, nel versante orientale del Foro. L’incredibile livello di rumore – acclamazioni, fanfare di trombe e, a una certa distanza, il cigolio delle ruote dei carri e lo scalpiccio di migliaia di piedi – fu la prova che il ragazzino li aveva portati nel posto giusto e in tempo. Rivolse loro uno sguardo trionfante e tese la mano. «La mia moneta».

    Tullo gli diede quanto promesso e borbottò un burbero ringraziamento, ma il monello era già andato via, sparito da dove era arrivato.

    «Sa come muoversi», osservò Fenestella.

    «Il denarius è stato ben speso». Tullo fece strada. «Vediamo a che punto è la parata prima di decidere dove metterci».

    La calca si infittiva in prossimità del Foro. Abituati al corpo a corpo, Tullo e Fenestella avanzavano infilandosi da una parte e dando spallate dall’altra. Nessuno dei due si fece scrupoli a pestare un piede in caso di bisogno. Pochi osarono obiettare al loro passaggio. Quelli che lo fecero, subito indietreggiarono davanti allo sguardo spietato di Tullo. Ben presto i due riuscirono a portarsi abbastanza avanti da avere una discreta visuale a sinistra e sull’entrata del Foro, attraverso la quale stava arrivando la testa del corteo, e anche a destra, lungo il Foro fino ai piedi del Campidoglio. In cima svettava il maestoso tempio di Giove dal tetto d’oro, la destinazione finale di Tiberio.

    C’erano funzionari imperiali ovunque. Erano disposti in file su entrambi i lati del Foro così come in ogni altro posto, trattenendo la folla con i loro bastoni. Di tanto in tanto, monelli simili alla guida di Tullo e Fenestella sgusciavano tra quelli e si mettevano a fare capriole sulla strada, scandendo: «Tiberio! Tiberio!». Gli spettatori scoppiavano a ridere mentre i funzionari si affannavano ad acciuffare i laceri intrusi. Alla fine i monelli furono acchiappati e ridotti all’obbedienza a suon di bastonate.

    Il corteo si avvicinava, attirando l’attenzione della folla e quella di Tullo e Fenestella. Tra le acclamazioni e le grida, commenti e urla di eccitazione riempivano l’aria. «È tutta la vita che volevo vedere un trionfo!». «Mi stai bloccando la vista!». «E allora spostati, bastardo insolente. Ero qui molto prima di te». «Cosa c’è nel primo carro?» «Armi e corazze». «Dove sono l’oro e l’argento? Ecco cosa voglio vedere». «E i prigionieri, dove sono?» «Tiberio. Fateci vedere Tiberio!».

    Tullo era al tempo stesso sorpreso e non sorpreso dalla propria crescente eccitazione. Dopo una vita nell’esercito, sarebbe stato il coronamento della sua carriera marciare in una celebrazione simile. Non era inverosimile che lui e Fenestella avrebbero potuto parteciparvi. Per un breve periodo, erano stati sotto il comando di Germanico, il nipote adottivo di Augusto, durante la guerra nell’Illirico. La vecchia amarezza di Tullo per la propria situazione tornò alla ribalta. Degradato e spedito in un’altra legione, le possibilità di sfilare in un trionfo erano pari a zero. Quanto era caduto in basso dalla battaglia in Germania tre anni prima. Soffocò l’autocommiserazione con inflessibile determinazione. Dimentica ciò che è successo, ordinò a se stesso. Goditi lo spettacolo.

    Per centinaia di anni, i trionfi erano stati la manifestazione più importante dei generali di ritorno dalla guerra per il popolo di Roma, ma erano finiti nel dimenticatoio durante il regno di Augusto. Erano più di tre decenni che non si teneva un trionfo in piena regola, perciò anche se Tullo avesse visitato prima Roma, non ne avrebbe visto nessuno. Il motivo, come tutti sapevano, era che l’unica stella a cui era consentito brillare nella capitale era quella dell’imperatore.

