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Roma sangue e arena - I conquistatori
Roma sangue e arena - I conquistatori
Roma sangue e arena - I conquistatori
E-book1.109 pagine16 ore

Roma sangue e arena - I conquistatori

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Info su questo ebook

Roma sangue e arena
La conquista • La sfida • La spada del gladiatore • La rivincita • Il campione

I conquistatori - con T.J. Andrews
La battaglia della morte • Il sangue del nemico • Il richiamo della spada • L’erede al trono • Muori per Roma

10 romanzi in 1
Oltre 1 milione di copie

La guerra è strategia ed eroismo, ma la battaglia è un affare di muscoli e sudore, di sangue e metallo. È questa la forza dei romanzi storici di Simon Scarrow: un livello di dettaglio in grado di trasportare il lettore ora al fianco del generale che pianifica con rigore l’impresa bellica, ora al fianco del soldato di prima linea che stringe i denti e prepara il fendente.
La saga Roma sangue e arena ha inizio nel 41 a.C., quando Roma è sotto il dominio del nuovo, spietato imperatore Claudio. Due personaggi straordinari si incrociano: il veterano Lucio Cornelio Macrone e il giovanissimo e valoroso gladiatore Marco Valerio Pavone, destinato a grandi imprese. Il primo riceve l’incarico di addestrare il ragazzo ad affrontare avversari sempre più pericolosi nell’arena, fino a combattere contro nemici assetati di sangue e bestie feroci. 
La saga I conquistatori (scritta con T.J. Andrews) ci porta nel 44 d.C., raccontando l’inarrestabile, epica impresa della conquista romana della Britannia. I barbari dell’isola non sono ancora stati del tutto sconfitti. Gli uomini della Seconda Legione hanno sofferto atroci perdite nella guerra di conquista, ma il peggio deve ancora arrivare. I soldati sono accerchiati, l’inverno incombe e una nuova minaccia si profila all’orizzonte. Il nuovo legato punta tutto su un’impresa rapida e disperata: sconfiggere la base nemica sull’isola di Vectis.

L’autore di romanzi storici più venduto nel mondo
Oltre 1 milione di copie

«Il miglior scrittore di romanzi storici? Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Una prosa incalzante e una profonda conoscenza della storia antica.»
Daily Mail

«Ogni nuovo capitolo della lunga serie di Scarrow sull’esercito romano è come sempre un grande piacere.»
The Times

«Un buon libro, facile da leggere ma travolgente.»
Mail on Sunday

«Un romanzo storico ricco di vividi dettagli e di azione incalzante: un capolavoro di realismo militare.»
Adnkronos
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore dei romanzi Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L’aquila dell’impero, Sotto un unico impero, La spada e la scimitarra, Per la gloria dell'impero e I conquistatori (con T.J. Andrews), tutti pubblicati dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2017
ISBN9788822707284
Roma sangue e arena - I conquistatori
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Roma sangue e arena - I conquistatori - Simon Scarrow

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    ROMA, SANGUE E ARENA

    Nota dell’autore

    La conquista

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    La sfida

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    La spada del gladiatore

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    La rivincita

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Il campione

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Glossario

    I CONQUISTATORI

    L’organizzazione dell’esercito romano in Britannia, 44 d.C.

    La battaglia della morte

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Il sangue del nemico

    Personaggi principali

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Il richiamo della spada

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    L’erede al trono

    Personaggi principali

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Muori per roma

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    en

    1657

    Tutti i personaggi di questo romanzo, tranne quelli chiaramente storici, sono immaginari e qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titoli originali: Arena: Barbarian; Arena: Challenger; Arena: First Sword; Arena: Revenge; Arena: The Champion

    Copyright © 2012, 2013 Simon Scarrow and T.J. Andrews.

    First published in English language by HEADLINE BOOK PUBLISHING

    Traduzioni dall’inglese di Roberto Lanzi (La conquista; La sfida; La spada del gladiatore; La rivincita) e Francesca Noto (Il campione)

    Titoli originali: Invader. Death Beach; Invader. Blood Enemy; Invader. Dark Blade; Invader. Imperial Agent; Invader. Sacrifice

    Copyright © 2014, 2015 Simon Scarrow

    First published in the English language in Great Britain in 2014 by HEADLINE BOOK PUBLISHING

    I romanzi della Invader Saga qui raccolti sotto il titolo di I conquistatori sono stati già pubblicati in ebook.

    Traduzioni dall’inglese di Elena Papaleo (La battaglia della morte), Francesca Noto (Il sangue del nemico; Il richiamo della spada; Muori per Roma), Maria Cristina Cesa (L’erede al trono)

    The right of Simon Scarrow to be identified as the Author of the Work han been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2015, 2016, 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0728-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Simon Scarrow

    Roma, sangue e arena

    La conquista - La sfida - La spada del gladiatore - La rivincita - Il campione

    I conquistatori

    (con T.J. Andrews)

    La battaglia della morte - Il sangue del nemico - Il richiamo della spada - L’erede al trono - Muori per Roma

    omino

    Newton Compton editori

    roma, sangue e arena.

    foto1

    Il ludus imperiale di Capua

    Nota dell’autore

    Roma aveva rapporti ambivalenti con i propri gladiatori. Ammirati e detestati in egual misura, questi guerrieri assumevano spesso ruoli di importanza cruciale per la soddisfazione del popolo, garantendo così bacini di sostegno per l’imperatore. Fu Giulio Cesare a dare inizio alla tradizione creando una propria personale scuola gladiatoria e organizzando grandiosi spettacoli gratuiti per intrattenere il popolo che, in cambio, lo idolatrava. Successivamente, tra imperatori, alti sacerdoti e dignitari prese piede una vera e propria competizione per organizzare spettacoli sempre più elaborati allo scopo di conquistarsi il consenso popolare. Questi stessi aristocratici, però, spesso avevano atteggiamenti assai caustici nei confronti dei gladiatori, ritenendoli uomini degeneri alla pari degli schiavi.

    Diventare gladiatore poneva un uomo in un perenne stato di infamia e storie di figli di senatori e membri della classe equestre che si iscrivevano volontariamente nelle scuole gladiatorie (per saldare debiti o solo in cerca di nuove elettrizzanti sensazioni) erano motivo di grande scandalo nell’establishment romano. Si ignora il modo in cui questi membri della società riuscissero ad arruolarsi nelle scuole. Gran parte delle iscrizioni funerarie sulle lapidi di gladiatori ancora in buono stato di conservazione fanno presumere che si trattasse principalmente di liberti, ma è anche probabile che le stesse fossero commissionate da amici e parenti giacché la maggior parte degli schiavi, dei prigionieri di guerra e dei criminali che popolava le scuole gladiatorie difficilmente avrebbe potuto permettersele. Il fatto che al tempo si scrivesse degli aristocratici divenuti gladiatori fa pensare che fosse un’assai rara circostanza. Certo è che nel caso di Pavone, la disgrazia di un tribuno militare gettato in un ludus avrebbe scatenato pettegolezzi nelle terme e nelle locande di tutta Roma.

    la conquista

    Capitolo uno

    Roma, tardo 41 d.C.

    Il gladiatore imperiale sbatté le palpebre lanciando schizzi di sudore e osservò immobile gli inservienti Caronte dell’anfiteatro trascinar via i cadaveri sparpagliati sul terreno di combattimento.