    Non era un caso che, quando finalmente Augusto aveva concesso un trionfo, esso dovesse celebrare il suo erede, Tiberio. Non che Tullo avesse da ridire sulla scelta di Augusto del proprio successore. Aveva servito sotto Tiberio in Germania quasi dieci anni prima e l’uomo era stato un valido condottiero che si prendeva cura dei suoi soldati. Non si può chiedere di più, rifletté Tullo, pensando cupo ad Augusto e all’impietoso ordine che aveva proibito per sempre l’ingresso in Italia a lui e a Fenestella.

    Un sonoro sferragliare annunciò l’arrivo di carri trainati da buoi, contenenti le armi e le corazze delle tribù illiriche sconfitte da Tiberio. C’erano migliaia di lance, asce, spade e coltelli e più scudi esagonali ed elmi di quanti se ne potessero contare.

    All’inizio si levò un’immensa acclamazione, che però si spense ben presto. Un carro di armi era praticamente uguale al successivo. Gli applausi ripresero vigore con ciò che seguì: carri con mappe delle aree conquistate da Tiberio e ricostruzioni tridimensionali dei forti tribali conquistati, nonché dipinti delle scene più drammatiche della campagna.

    Com’era prevedibile, i mezzi pieni di monete d’argento e gioielli furono i più acclamati. Ricevettero una buona accoglienza anche le file di animali sacrificali, bovini, pecore e maiali, condotti da sacerdoti. Benedizioni piovvero su di loro, chiedendo agli dèi di consacrare Tiberio. A divertire Tullo furono i commenti più sommessi, quelli degli spettatori più arguti, riguardanti quali tagli di carne avrebbero preferito dopo l’uccisione degli animali.

    L’entusiasmo della folla divenne febbrile quando apparvero i primi prigionieri. Ortaggi marci, pezzi di tegole e vasellame, perfino escrementi secchi di cane furono estratti dalle pieghe delle tuniche. Un fuoco di fila si scatenò all’avvicinarsi dei prigionieri. Tullo ne fu disgustato. «Sono uomini, non animali», disse a Fenestella. «E anche coraggiosi».

    «Come potrei dimenticarlo?». Fenestella si tirò giù il collo della tunica, scoprendo un brutto segno rosso.

    «Per gli dèi, ricordo quel giorno. Una lancia, vero?»

    «Sissignore». Fenestella lanciò un’occhiata ostile ai guerrieri nel carro successivo. Malgrado la scarica di oggetti, loro restavano fieri, con la schiena dritta e perfino sprezzanti. «È quello che si meritano i figli di puttana, direi».

    L’entusiasmo della folla nell’insultare gli uomini delle tribù si spense quando arrivarono carri pieni di donne e bambini in lacrime. La gente distoglieva lo sguardo, chiedeva un trattamento indulgente e borbottava preghiere. Tullo provò un prepotente disprezzo per i cittadini attorno a sé. Queste persone sono prigioniere grazie a una guerra che è stata fatta a vostro nome, pensò. Guardate in faccia la realtà.

    Dimenticò le sue preoccupazioni quando passarono i prigionieri di rango più alto, tra cui Batone dei Desidiati, uno dei capi della ribellione durata tre anni. Spalle larghe, alto, vestito di tutto punto per la battaglia, Batone ricevette le grida del popolo scuotendo i pugni alzati così che le catene risuonassero.

    «Sarà giustiziato?», domandò Tullo all’uomo accanto, un agiato mercante.

    «Tiberio lo ha graziato perché ha consentito alle nostre truppe di fuggire ad Andretium e si è arreso con onore».

    Tullo nascose la sua sorpresa. «È un uomo generoso, Tiberio».

    «Gli dèi lo benedicano e lo proteggano. Ha stabilito che Batone dovrà vivere a Ravenna, con ogni comodità di questa terra».

    «Hai sentito?», mormorò Tullo a Fenestella quando il mercante ebbe distolto lo sguardo. «Un fottuto barbaro viene trattato meglio di noi».

    «Ormai niente più mi sorprende», replicò Fenestella con una smorfia.

    Malgrado la rivelazione, Tullo esultò con vigore quando Tiberio apparve a bordo di un cocchio trainato da quattro magnifici stalloni bianchi. La sua reazione fu la medesima di chiunque attorno a lui. Nell’aria risuonarono le acclamazioni, le grida, gli squilli di tromba. Fulgido nella tunica porpora e nella toga di generale trionfante, e con la faccia dipinta di cremisi, Tiberio teneva uno scettro in una mano e un ramo d’alloro nell’altra. Con il mento pronunciato e il naso lungo, non era affatto bello ma aveva un aspetto abbastanza regale nel suo giorno dei giorni. Dietro di lui c’era uno schiavo, con il compito di reggere una corona d’alloro sul capo di Tiberio per tutta la durata del corteo.

    «ti-ber-i-us! ti-ber-i-us! ti-ber-i-us!», scandiva la folla.

    Le possibilità che Tiberio riconoscesse Tullo e lo collocasse nel giusto contesto erano infinitesimali – si erano incontrati una volta sola – ma Tullo abbassò comunque lo sguardo quando l’erede dell’imperatore arrivò nelle sue vicinanze. Non si aspettava che il nipote di Tiberio, Germanico, che aveva conosciuto, fosse a cavallo proprio dietro il cocchio. Alto, robusto e dai lineamenti regolari, Germanico aveva un mento volitivo e folti capelli castani. Era un uomo notevole in circostanze normali e nell’abbagliante armatura dorata sembrava quasi una divinità.

    Quando Tullo alzò lo sguardo, si ritrovò a fissare Germanico che, interdetto, aggrottò la fronte. Un istante dopo, articolò: «Io ti conosco!».

    Tullo rimase pietrificato, come una nuova recluta strigliata dal suo centurione. Con suo sommo orrore, fu proprio in quel momento che si verificò uno degli occasionali ritardi nel corteo. Invece di proseguire, Germanico rimase dov’era. Tullo voleva fare dietrofront e fuggire ma gli mancarono le forze.

    Anche Fenestella aveva notato Germanico; tenendo girato il volto, strattonò Tullo per un braccio. «Andiamocene da qui!».

    Il contatto fisico riportò Tullo in sé. Proprio in quel momento, Germanico esclamò: «Tu! Centurione!».

    Diversi pensieri balenarono nella mente di Tullo. Il richiamo era rivolto a lui, ne era certo. Poteva fingere di non aver sentito, guardare altrove e sperare che il corteo cominciasse a muoversi prima che Germanico avesse il tempo di ordinare di acciuffarlo. Poteva fuggire, come un ratto sorpreso dall’apertura di un tombino, ed essere inseguito, oppure poteva restare lì come un uomo e salutare Germanico.

    Ignorando il moto di sgomento di Fenestella, tirò indietro le spalle e incrociò lo sguardo severo di Germanico. «Dici a me, signore?»

    «Sì. Presti servizio sul Reno, vero?»

    «Hai un’ottima memoria, signore», rispose Tullo, desiderando che la terra si aprisse e lo inghiottisse. Se Germanico ricordava ciò di cui avevano parlato – l’agguato di Arminio e la distruzione dell’esercito di Varo – era un uomo morto. Violare l’interdizione imperiale era un reato da pena capitale.

    «Andiamo», lo incitò Fenestella con un sussurro.

    «Ci siamo conosciuti lì l’anno scorso», continuò Germanico.

    «Sì, signore. Mi onora il fatto che te ne ricordi». Con la coda dell’occhio, Tullo vide il cocchio di Tiberio cominciare a muoversi. Lasciami stare, pregò. Non sono nessuno.

    «Presentati da me dopo i sacrifici. Davanti alla Curia».

    «Certamente, signore».