    Dal punto del buio tunnel di accesso in cui si trovava, Gaio Nevio Capitone aveva un’ampia visuale del sanguinoso risultato della battaglia simulata. Al centro dell’Anfiteatro Statilio Tauro era stato grossolanamente ricostruito un villaggio celtico, disseminato di corpi massacrati. Capitone sollevò gli occhi verso le gallerie e individuò l’imperatore seduto sul podio circondato dalla sua cricca di liberti, che sgomitavano per attirare su di sé ogni attenzione imperiale, dai senatori e dagli alti sacerdoti seduti sul perimetro della pedana nelle loro tipiche toghe. Più in alto del podio, sui sedili marmorei delle gallerie superiori, l’impressionante calca del pubblico popolare. Udendo il boato della folla, Capitone si sentì fremere fin nelle ossa. Osservò un paio di Caronte che con un ferro arroventato pungolavano un barbaro accasciato a terra. L’uomo sobbalzò. Con una cascata di fischi il pubblico derise il bieco tentativo dell’uomo di fingersi morto; uno degli inservienti fece segno di avvicinarsi a uno schiavo con un enorme martello a doppia testa. Nel frattempo un secondo inserviente terminava di spargere nuova sabbia bianca sul terreno di combattimento chiazzato di sangue. Una volta terminato, si ritirarono tutti nel tunnel di accesso, sedendosi nell’ombra a pochi passi da Capitone.

    «Ma guarda che schifo», borbottò uno degli inservienti, sollevando le mani sporche di sangue. «Mi ci vorrà una decade per ripulirmele».

    «Gladiatori…», sbuffò il compagno. «Stronzi egoisti».

    Capitone li squadrò in cagnesco mentre lo schiavo raggiungeva il corpo del barbaro, sollevava il grosso martello e con un ghigno lo riabbassava fulmineo sfondandogli il cranio. Udendo lo scricchiolio dell’osso che si spaccava, Capitone contorse la faccia in una smorfia. Da punta di diamante tra i gladiatori Iuliani della grande scuola di Capua, andava sempre molto orgoglioso dei suoi capolavori di ferocia. Lo spettacolo di quel giorno, però, per qualche motivo gli aveva lasciato l’amaro in bocca. Dalla semioscurità del corridoio aveva assistito a un furente combattimento tra gladiatori in abiti da legionari e un gruppo misto di avversari, criminali condannati e schiavi, armati di nient’altro che semplici utensili smussati. Per massacrarli non ci voleva certo la destrezza di un campione, pensò, considerandolo un affronto alla sua professione.

    In quel momento l’ultimo cadavere veniva trascinato via da un Caronte con un ferro uncinato.

    «Un bagno di sangue», mormorò tra sé e sé. «Solo un inutile bagno di sangue».

    «Che hai detto?», gli chiese uno degli inservienti.

    «Niente», rispose Capitone.

    L’uomo era sul punto di replicare quando l’editor chiamò il nome di Capitone con un tono altisonante che riecheggiò fin negli ordini più alti della summa cavea. La folla rispose con un boato. L’inserviente spinse un pollice al di sopra della spalla, indicando la sabbia rosso sangue dell’arena e bofonchiò: «Tocca a te. E ricordati che oggi il tuo è il pezzo forte dello spettacolo. Sono venuti in ventimila per guardarti. L’imperatore è lassù e conta su di te per dare una bella lezione a Britomaris, per cui cerca di non deluderlo».

    Capitone fece un cauto cenno della testa. Il suo combattimento rappresentava l’evento cardine dei primi grandi ludi gladiatorii offerti dall’imperatore Claudio al popolo di Roma. Nel pomeriggio aveva avuto luogo la rievocazione scenica di una battaglia campale tra gladiatori e barbari, con la partecipazione di centinaia di uomini, terminata con il fin troppo prevedibile trionfo dei primi sull’orda dei secondi assai malamente armati. Ora l’orgoglio dei gladiatori imperiali avrebbe affrontato Britomaris, un barbaro che recitava il ruolo del capo della tribù celta. Il guerriero barbaro, però, era tutt’altro che il vecchio ricurvo e debole che avrebbe dovuto rappresentare e quel giorno aveva già collezionato ben cinque vittorie nell’arena, con grande stupore del consumato pubblico romano. Al loro debutto, giacché privi di un adeguato addestramento nell’arte dell’uso della spada, i combattenti barbari di solito andavano incontro a sconfitte orribili, per cui la sfilza di vittorie di Britomaris aveva iniziato a preoccupare seriamente i veterani della scuola gladiatoria imperiale. Capitone scosse via quel velo di apprensione e si rassicurò dicendosi che gli uomini che Britomaris aveva affrontato nei combattimenti precedenti erano sicuramente guerrieri meno capaci di lui. Capitone era la leggenda dell’arena, artefice di spietate esecuzioni e gloriose vittorie. Stirò i muscoli del collo impegnandosi, deciso e fiducioso, a dare una seria lezione a Britomaris, incoraggiato dall’equipaggiamento completo che indossava: gambali, lorica, manica e corazza, oltre a un lungo mantello rosso che gli scendeva sulla schiena. L’armatura era assoluta garanzia di vittoria. In presenza dell’imperatore, l’idea che un romano – foss’anche solo un gladiatore travestito da romano – venisse sconfitto da un barbaro sarebbe stata impossibile da digerire. Non mancava, però, qualche inconveniente: con il pesante elmo decorato, la gravosa panoplia si rivelava assai opprimente e lo stava facendo grondare di sudore.

    L’inserviente gli porse un gladio e uno scudo legionario rettangolare. Capitone afferrò l’arma con la mano destra e lo scudo con la sinistra e concentrò lo sguardo sull’imboccatura scura del corridoio esattamente davanti a sé sull’altro versante dell’arena. Da essa vide lentamente spuntare dall’ombra una figura, che voltava freneticamente la testa a destra e a manca, quasi confusa dalla scena circostante.

    Solo un barbaro che era riuscito a mettere a segno qualche fortuita vittoria, si disse Capitone. Per giunta armato solo di un pezzo di ferro spuntato. Il gladiatore giurò a se stesso di rimettere Britomaris al proprio posto.

    Uscì nell’arena e avanzò fino al centro dove l’arbiter attendeva battendosi il bastone di legno sull’esterno della coscia destra. Il sole splendeva accecante rendendo la sabbia rovente sotto i piedi nudi. Capitone sollevò gli occhi sulla folla che osservava dalle tribune: qualcuno placava la sete sorseggiando vino da piccoli otri, altri si facevano aria con ventagli. In un angolo della cavea superiore c’era un nutrito gruppo di legionari, stretti gli uni agli altri, d’umore vivace e chiassoso. E c’erano anche delle donne, constatò con un ghigno lascivo, l’orgoglio rinvigorito dalla consapevolezza che così tante persone erano venute solo per vedere lui, il grande Capitone.

    Dalla sabbia arroventata saliva un calore che rendeva irrespirabile l’aria già satura del puzzo metallico del sangue. In alto, oltre la summa cavea, decine di marinai armeggiavano con le strisce del velarium, gli enormi tendoni che venivano tirati per fare ombra agli spettatori, ma il sole cambiava continuamente posizione vanificandone gli sforzi. I liberti seduti nelle tribune superiori erano all’ombra mentre i dignitari poco sotto pativano la calura.

    Squillarono le tibie. Capitone rinsaldò la stretta attorno all’impugnatura del gladio e gli spettatori voltarono all’unisono la testa verso il corridoio d’accesso di fronte a lui. Il gladiatore escluse il fragore dell’arena e si concentrò esclusivamente sul barbaro che avanzava a passi pesanti verso di lui.

    Capitone contenne un sorriso. Britomaris era fin troppo corpulento per poterla spuntare ancora. All’altezza della coscia, le sue gambe erano grosse come tronchi e i muscoli di braccia e spalle erano sepolti sotto uno spesso strato di grasso. Il guerriero incedette pesantemente fino al centro dell’arena come se ogni passo gli richiedesse uno sforzo sovrumano. Capitone ebbe difficoltà a credere che quel bestione di Britomaris avesse potuto veramente vincere cinque combattimenti di seguito. Gli avversari precedenti dovevano per forza essere stati peggio di quanto lui avesse pensato. Il barbaro indossava un paio di bracae dai colori vivaci e una tunica di lana smanicata, stretta alla vita da una fascia. Non portava armatura, né gambali o protezioni alle braccia, e niente elmo. Il suo corredo si limitava a uno scudo ligneo rivestito di cuoio con una borchia di metallo, e una specie di lancia dalla punta smussata. Con il bastone l’arbiter fece un segnale ai due combattenti che si fermarono, l’uno di faccia all’altro a distanza di circa due lame di spada.