    Ogni speranza di poter fuggire prima dell’ora prestabilita svanì dalla mente di Tullo quando Germanico fece un cenno del capo e due guardie pretoriane si fecero largo tra la folla verso di lui. Merda, pensò. Sa che non dovrei trovarmi in Italia né a Roma. «Vattene», ordinò a Fenestella. «Non ti ha visto».

    «Non fuggo davanti a questi pavoni», ribatté Fenestella, squadrando le corazze e gli elmi bruniti dei pretoriani.

    «Fenestella…».

    Fenestella spinse in fuori il mento. «Il mio posto è con te, signore».

    Sono uno sciocco, pensò Tullo. Un orgoglioso, stupido sciocco. E così Fenestella. Siamo sopravvissuti a tutto quello che hanno potuto farci Arminio e il suo bastardo solo per essere beccati da uno dei nostri.

    Sentiva già proclamare la loro condanna a morte.

    L’attesa all’esterno della Curia, forse due ore, parve un’eternità a Tullo. Il trasferimento dei prigionieri che dovevano essere giustiziati ai piedi del Campidoglio, l’ascesa di Tiberio al tempio di Giove, le urla della folla che assisteva alla cerimonia e la distribuzione di pane e vino al popolo, si svolsero come avvolti nella nebbia. Perfino l’arrivo dei soldati che avevano marciato dietro Tiberio, la parte del corteo che più aveva desiderato vedere, non riuscì a risollevargli l’animo. Affranto, incolpandosi per la sorte di Fenestella, camminava a grandi passi attorno alla Curia, sorvegliato dagli impassibili pretoriani.

    A un certo punto, cominciò a pensare di uccidere le guardie e fuggire. Fu una fortuna che si fosse confidato con Fenestella, il quale si affrettò a distoglierlo da quell’idea. «Non ci stai con la testa. Anche riuscendoci, cosa improbabile visto che non abbiamo armi, avremmo dietro l’intera guarnigione della città. Saremmo spacciati. Mettiti seduto e prega. È la nostra speranza migliore».

    Fenestella non aveva mai dato molto peso alla preghiera e questo la diceva lunga su ciò che pensava sarebbe accaduto loro. Perplesso, Tullo seguì il consiglio di Fenestella e mantenne la calma. Si sentiva come un assassino in attesa che venisse pronunciata la sua condanna a morte.

    L’arrivo di Germanico, rapido e silenzioso, lo colse alla sprovvista. Aveva solo un cavaliere come scorta ma la magnifica armatura non dava adito a dubbi circa il suo ruolo. Da vicino, la presenza imperiosa data dall’altezza e dal carisma era ancora più palpabile. Tullo balzò sull’attenti, la schiena rigida e le spalle quanto più indietro poteva. «Signore!».

    «Signore!». Fenestella sembrava la sua immagine speculare.

    «Nome?», richiese Germanico.

    «Centurione Lucio Cominio Tullo, signore, in servizio presso la Settima Coorte della Quinta Legione».

    «Questo chi è?». Squadrando Fenestella, Germanico smontò da cavallo con grazia disinvolta. La sua scorta prese le redini e condusse la bestia a un vicino abbeveratoio.

    «Il mio optio, signore. Si chiama Fenestella».

    Germanico rivolse a Fenestella un’altra occhiata noncurante. «È un brutto figlio di puttana».

    Io posso chiamarlo così, non tu, pensò risentito Tullo. «Lo è, signore, ma è leale e coraggioso. Non conosco soldato migliore».

    «Grande encomio da un ufficiale con… quanti anni di servizio?»

    «Trenta, signore». E tutti sprecati a causa di oggi, pensò Tullo.

    Germanico inarcò un sopracciglio. «Perché non ti sei congedato?»

    «Sa com’è, signore. L’esercito è la mia vita». I modi tranquilli di Germanico stavano dando speranza a Tullo. Era possibile che non ricordasse i dettagli della loro conversazione, che avesse dimenticato che Tullo aveva preso parte alla battaglia in cui Varo aveva perso le sue legioni.