    «Bene, guerrieri», disse l’arbiter. «Voglio uno scontro onesto e pulito e ricordatevi che è un combattimento all’ultimo sangue. Non ci sarà nessuna pietà, per cui non sprecate fiato a implorare la grazia all’imperatore. Accettate il fato con onore. Mi sono spiegato?».

    Capitone annuì. Britomaris, per contro, non mostrò alcuna reazione; probabilmente non capiva nemmeno il latino, pensò il romano con un ghigno sarcastico. L’arbiter, a quel punto guardò l’editor seduto sul podio non troppo distante dall’imperatore per il segnale d’inizio.

    «Combattete!», urlò l’arbiter, e con una frustata del bastone aprì lo scontro.

    Il barbaro non perse tempo e si lanciò immediatamente contro Capitone, cogliendolo di sorpresa con quell’attacco fulmineo. Il gladiatore, però, scorse lo scatto del gomito dell’avversario mentre questi si preparava a un colpo in affondo con la lancia: abbassò rapido la spalla e lo schivò, mandando a vuoto il tentativo di attacco. Per lo slancio, Britomaris vacillò goffamente in avanti e superò Capitone, che fece una torsione del busto e lo colpì di taglio al polpaccio destro. Quando la lama gli squarciò la carne, Britomaris lanciò un ululato ferino di dolore. Infervorato dall’azione e dalla vista del sangue che zampillava sulla sabbia bianca, il pubblico scoppiò in un fragore di entusiasmo.

    Capitone si beò delle urla della folla.

    Il barbaro arrancò e scagliò la lancia contro il gladiatore. Prevedendo la mossa, Capitone si abbassò, la lancia gli sfrecciò sopra la testa e si infilò a vuoto nella sabbia alle sue spalle. Furioso, Britomaris scattò alla carica contro l’avversario, urlando di dolore e rabbia. Senza battere ciglio, Capitone sollevò di scatto lo scudo, una mossa che aveva ripetuto tante e tante volte sul terreno di allenamento del ludus. Si udì un tonfo improvviso quando la bordatura metallica si schiantò contro la parte inferiore della mascella del barbaro. Britomaris grugnì. Le urla del pubblico esplosero deliranti e in mezzo a tutto quel baccano il gladiatore riuscì a distinguere singole voci di uomini e donne che gridavano il suo nome. Nell’arena insanguinata il barbaro zoppicò all’indietro, perdendo sangue a fiotti da naso e bocca, grondante di sudore sul collo, ormai non più in grado di reggersi in piedi.

    Una voce dalle tribune inferiori urlò a Capitone: «Finiscilo!».

    «Nessuna pietà per quel bastardo!».

    «Tagliagli la gola!», si unì al coro una donna.

    A Capitone non importava se lo spettacolo sarebbe durato un po’ meno del previsto. Se la folla voleva sangue, lui le avrebbe dato sangue. Si mosse verso il barbaro, preparandosi al colpo di grazia, scudo sollevato e gomito destro stretto sul fianco. L’avversario alzò le mani chiuse a pugno tentando di opporre un’ultima resistenza mentre il gladiatore gli arrivava addosso. Avanzando veloce, Capitone tentò un attacco con la spada, fendendo in obliquo dal basso verso l’alto e mirando poco sopra la cassa toracica.

    Il barbaro, però, lo stupì dando un calcio violento contro il bordo inferiore dello scudo; la parte superiore si inclinò in avanti e Britomaris ne approfittò fulmineo agganciandolo e spingendolo in basso contro i piedi del gladiatore. Quando il bordo di metallo gli schiacciò le dita del piede sinistro, Capitone grugnì. Il barbaro gli strappò lo scudo dalle mani e gli mollò un calcio all’inguine. Capitone vacillò all’indietro, stordito e confuso da quanto appena accaduto, con lo stesso interrogativo dei cinque gladiatori che avevano precedentemente affrontato Britomaris: come poteva un uomo di quella stazza muoversi così velocemente?

    Il barbaro continuò l’attacco sferrandogli un pugno caricato alla spalla che lo fece vibrare in tutto il corpo. Capitone si accasciò sulla sabbia e in un istante Britomaris gli fu addosso. I due si rotolarono avvinghiati nella sabbia, scazzottandosi a vicenda mentre l’arbiter li osservava a pochi passi di distanza, ordinando loro di rimettersi in piedi e impossibilitato a intervenire. Capitone cercò un appiglio per staccarsi ma il barbaro gli sferrò un altro potente pugno che lo mandò a terra, faccia avanti. Il gladiatore rimase stordito, immobile a terra per qualche istante, ammutolito e intontito dallo shock, chiedendosi che fine avesse fatto il suo gladio. Poi avvertì un colpo violento, come se qualcuno gli avesse letteralmente addentato in profondità la carne sulla schiena. Un rivolo caldo e umido prese a scivolare sulle gambe. Capitone rotolò su un fianco e vide Britomaris che si rialzava tentando di afferrare una spada. La sua spada.

    Capì di trovarsi in una pozza del suo stesso sangue. «Cosa…?», farfugliò incredulo. «Ma… come…?».

    Tra il pubblico calò un silenzio di tomba. Capitone iniziò a sentirsi venire meno. Aveva la bocca improvvisamente secca e macchie chiare gli offuscavano la vista. Il pubblico lo implorò di rialzarsi e combattere, ma lui sentiva di non averne le forze. Il colpo era stato troppo violento. Sentiva i polmoni riempirsi di sangue.

    «Vi imploro, dèi», bisbigliò in un rantolo, «risparmiatemi».

    Sollevò gli occhi verso il podio in preda alla disperazione. L’imperatore ricambiò lo sguardo con glaciale riprovazione. Capitone sapeva che non avrebbe potuto aspettarsi alcuna misericordia: nessun gladiatore poteva sperare di ottenere una sospensione della pena, nemmeno il più forte dei guerrieri imperiali. La celebrità presupponeva un’accettazione coraggiosa della morte.

    Tentando, tremante, di rimettersi in ginocchio, Capitone si avvinghiò alle gambe possenti di Britomaris e chinò profondamente la testa, porgendola per il colpo di grazia. Fissò avvilito la sabbia insanguinata, maledicendosi per aver sottovalutato l’avversario e pregò che chiunque avesse affrontato Britomaris dopo di lui non commettesse il suo stesso errore.

    Le sue membra furono scosse da spasmi violenti quando la spada gli penetrò nel collo dietro la clavicola, trafiggendogli il cuore.

    Capitolo due

    L’ufficiale sollevò lentamente la testa dalla coppa di vino e puntò gli occhi sulle due guardie pretoriane impalate di fronte a lui, illuminate dal fioco chiarore dell’unica lampada a olio presente. All’esterno della locanda era buio pesto.

    «Lucio Cornelio Macrone, optio della Seconda legione?», gli sbraitò contro il pretoriano di sinistra. L’ufficiale annuì orgoglioso e alzò la coppa verso le guardie. Indossavano semplici toghe bianche su tuniche, notò Macrone: uniforme tipica della Guardia pretoriana.

    «Sono io», farfugliò in risposta. «Immagino siate venuti pure voi per ascoltare la storia della mia decorazione. Be’, ragazzi, prendetevi una sedia e vi racconto tutto fin nei dettagli più raccapriccianti. Vi costerà un boccale, però. E non dello sciacquabudella gallico, eh!».

    La guardia lo fissò per nulla divertita. «Devi venire con noi, ti cercano».

    «Cosa? Proprio adesso?». Macrone guardò il soldato sulla destra. «Non dovreste essere già a dormire a quest’ora, ragazzi?».

    Il giovane pretoriano lo fulminò con uno sguardo carico di indignazione. Il compagno si schiarì la voce e disse: «Siamo qui per un ordine imperiale».

    Macrone smaltì all’istante la sbornia. Una richiesta dal palazzo, a quell’ora tarda della notte? Scosse incredulo la testa.

    «Deve sicuramente esserci un errore. Ho già ritirato le mie onorificenze», disse, battendosi, orgoglioso, le medaglie di bronzo appuntate sul petto che l’imperatore stesso gli aveva conferito poche ore prima, inaugurando i giochi all’Anfiteatro Statilio Tauro. La sconfitta di Capitone aveva poi gettato una cupa coltre sulla cerimonia; appena il gladiatore era caduto a terra, prevedendo che l’umore della folla non avrebbe tardato a incendiarsi, Macrone si era alzato ed era andato a stordirsi tracannando vino nella taverna Spada e Scudo, poco lontano dall’anfiteatro: un tugurio puzzolente che rifilava pessimo vino, ma con l’unico pregio di essere di proprietà di un vecchio compagno d’armi della Seconda legione, che aveva insistito per offrirgli da bere gratis per festeggiare le sue recenti decorazioni.

    «La Guardia pretoriana non commette errori», rispose secco il soldato. «E adesso vieni con noi».

    «Inutile discutere, vero ragazzi?». Macrone scivolò fuori dalla panca e seguì controvoglia le due guardie in strada.

    La folla inferocita aveva messo a soqquadro le strade. Molti chioschi del mercato erano stati distrutti; a terra una distesa di statuette di legno raffiguranti Capitone con la testa staccata. Macrone dovette fare attenzione a dove poggiava i piedi mentre, tranquillo, camminava sotto il colonnato coperto della Via Flaminia in direzione della Porta Fontinalis. Sulla destra il Foro di Cesare con la ricca facciata marmorea in commemorazione di Cesare; a sinistra una serie di stravaganti residenze private.

    «Di che si tratta, dunque?», chiese alle guardie.

    «Non ne ho idea, amico», rispose il soldato alla sua sinistra, brusco e secco come i colpi sferrati poco prima da Britomaris. «Ci hanno solo ordinato di trovarti e scortarti a palazzo. Non siamo tenuti a conoscerne il motivo».

    Per tutti gli dèi, pensò Macrone mentre con i due soldati varcava il cancello che dava accesso al Colle Capitolino. Un pretoriano che non ficcava il naso dove non era previsto che lo ficcasse? Stentava quasi a crederlo.

    «Non ci si abitua mai alla puzza di questa zona, eh ragazzi?», commentò, arricciando il naso per l’odore fetido che saliva da una sezione a cielo aperto della Cloaca Massima, che passando per il Foro portava via i liquami della città.

    La guardia annuì. «Se pensi che qui sia insopportabile», aggiunse poi, «aspetta di arrivare alla Suburra. C’è una puzza tale, lì, che sembra quasi di stare infilati dritti nel culo di un Gallo. Menomale che noi ci giriamo alla larga, ringraziando gli dèi. Al palazzo è tutta un’altra storia, stiamo sempre lì, aria pulita, fichi in abbondanza e tanta carne fresca». La guardia ammiccò al compagno sul fianco destro di Macrone. «E quel bonus di quindicimila sesterzi da parte del nuovo imperatore è tornato veramente utile».

    In quel momento li investì una zaffata sconcertante di tanfi misti. Sebbene il mercato fosse chiuso ormai da qualche ora, l’aria era ancora satura dei prepotenti effluvi di cannella, pepe, profumi scadenti e pesce marcio, che si fondevano con i miasmi della fogna creando una miscela esplosiva per lo stomaco di Macrone. Detestava Roma. Troppo rumore, troppa sporcizia, troppe persone. E soprattutto troppi maledetti pretoriani, pensò. Dalle fucine salivano colonne di pungente fumo grigio scuro che oscuravano il cielo, rendendo l’aria plumbea e opprimente. Era come attraversare una gigantesca fornace. Di tanto in tanto lo sfavillio dei fuochi accesi nel buio. In lontananza, i grossi edifici dei condomini accalcati su colli e valli, gli anneriti piani alti appena visibili contro il buio cielo notturno.

    «Al campo parlano tutti delle tue decorazioni», disse una delle guardie con una punta di invidia nella voce. «Non succede tutti i giorni che l’Augusto sovrano premi personalmente un modesto ufficiale, sai. Sei l’idolo di Roma. Devi sicuramente avere amici che contano», aggiunse, con sguardo indagatore.

    «Mi spiace deluderti ma non ne ho», rispose secco Macrone. «Io e i miei uomini facevamo parte di una spedizione punitiva contro una tribù germanica della zona del Reno e ci siamo ritrovati nostro malgrado in mezzo a una furiosa battaglia. Ho ammazzato trecento dei più spaventosi Germani che tu possa immaginare e ho riportato io indietro i soldati dopo che il nostro centurione è stato accoppato. E tutto in una sola giornata di lavoro. Onestamente non capisco tutto questo scalpore».

    La guardia si scambiò uno sguardo stupefatto con il compagno. Macrone avvertì un immediato, incontenibile desiderio di tornare nei territori del Reno. Roma proprio non riusciva a farsela andare giù, sebbene ci avesse vissuto durante l’infanzia. Se ne era andato sotto l’ombra del discredito circa tredici anni prima, dopo aver vendicato l’assassinio di suo zio Sesto ammazzando un violento capobanda della malavita. Aveva peregrinato verso Nord, in direzione della Gallia, arruolandosi per venticinque anni presso la fortezza della Seconda legione, pensando che non avrebbe mai più messo piede in quella città; ritrovarcisi, quindi, gli dava una strana sensazione.

    «Già», disse, battendosi con il palmo sullo stomaco. «È dura essere eroi. Tutti che vogliono offrirti da bere; le puttane che ti fanno le moine, ovviamente. Alle donne piacciono gli uomini con una bella sfilza luccicante di medaglie». La guardia si voltò a guardare Macrone con occhi pieni di invidia. «Soprattutto le donne belle ed eleganti: non sanno resistere all’aria rude del maschio».

    Macrone cercò di tenere il passo delle guardie mentre risalivano un’ondata di volti dai tratti esotici: Siriani, Galli, Nubiani e Giudei. L’ampia strada maestra era fiancheggiata da abitazioni popolari alternate a sinagoghe e a una varietà di templi che Macrone non aveva mai visto.

    «Chi ha orecchie per intendere, intenda», gli fece la guardia. «Da soldato a soldato: le cose sono cambiate parecchio da queste parti, non è più come una volta».

    «Eh?», chiese Macrone, solleticato nella curiosità. «Che intendi?»

    «Claudio sarà pure l’imperatore, adesso, ma la sua ascesa al trono non è stata esattamente morbida. La spiacevole faccenda dell’assassinio di Caligola qualche mese fa ha causato molto trambusto».

    «Se non ricordo male», disse Macrone, «è stato proprio uno di voi a far assaggiare la spada a Caligola».

    Tra le truppe della Seconda legione la notizia dell’assassinio del precedente imperatore a gennaio era stata accolta con sgomento, per il timore di ritornare ai tempi della Repubblica, misto a sollievo per la fine del regno di Caligola, un imperatore segnato da una lunga serie di scandali, dalle voci sull’incesto con le sorelle, ormai di pubblico dominio, all’aver trasformato il palazzo imperiale in un postribolo; pertanto, l’assassinio organizzato dall’aristocrazia e dal Senato offesi era stato fin troppo prevedibile. Alla fine, un trio di ufficiali della Guardia pretoriana guidati da Cassio Cherea aveva preso in mano la situazione. I cospiratori avevano accoltellato Caligola trenta volte, ammazzato la moglie e fracassato la testa della loro giovane figlia contro il muro per mettere fine alla loro linea di sangue. Per i primi tempi era sembrato molto probabile un ritorno alla Repubblica, fino a quando i pretoriani non avevano scelto Claudio.