    «Certamente». Germanico si mise a camminare su e giù senza parlare.

    Il disagio di Tullo si ripresentò.

    «Pensavo che ai soldati che avevano servito nella Diciassettesima, Diciottesima o Diciannovesima Legione fosse vietato l’ingresso in Italia».

    Germanico parlò a bassa voce ma davanti a Tullo si era aperto un baratro. Anche se aveva detto di appartenere alla Quinta, Germanico sapeva. «Io, ehm, sì. È così, signore».

    «Eppure siete tutti e due qui». La voce di Germanico era diventata di ghiaccio. Incombeva su Tullo.

    «Sì, signore». Per quanto difficile, Tullo tenne lo sguardo fisso sulla faccia di Germanico.

    «Le vostre vite non vi appartengono».

    «Sissignore», replicò roco Tullo.

    «Perché siete a Roma?»

    «Volevamo vedere la capitale, signore, ma ancora di più volevamo assistere al trionfo di Tiberio. Entrambi abbiamo servito nell’Illirico, signore. È stato solo per un anno, ma c’eravamo».

    «La gloria di questo trionfo cancellerebbe la vergogna di quanto è successo in Germania».

    «Qualcosa del genere, signore», bofonchiò Tullo, consapevole solo adesso che questo aveva fatto parte delle sue motivazioni.

    «Raccontami di nuovo com’è andata l’imboscata per te e i tuoi uomini».

    I ricordi che aveva rivissuto poco prima, erano ancora freschi nella mente di Tullo. Il cordoglio per i soldati che aveva perso, sepolti meglio che poteva dopo il disastro, era una ferita aperta e sanguinante. E la vergogna che provava per la perdita dell’aquila della sua legione, be’, quella tagliava come un coltello… e adesso avrebbe dovuto esprimere tutto quanto a voce. Non c’era alternativa a parte obbedire, tuttavia. Germanico era uno degli uomini più potenti dell’impero.

    E così Tullo illustrò i sospetti che aveva nutrito nei confronti di Arminio, alimentati la prima volta da una conversazione origliata dal suo schiavo Degmar. Fu una cupa litania: il rifiuto di Varo di dargli ascolto, ben due volte; la menzogna di Arminio riguardo alla rivolta degli Angrivari contro Roma; la decisione di Varo di passare all’azione, ordinando all’esercito di lasciare la strada per Vetera e proseguire lungo uno stretto sentiero nella foresta; l’attacco iniziale e l’inesorabile orrore dei giorni successivi.

    Tullo descrisse i frequenti e virulenti attacchi dei guerrieri. Il numero crescente di vittime romane. Il terrificante grido di guerra del nemico. La pioggia continua. Il fango onnipresente. Il modo in cui il morale dei legionari era stato scalfito un pezzetto alla volta. La perdita di una prima aquila e poi della seconda, quella della Diciottesima, la vecchia legione di Tullo. La consapevolezza che potesse non esserci scampo per nessuno.

    A quel punto, la gola di Tullo si serrò per l’emozione. Con uno sforzo, continuò raccontando come, in qualche modo, aveva trascinato quindici soldati fuori da quella palude insanguinata che era stata la fine della battaglia. Con l’aiuto di Degmar, erano riusciti a mettersi in salvo ad Aliso, un forte romano. Insieme alla guarnigione, erano stati inseguiti alla volta di Vetera, la base della legione, ma alla fine erano riusciti a raggiungerla. Quando ebbe finito, Tullo emise un sospiro spezzato. Quei giorni, i peggiori di tutta la sua vita, erano incisi nella memoria come l’elogio funebre sulla tomba di un nobile.

    Germanico non aveva detto una sola parola per tutto il tempo. Alla fine, chiese: «Quanti uomini sono sopravvissuti?».