    Il pretoriano si fermò e si voltò verso Macrone, abbassando la voce. «Senti, che rimanga tra noi, Cherea è un tipo a posto, ma non aveva mai goduto di grandi simpatie tra le Guardie. Aveva dimenticato la regola d’oro: i pretoriani rimangono fedeli all’imperatore nella buona e nella cattiva sorte». Il giovane tacque qualche istante, fece un respiro per calmarsi e riprese. «In ogni caso, dopo la morte di Caligola, sono spuntati fuori alcuni figuri ripugnanti annunciando di non volere che Claudio diventasse imperatore, e addirittura un paio sostenevano anche di meritarsi essi stessi il trono, altrimenti avrebbero fatto di tutto per riportare Roma alla Repubblica! E farci così ripiombare negli anni bui della guerra civile e delle carneficine per le strade…». Al pensiero la guardia rabbrividì. «Ovviamente l’imperatore non può regnare se tra le truppe circola il dissenso».

    «Ovviamente», confermò Macrone.

    «Esatto, per cui questi ultimi mesi li abbiamo passati a cercare di estirpare e far sparire quelli che si opponevano a Claudio».

    «Sparire?», chiese Macrone con una smorfia.

    «Sì», rispose la guardia, lanciando fulmineo sguardi a destra e a sinistra per accertarsi che nessuno stesse ascoltando la loro conversazione. «Zitti zitti li abbiamo prelevati in strada, portati al palazzo imperiale e messi a tacere», aggiunse, facendo un inconfondibile gesto di traverso sulla gola. «Senatori, equites e magistrati. E pure qualche legato. I figli sono stati esiliati o, peggio, rinchiusi nelle scuole gladiatorie. E l’elenco si allunga di settimana in settimana. Dai retta a me, nessuno è al sicuro».

    «Non sono discorsi che mi piacciono, questi», commentò secco Macrone. «I soldati non dovrebbero immischiarsi in faccende di politica».

    La guardia alzò una mano in segno di simulata resa. «Ehi, non guardare me. Sai come vanno le cose. Gli ordini sono ordini. Se me lo chiedi, ti rispondo che sono quei liberti di cui si è circondato l’imperatore che dovremmo tenere d’occhio. Dovresti vedere come si rivolgono a noi, ma sono gli orecchi dell’imperatore stesso».

    La guardia raddrizzò la schiena e si avvicinò alla serie di cancelli in ferro battuto dell’entrata del complesso del palazzo imperiale. Una folata di aria fresca spazzò la strada mentre Macrone, scortato dalle guardie, saliva un’ampia scalinata che conduceva a una sala fiocamente illuminata con pareti di marmo e un bassorilievo raffigurante la famosa battaglia di Zama, in cui Publio Cornelio Scipione, il grande riformatore dell’esercito romano, aveva riportato la vittoria decisiva su Cartagine. Poi percorsero un lungo corridoio e attraversarono un sontuoso giardino adornato da fontane e statue, interamente circondato da arcate marmoree. Oltre gli archi, Macrone intravide i tetti del Foro e le colonne del Tempio di Castore e Polluce. Giunti sul versante opposto del giardino, salirono l’ennesima rampa di scale di pietra ed entrarono in una grande sala con un’abside sul fondo. Le guardie scortarono Macrone attraverso la sala, raggiungendo una figura in ombra, in piedi davanti a una pedana rialzata solitamente utilizzata dall’imperatore per i ricevimenti di corte.

    L’uomo sul podio non era l’imperatore. Aveva capelli ricci e scuri e il naso cadente tipico dei Greci. La pelle liscia e la corporatura longilinea facevano intuire che l’uomo non aveva mai conosciuto un solo giorno di fatica. Indossava la tunica semplice dei liberti seppur intessuta di fili di sottilissima lana. Aveva gli occhi neri come i fori di una maschera di scena.

    «Ah, ecco il famoso Macrone!», disse il liberto con un gonfiato tono di lode. «Un vero eroe romano!».

    L’uomo si avvicinò a Macrone, le labbra sottili contorte in un sorriso.

    «Lasciateci», ordinò alle guardie con una sferzata di voce stridula. I due pretoriani annuirono e ritornarono sui loro passi verso il centro della sala. Il liberto li seguì con gli occhi finché non furono fuori portata di orecchio.

    «Bisogna stare attenti davanti a chi si parla di questi tempi», disse. «In particolare se si tratta di pretoriani: hanno l’erronea convinzione che l’imperatore debba essergli riconoscente in eterno. Che sta succedendo al mondo se delle guardie pensano di poter dominare il più potente uomo del mondo conosciuto?».

    Macrone si morse la lingua. Aveva sentito dire che dopo l’assassinio di Caligola, alcuni membri della Guardia pretoriana avevano pizzicato Claudio nascosto nel palazzo imperiale. Alla disperata ricerca di stabilità, i pretoriani avevano prontamente acclamato imperatore il cinquantacinquenne privo di qualsiasi esperienza di governo e che, a dar credito alle voci, il trono nemmeno lo voleva. Senza il contributo dei pretoriani, in quel momento su ogni moneta dell’impero avrebbe potuto esserci impresso il volto di un’altra persona. Non sorprendeva quindi che il suo interlocutore ne temesse la presenza, pensò Macrone.

    Il liberto disse: «Mi chiamo Servio Ulpio Murena, agli ordini del consigliere imperiale Marco Antonio Pallade. Immagino tu abbia già sentito questo nome».

    «No, spiacente», rispose Macrone con una scrollata di spalle. «Manco da parecchio dalla buona società, gli ultimi anni li ho passati a fare a pezzi Germani».

    Murena sbuffò. «So tutto dei tuoi trascorsi, ufficiale. È proprio per questo che ti ho mandato a cercare. Pallade è un segretario di sua maestà imperiale, coadiuva l’imperatore nell’amministrazione di Roma e delle sue province. Come me. Dimmi: quanti Germani pensi di aver ucciso durante la tua permanenza sul Reno?».

    Macrone scrollò le spalle. «Dipende».

    «Da cosa?», lo interrogò Murena, sollevando la testa verso l’ufficiale.

    «Be’, possono volerci parecchi colpi per abbattere definitivamente un germano medio», rispose Macrone. «Capita che a uno assesti bei colpi profondi e quello magari continua imperterrito a caricarti con la schiuma alla bocca. In pratica non li vedi sparire nel mondo dei morti, si cercano un angolino tranquillo per andare a morire. Ma muoiono comunque anche loro. Nella Seconda abbiamo un detto: la spada non fa distinzione tra un germano e un greco».

    «Capisco». Il liberto cambiò nervosamente posizione, chiaramente turbato dalla piega che la conversazione sembrava aver preso. «E cosa vorrebbe dire esattamente?»

    «Un colpo di spada è un colpo di spada», rispose Macrone. «Affondala come si deve nello stomaco di uno e puoi dirgli tranquillamente addio, che sia un barbaro muscoloso o una femminuccia pelle e ossa».

    Murena si torse le mani, voltandosi e guardando verso i giardini e le due guardie pretoriane che attendevano sotto il viale ad archi. «Peccato che il grande Capitone non abbia seguito tale sagace consiglio».

    «Sagace?»

    «Sì, quasi sinonimo di assennato». Vedendo lo sguardo interrogativo sulla faccia di Macrone, il liberto roteò gli occhi. «Fa’ come se non avessi detto nulla. Quello che voglio dire è che tu hai una ragguardevole esperienza nell’ammazzare i nemici barbari di Roma».

    «Più che ragguardevole, direi», puntualizzò Macrone, gonfiando il petto.

    «Bene, perché ho un incarico per te».

    Macrone corrugò la fronte diffidente con un senso di ansia allo stomaco. «Un incarico?»

    «Sì, un incarico. Per mio conto».

    Macrone digrignò i denti. «Trovati qualcun altro per le tue sporche faccende. Io prendo ordini solo dal mio centurione, dal mio legato e dal mio imperatore, da nessun altro».

    Il liberto scoppiò a ridere, osservandosi le unghie. «Ho sentito dire che era parecchio che non mettevi piede in città, giusto?»

    «Tredici anni o giù di lì».

    «Allora solo per questa volta ti concederò il beneficio del dubbio. A Roma le cose sono cambiate: sarò anche un semplice liberto, ma faresti bene a rivolgerti a me con rispetto. Ho una certa influenza all’interno di queste mura, sai? Sufficiente a farti revocare le tue belle decorazioni… e la promozione a centurione».

    «Centurione?», ripeté Macrone con un sobbalzo. «Di cosa stai parlando?».

    Murena estrasse un rotolo di pergamena e Macrone notò il sigillo imperiale sulla cera. Murena lo aprì e lesse: «"Disposizione di sua maestà imperiale per il legato della Seconda legione: con attuazione immediata si ordina la promozione a centurione dell’optio Lucio Cornelio Macrone". Una posizione di tuo interesse, posso immaginare».

    Macrone lo fissò cupo.

    «Mi rincresce però non poter inviare la lettera prima che tu abbia eseguito un certo incarico per l’imperatore», spiegò il liberto.

    «Che tipo di incarico?», chiese Macrone a disagio.

    Murena accennò un sorriso. «Permettimi di spiegare nei dettagli. Tu eri presente nell’arena quest’oggi per ricevere la decorazione. Un momento di orgoglio, tristemente sciupato dalla sconfitta del nostro caro Capitone». Il liberto scosse la testa. «Eh, molto imbarazzante per l’imperatore. Capitone non era solamente il miglior guerriero della scuola gladiatoria imperiale e di conseguenza proprietà personale di Claudio, ma è stato anche il sesto gladiatore imperiale a soccombere per mano di Britomaris». Murena iniziò a camminare attorno a Macrone, che lo fissava diffidente. «Questi sono giorni difficili per il nuovo imperatore», continuò il liberto. «Ci sono molti scettici a Roma, alcuni apertamente ostili nei confronti di Claudio. Non solo all’interno del Senato, ma anche nel Foro e nelle taverne. Parlando francamente: l’imperatore non è stato una scelta unanime. Le bizzarrie delle linee di sangue e delle primogeniture significano che nessuno può pensare di indossare la corona di alloro senza dover poi affrontare attacchi nefandi alla sua supremazia. Hai sicuramente sentito i brusii di scontento tra la folla dopo che Capitone è stato ucciso. Una sconfitta del genere rischia di minare la stabilità del nostro regime sul nascere. Dobbiamo dimostrare al popolo che Claudio è il sovrano forte e decisivo di cui avevamo disperatamente bisogno dall’epoca aurea di Augusto».

    «E allora invadete qualche paese», fece Macrone scrollando le spalle. «Di solito è un trucchetto che funziona».

    Murena scoppiò a ridere come un tutore che asseconda un allievo impudente. «Grazie per la tua analisi veramente illuminante, optio. Vista questa tua genialità, mi chiedo come mai tu non abbia ancora raggiunto una posizione di livello superiore».

    Macrone trattenne l’irresistibile impulso di dargli un pugno in faccia.

    «Stai tranquillo, abbiamo già in mente qualcosa per il prossimo futuro», proseguì il liberto. «Il problema più pressante, però, per ora rimane Britomaris. Sei gladiatori sconfitti! È la peggior macchia sul nome dell’imperatore, un vero e proprio bubbone: dobbiamo inciderlo prima che scoppi. Non possiamo permettere che quel barbaro ci sconfigga ancora. Chiunque lo affronti d’ora in poi deve necessariamente trionfare, dimostrare a tutti che nessuno può sfidare l’imperatore e che Claudio è l’uomo adatto a occupare il trono».

    «E non potrebbe combatterci Ermete? È sicuramente il gladiatore più resistente che si sia mai conosciuto a Roma. Lo farebbe a pezzi nel tempo che ci vuole a far bollire un asparago», disse Macrone.

    «Non se ne parla nemmeno», ribatté secco Murena.

    «E perché?».

    Sulla faccia spigolosa del liberto si increspò una sgradevole smorfia di disgusto, come se stesse masticando un boccone di interiora di pesce marcio, venne di pensare a Macrone.

    «Devo confessare che non sono un grande ammiratore di Ermete. E nemmeno Pallade. Lo troviamo entrambi alquanto animalesco. In ogni caso, il problema vero di Ermete non sta nemmeno nello stile, tant’è vero che nel caso Capitone fosse morto, un altro consigliere dell’imperatore, un miserabile piagnucolone di nome Narciso, aveva predisposto che fosse proprio Ermete il successivo sfidante di Britomaris».

    «E dov’è il problema allora?», chiese Macrone.

    «Proprio questa mattina Ermete è stato vittima di un… episodio assai sfortunato, diciamo».

    «Vale a dire?», si incuriosì Macrone.

    «È stato derubato in strada, pensa un po’». Murena scosse la testa. «Dei malviventi gli hanno rotto parecchie ossa e non è in condizione di combattere; ma noi non possiamo certo aspettare che Ermete si rimetta da questo imbarazzante pestaggio. Abbiamo bisogno urgente di un sostituto».

    Murena smise di girare attorno a Macrone e gli si fermò esattamente davanti.

    «Allenerai un gladiatore che lo sostituirà nel combattimento contro Britomaris».

    Macrone lo fissò sconcertato. «Ma perché io?», farfugliò. «Non ho mai lavorato in un ludus, avete già sicuramente tutti i doctores che vi servono nella scuola imperiale, per questo lavoro».

    «In circostanze normali, sì, ma questo non è un combattimento come tutti gli altri. Dobbiamo far arrivare un messaggio potente al popolo, e quale metodo migliore per farlo, se non utilizzando un eroe dell’impero che mette a disposizione tutta la sua competenza tecnica per distruggere un barbaro come Britomaris?». Murena stese un sorriso ambiguo.

    Macrone scosse la testa con fare deciso. «Troppo rischioso», disse, «allenare qualcuno, intendo. Molto meglio scegliere semplicemente uno dei gladiatori della scuola imperiale; sono considerati i migliori guerrieri di Capua. Avreste sicuramente più probabilità di sconfiggere Britomaris con uno di loro piuttosto che con qualche recluta con ancora la puzza di latte in bocca.

    Murena fece una smorfia di disappunto, risucchiando aria a denti stretti. «Purtroppo la scuola imperiale è stata pesantemente falcidiata. Caligola ha buttato nell’arena gran parte dei gladiatori migliori e ci ha lasciato in eredità solo una manciata di scansafatiche, tutti assolutamente inadatti per questo scopo».

    L’assistente imperiale allacciò le mani dietro la schiena e percorse tutto il corridoio centrale, con passo lento e metodico, quasi stesse misurando il perimetro di un edificio. Il rumore dei sandali sul pavimento di pietra echeggiò per tutta la sala. «Ma fortunatamente la dea bendata sembra arriderci».

    «Arduo da credere», rispose Macrone, schioccando la lingua.

    Un abbozzò di sorriso apparve sulla faccia di Murena. «Sembra che abbiamo un candidato pronto all’uso. Un giovane con esperienza militare che da bambino è stato preparato da un gladiatore. Un uomo, mi dicono fonti attendibili, che affronta ogni battaglia con assoluta intrepidezza, una qualità rara che un soldato di violenza come te saprà certamente apprezzare. Con la giusta guida, potrebbe essere proprio l’uomo che fa per noi».

    «Un soldato, hai detto?», chiese conferma Macrone. «E come si chiama questo ragazzo?».

    «Marco Valerio Pavone», rispose Murena, abbassando lo sguardo su un sandalo e arricciando il naso come se avesse appena messo il piede in uno scolo di fogna. «Ma potrebbe esserti molto più familiare il nome del padre, Tito».

    Macrone si sentì letteralmente annodare le viscere. «Il legato della Quinta legione?».