    Tullo si grattò la testa. «Meno di duecento, credo, signore. Non contando quelli presi prigionieri dai germani».

    Germanico lanciò un’occhiata a Fenestella, la cui espressione era rimasta truce durante l’intero racconto. «Ebbene? È andata come dice il tuo centurione?»

    «Sissignore, solo che è stato peggio», rispose Fenestella, alzando e abbassando la testa. «Molto peggio».

    Calò un altro silenzio, che né Tullo né Fenestella osarono spezzare.

    Tullo scoccò un’occhiata riconoscente a Fenestella e desiderò di nuovo che l’optio avesse obbedito all’ordine di filarsela. Nel profondo, tuttavia, era contento di avere Fenestella lì con sé. L’optio era il più leale degli amici, sarebbe rimasto con lui malgrado tutto. Affrontare i boia sarebbe stata la loro ultima battaglia.

    Ma l’interrogatorio non era ancora finito. «Se ben ricordo, eri un centurione anziano?», chiese Germanico.

    «Sì, signore. Seconda Coorte, della Diciottesima».

    «Non è questo il tuo rango adesso».

    «No, signore. Sono stato degradato dopo l’imboscata». Tullo non accennò a Tuberone, che aveva orchestrato la sua retrocessione. Era inutile.

    Con suo grande sollievo, Germanico non fece altri commenti. «Quante falere hai guadagnato?».

    L’accenno alle sue medaglie al valore metteva sempre un po’ a disagio Tullo. «Nove, dieci, signore, qualcosa del genere».

    «Sono undici, signore», intervenne Fenestella, «e se l’è meritate dalla prima all’ultima».

    «Grazie, optio», replicò caustico Germanico.

    Fenestella arrossì e girò la testa. Poi Germanico si mise a studiare il volto di Tullo così a lungo che anche lui cominciò ad avvampare e dovette distogliere lo sguardo. Pronuncia la mia condanna e falla finita, avrebbe voluto dire.

    «A me pare…», Germanico fece una pausa.

    Tullo sentiva il cuore martellare. Tenne gli occhi fissi a terra.

    «A me pare che tu abbia fatto ciò che pochi avrebbero saputo fare».

    Confuso, Tullo alzò lo sguardo per incontrare quello di Germanico. «Signore?», chiese.

    «Mi piace considerare gli uomini per come mi appaiono, centurione, e tu mi sembri un uomo semplice. E anche coraggioso. Credo alla tua storia. Giustiziarti sarebbe uno spreco. Priverei l’impero di un ottimo figlio».

    «Io…», fece per dire Tullo ma gli mancarono le parole.

    Germanico ridacchiò. «Non sarai giustiziato né punito per aver trasgredito al divieto, centurione, né lo sarà il tuo optio. Al posto tuo, sarei venuto a Roma anch’io per assistere a uno spettacolo grandioso come il trionfo di Tiberio, il primo nel suo genere dopo trent’anni».

    «Sì, signore. G… grazie, signore», si impappinò Tullo.

    «Ma la mia clemenza non è del tutto disinteressata. L’imperatore, possano gli dèi benedirlo, presto mi nominerà governatore della provincia delle Tre Gallie e della Germania. Avrò bisogno di buoni soldati. Soldati validi, come te». Mentre Tullo lottava per contenere la sorpresa e la contentezza, Germanico continuò. «Le umiliazioni inflitteci da Arminio non sono state dimenticate. No, affatto. Intendo condurre le mie legioni al di là del fiume e riprendere tutto ciò che è andato perduto. Non mi riferisco solo alle vittorie e alle ricchezze ma anche alle tre aquile. Vuoi aiutarmi in questo? Farai in modo che Roma abbia la sua vendetta?»

    «Sarebbe un onore, signore». Tullo sentì il ringhio concorde di Fenestella.

    «Bene». Germanico gli diede una manata sulla spalla. «Ti cercherò al mio arrivo alla frontiera. Meglio tornare ai tuoi doveri con la Quinta al più presto, eh?»