    «Ex legato», lo corresse acidamente il liberto. «A oggi marcisce in una tomba anonima sulla Via Appia. Conseguenza prevedibile del suo tentativo di riportare Roma alla Repubblica. Stiamo ancora valutando l’opportunità di decimare anche l’intera Quinta, giacché i suoi uomini sembravano così entusiasti di sostenerlo nel tradimento».

    Macrone sentì un brivido gelido risalirgli lungo la schiena. La notizia dell’esecuzione del legato della Quinta non era mai arrivata alle truppe di stanza sul Reno, ma più veniva a conoscenza dei metodi con cui il palazzo imperiale trattava i propri nemici, più forte si faceva la voglia di tenersene a distanza. Bastonare barbari in Germania e Gallia poteva pure andare, ma il pensiero che i Romani si accoltellassero a vicenda alla schiena gli fece ripensare alle guerre civili che avevano messo in ginocchio Roma durante gli anni della Repubblica.

    «Il dissenso tra i ranghi non può essere tollerato«», puntualizzò Murena, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Era necessario dare un esempio».

    «Ma avete lasciato in vita il figlio?»

    «In quel momento non si trovava a Roma, era tribuno militare nella Sesta e l’abbiamo fatto arrestare e riportare indietro. L’imperatore aveva deciso fin dall’inizio di giustiziarlo nell’arena e a quello scopo l’ha fatto rinchiudere nella scuola gladiatoria di Paestum. Il lanista si è impegnato a far sì che il ragazzo muoia nell’arena prima della fine dell’anno».

    Macrone arricciò le labbra, riflettendo. «E adesso volete che Pavone salvi l’onore di Roma?»

    «Sono tempi disperati, questi. Con Ermete fuori causa, abbiamo bisogno di Pavone. Quantomeno per il momento. Addestrarlo, comunque, potrebbe non essere così semplice: il ragazzo è parecchio infastidito per tutta la faccenda del padre messo a morte».

    «Come è morto?», chiese prudentemente Macrone.

    Murena ridacchiò e scosse la testa. «Condannato a morte nell’arena. L’imperatore l’ha fatto combattere addirittura contro Ermete. E devo dire che Tito ha dato un gran bello spettacolo. Quando Ermete gli ha inflitto il colpo di grazia, dubito che avesse ancora una sola goccia di sangue in corpo».

    «Non mi sorprende allora che il ragazzo sia infuriato», commentò Macrone con un bisbiglio talmente basso da sfuggire all’udito di Murena.

    «Mi è stato detto che come soldato hai doti in abbondanza, Macrone. Penso proprio che tu sia l’uomo giusto per mettere in forma il ragazzo. Per cui ti chiedo di andare a Paestum, addestrarlo e riportarlo a Roma per il combattimento. Hai un mese di tempo».

    «Un mese?!», strepitò Macrone. «Vuoi scherzare, spero?!»

    «Al contrario», rispose Murena, «Mai stato più serio».

    «Ma… un mese! Non è nemmeno minimamente sufficiente per prepararlo a una battaglia».

    «Non è una battaglia, ma solo un combattimento nell’arena».

    «Solo un combattimento?». Macrone scosse la testa spazientito. «Ho molta esperienza di addestramento di legionari, e posso dire che anche i migliori hanno bisogno di mesi per raggiungere la forma, qualunque essa sia; i peggiori invece arrivano fino a tre o quattro volte tanto».

    «Pavone è diverso. Ha delle eccezionali doti naturali con la spada».

    «Questo l’ho già sentito dire», rispose secco Macrone.

    «Be’, non sono parole dette a vanvera. Il gladiatore che per primo ha allenato Pavone è uno dei doctores delle scuole imperiali e sostiene di non aver mai conosciuto un ragazzo con un talento così prodigioso. E a quanto si dice, nessuno ha mai visto un tribuno usare la spada bene come lui nella Sesta». Murena sospirò, alzando gli occhi al soffitto. «È il suo temperamento, invece, che preoccupa».

    «E l’imperatore che dice? È felice di aver la pelle salva grazie al figlio di un traditore?»

    «Nel clima attuale, non possiamo permetterci di fare gli schizzinosi», rispose acidamente il liberto. «Gli attriti domestici devono essere messi da parte se vogliamo impedire che questo barbaro ci tenga per la collottola ancora a lungo». Murena si osservò le maniche della tunica. «Tra l’altro, ho rassicurato l’imperatore che sarà lui stesso, e non Pavone, a prendersi tutta la gloria di una Roma con un onore ripristinato».

    E tu a seguire, sicuramente, pensò Macrone, ma per una volta riuscì a tenere il commento per sé. Spesso e volentieri il suo nemico peggiore era proprio la sua lingua sciolta. L’assenza di diplomazia era una delle ragioni per cui gli ci era voluto così tanto tempo prima di poter entrare in lizza per il centurionato, e adesso non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire l’occasione dalle mani, per nulla al mondo. Anche se questo significava dover lavorare per una serpe come Murena.

    «Fai posticipare il combattimento di uno o due mesi», propose, «mi serve più tempo con il ragazzo».

    «Mi spiace ma non è possibile», ribatté secco Murena. «L’annuncio è già stato fatto e la macchina organizzativa è già in moto. Non possiamo fare passi indietro adesso, né possiamo tollerare alcun attacco all’autorità dell’imperatore. Dovrai prendere atto della precarietà della situazione attuale».

    Macrone imprecò gli dèi a denti stretti. Solo pochi minuti prima si leccava i baffi all’idea di potersi concedere ancora qualche stravizio prima di ritornare sul Reno e crogiolarsi nella nuova posizione di idolo della Seconda. Adesso, invece, aveva davanti un mese chiuso in un buco di mortorio per allenare un gladiatore irrequieto in un ludus, circondato da prigionieri di guerra, schiavi recalcitranti e perdigiorno. E il rischio di perdere contro Britomaris e gettare altro imbarazzo addosso all’imperatore era un’eventualità a cui non voleva nemmeno pensare.

    «Ho inviato un messaggero a cavallo per dare istruzioni al lanista nel ludus di Paestum. Lo troverai ad aspettarti. Terremo il combattimento nel Foro di Cesare, un luogo molto più raccolto rispetto all’anfiteatro, ma decisamente perfetto: sontuoso e ricco di storia. Fu Cesare a farla costruire, e Augusto vi tenne poi i suoi ludi gladiatorii. E adesso il nostro imperatore vi riaffermerà la sua credibilità.

    A quel punto il liberto chiamò i due pretoriani. «Dovete partire immediatamente», ordinò poi senza nemmeno guardare Macrone. «Ho fatto sellare un cavallo per te e dai miei assistenti farò preparare un ordine imperiale che ti dia piena libertà alla scuola per qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno. Impiegherete cinque giorni di viaggio per raggiungere Paestum, se non erro. Per cui cinque all’andata e altrettanti al ritorno ti lasciano un totale di venti giorni di addestramento. Fanne buon uso. Domande?»

    «Solo una», rispose Macrone. «E se questo Pavone si rifiutasse di combattere? Voglio dire, se serba rancore nei confronti dell’imperatore per ciò che è accaduto alla sua famiglia, non penso sarà così entusiasta di aiutarlo, o sbaglio? Soprattutto considerato che lo avete già condannato a morte».

    Murena sfoderò un sorriso spietato e disse: «Ho qualcosa che gli sarà di forte incentivo al combattimento…».

    Capitolo tre

    Paestum

    Il doctor fece schioccare il frustino di cuoio sulla sabbia rovente e guardò truce le nuove reclute. «Schiena dritta!», sbraitò. «Alzate la testa, coglioni!».

    Strascicando i piedi gli uomini si disposero in una fila approssimativa sul terreno di addestramento di fronte a Calamo. Il doctor li passò in rassegna uno a uno come un macellaio che ispeziona i capi di bestiame al mercato, pensando amaramente che avrebbe avuto il suo bel daffare per metterli in forma. Calamo sapeva per esperienza quanto potesse essere duro un regime di addestramento e quanto pochi gli uomini che riuscivano a superare la fase di selezione. Un tempo aveva combattuto lui stesso come gladiatore, e a riprova di ciò aveva solo un’andatura zoppicante e un viso segnato da cicatrici.