    «Certamente, signore». Tullo rimase a guardare attonito Germanico che chiedeva il suo cavallo e si allontanava in sella all’animale, seguito dai due pretoriani.

    A Tullo tremavano le ginocchia. Si mise a sedere sull’uscio di una bottega mentre Fenestella ballava davanti a lui. «Chi se lo sarebbe aspettato, eh?»

    «Già», convenne Tullo, chiedendosi come un momento lasciava presagire una morte ignominiosa e quello dopo il nipote adottivo di un imperatore lo elogiava e gli offriva l’opportunità di riscattare il suo onore.

    Certo, gli dèi dovevano sorridergli quel giorno. Tullo aveva la sensazione che avrebbero continuato a farlo durante la sua ricerca di vendetta e la caccia all’aquila della sua vecchia legione.

    Parte prima

    aquila

    fine estate, 14 d.c.

    La frontiera germanica, vicino alla città di Ara Ubiorum

    I

    Era fine estate sulla frontiera germanica e quattro delle legioni locali – la Prima, la Quinta, la Ventesima e la Ventunesima – erano radunate in un vasto campo temporaneo nei pressi della cittadina di Ara Ubiorum. Dopo un pomeriggio passato con i suoi uomini sulla piazza d’armi sferzata dal vento, fuori dall’accampamento, Tullo si avviò alla Rete e Tridente, la sua bettola preferita nel villaggio di tende che era sorto nelle vicinanze. Le manovre di addestramento e la pianificazione per l’anno a venire avevano fatto confluire metà delle legioni della provincia nel medesimo luogo, poco lontano dalla cittadina di confine di Ara Ubiorum. Come al solito, un’orda di commercianti di ogni genere, locandieri, venditori di cibo, prostitute e indovini aveva seguito le legioni, tutti attratti dalla possibilità di affari offerta da più di sedicimila soldati.

    Il posto preferito di Tullo alla Rete e Tridente era già occupato al suo arrivo, stanco e con la gola secca. Senza fare storie – il tavolo in fondo non era di sua proprietà – aveva preso un posto lì vicino. Gli piaceva la locanda perché la tenda era piccola, difficile da trovare e vicina a un buon bordello. Il proprietario era un soldato in congedo, un ex optio; non tollerava sciocchezze da parte dei clienti ubriachi ma possedeva uno spiccato senso dell’umorismo. Il vino era discreto e neanche il cibo era malaccio.

    Il prezzo di entrambi era più alto di quanto convenisse a un soldato comune, perciò la maggior parte degli avventori erano ufficiali. Dopo una vita nelle legioni, questo stava più che bene a Tullo. Amava i suoi uomini, perfino gli scapestrati della centuria che comandava da cinque anni, ma una volta smontato dal servizio voleva potersi rilassare. Dire cose che non avrebbe potuto se nei paraggi vi fossero stati legionari comuni.

    Senza compagnia, si immerse nei suoi pensieri. Le cose non erano più come prima, com’erano state nella Diciottesima. Come avrebbero potuto? Tullo vi aveva prestato servizio per quindici anni, era diventato comandante della Seconda Coorte, uno dei centurioni più anziani dell’intera legione. Dannazione, conosceva per nome ogni centurione e gran parte dei sottufficiali della Diciottesima. Ero un uomo rispettato, pensò, e adesso sono solo un centurione ordinario della Settima Coorte di una legione che conosco a malapena. La fottuta Settima! La maggioranza dei centurioni della legione erano uomini con dieci anni in meno di lui, e anche più. Era particolarmente insopportabile che questi giovani avessero anche un rango superiore.

    Un buon numero di questi centurioni erano abbastanza cortesi con Tullo, ma c’era un gruppetto, una dozzina, che si era mostrato ostile sin dall’inizio. Aveva finito per riconoscere fin troppo bene i loro sguardi di superiorità e i commenti beffardi. Non era da

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