    «Siete qui perché siete i più scarsi dei più scarsi», sentenziò. «I criminali comuni vi guardano dall’alto in basso; le puttane si rifiuterebbero di darvela, e persino gli schiavi vi ridono dietro. Ogni giorno Roma vi caca in faccia e se avessi potuto fare di testa mia, vi avrei spediti dritti a lavorare nelle cave. Oggi, però, è il vostro giorno fortunato, femminucce. Il padrone è di umore generoso e ha deciso di adottare una variazione. Vi offre l’opportunità unica di poter dare un senso alle vostre vite patetiche».

    Sul ludus cadde il silenzio. Il doctor cercò qualcuno per poter dare un esempio e puntò gli occhi penetranti su un ragazzo alla fine della fila. Il fisico spigoloso e goffo lo faceva sembrare molto più basso dell’effettiva altezza. Dagli occhi emanava disprezzo per tutto ciò che lo circondava, e sulla tunica indossava un mantello di lana finemente decorato. La vista del mantello fece saltare Calamo su tutte le furie. «Tu!», gli urlò contro mentre gli si avvicinava. «Ma che bel mantello ricco, sembrerebbe. Molto bello». Calamo assottigliò gli occhi come due fessure. «A chi l’hai rubato?».

    Il giovane scosse la testa. «A nessuno. È mio».

    Calamo gli tirò una gomitata sul plesso solare; il giovane grugnì, piegandosi in due, e cadde in ginocchio, tossendo e sputacchiando a terra. Calamo gli rimase in piedi sopra. «Voglio sentire signore quando mi parli, pezzo di merda. Come ti chiami?»

    «Marco Valerio Pavone», rispose il giovane boccheggiando per riprendere fiato.

    «Signore».

    «Dimmi, Pavone, pensi che sia nato ieri?»

    «No, signore».

    Calamo afferrò un lembo del mantello e glielo sbatté in faccia. «Però ti aspetti che io creda che un disperato pezzente come te possa permettersi un lusso del genere?»

    «Non l’ho rubato».

    «Stronzate! Mi stai dando del bugiardo?», ribatté Calamo, abbassando la voce.

    «È stato un regalo, signore».

    «Un regalo?», incalzò Calamo. «La feccia come te non riceve regali».

    «Lo giuro, signore. Me l’ha dato mio padre».

    Calamo scoppiò a ridere e si fregò le mani allegramente. «Oh, questa sì che è buona! Tu non hai un padre, ragazzo. Sei nato bastardo come tutti gli altri che sono qui nel ludus. Ma fammi divertire ancora: e chi sarebbe il tuo vecchio?»

    «Tito Valerio Pavone, signore. Legato della Quinta legione. O almeno lo era».

    La notizia colse Calamo alla sprovvista. Contorse la faccia in una smorfia dubbiosa e rimase in silenzio, riflettendo su come continuare. In vent’anni di lavoro nel settore non gli era mai capitato di incontrare il figlio di un legato che entrava in una scuola gladiatoria.

    «Un altro figlio di papà che entra volontario, eh?», ribollì, stizzito. «Li conosco quelli come te. Ti sei sputtanato l’eredità, vero? Con quale vizio, ragazzo? Prostitute? Vino? Il gioco o le scommesse alle corse di bighe? Ti fa tanto schifo cercarti un lavoro normale? Se sei venuto qui pensando che sarebbe stata una passeggiata, ti sbagli di grosso».

    «Non sono un volontario», rispose Pavone, rialzandosi in piedi. «Sono qui contro la mia volontà. Mio padre è stato ucciso da…».

    «Taci!», gli tuonò contro il doctor. «Francamente me ne infischio del perché sei qui. Per quanto mi riguarda, sei solo una recluta del cazzo, nient’altro».

    Pavone rimase zitto. Si era preso botte, sputi e urla da uomini al di sotto della sua classe da quando un drappello di pretoriani si era presentato al capo della Sesta per metterlo agli arresti e il doctor di certo non gli metteva paura. Ormai c’era ben poco che lo spaventasse, dopo tutto quello che era successo alla sua famiglia.

    Guardò Calamo allontanarsi disgustato e percorrere su e giù tutta la fila di uomini; la voce echeggiava sotto i portici rimbalzando sulle colonne di travertino che circondavano il campo di allenamento. Pavone notò che i piedi nudi dell’uomo erano nodosi e deformati da anni e anni di combattimenti sulla sabbia.

    «Qui non siamo nell’esercito», disse Calamo. «I gladiatori non sono legionari». Nel dirlo lanciò un’occhiata caustica a Pavone. «Se pensavate di passare i prossimi venticinque anni a scavare buche e a raccogliere conchiglie per l’imperatore, siete venuti nel posto sbagliato».

    Uno degli altri tirones alla destra di Pavone scoppiò in una risatina nervosa. Pavone vide Calamo incupirsi e girarsi a guardarlo. Era un giovane basso con capelli neri corti, un segno sul dorso del naso, una ciambella di grasso attorno ai fianchi, e indossava una tunica semplice e assai malridotta.

    «Tu! Nome?!»

    «Manlio Salvio Buccone, signore», rispose nervoso il giovane.

    «Buccone? Conosco un Buccone, un finocchio. Piace anche a te alzarti la toga, eh, dì la verità?»

    «No, signore».

    «Stronzate, certo che ti piace! Auctoratus o schiavo?»

    «Auctoratus, signore».

    «E vorresti diventare gladiatore, Buccone?»

    «Sì, signore».

    «Non farmi ridere. Non mi sembri proprio tagliato per fare il gladiatore, Buccone. Sembri piuttosto una merda da scrollarmi via dal calzare. Dimmi, perché hai intenzione di disonorare il mio ludus? Hai ammazzato qualcuno e devi nasconderti? O ti sei scopato la moglie del tuo padrone mentre lui era nel Foro a lavorare? È così?»

    «No, signore». Buccone chinò in avanti la testa per la vergogna. Pavone si sentì a disagio. Pur dispiaciuto per il povero Buccone, era comunque anche ben felice che Calamo avesse trovato qualcun altro con cui fare il prepotente. «Ho perso al gioco contro gente poco raccomandabile, signore, e ho pensato che diventando gladiatore avrei potuto saldare i miei debiti».

    «Un giocatore d’azzardo! A cosa hai giocato?»

    «Ai dadi, principalmente, signore».

    Calamo sogghignò compiaciuto. «Avrei dovuto capirlo! In effetti hai proprio la faccia da gonzo. Solo gli idioti giocano a dadi, Buccone. Quanto hai perso?»

    «Diecimila sesterzi».

    «Per tutti gli dèi, ragazzo!», esclamò Calamo. «E guarda poi in che condizioni ti presenti! Dovresti vincere almeno venti combattimenti per guadagnare tanto e personalmente non ho mai visto vincere nemmeno una volta i grassoni bastardi come te. O il figlio di un legato, se è per questo».

    Pavone aggrottò la fronte. Non gli piaceva affatto l’atteggiamento sprezzante del doctor nei confronti dell’esercito. Suo padre Tito era stato una specie di eroe per i suoi uomini, un soldato fin nel midollo, tutto il contrario degli idioti e degli aristocratici che occupavano gran parte delle cariche più alte nelle legioni. Inoltre Tito si era anche fatto benvolere per la passione per le corse di carri e lo si poteva incontrare spesso al Circo Massimo a fare il tifo per i Verdi, la sua squadra del cuore. Nessuna passione per le corse, però, poteva superare la sua devozione per i combattimenti di gladiatori. Pavone ricordava con affetto il padre spiegargli che Roma era stata fondata sul sacrificio e sul sangue, e che nessun uomo poteva essere degno di guidarne altri se non avesse compreso appieno il valore di quelle due virtù gemelle. Più volte gli aveva raccontato la storia del generale Publio Decio Mure il quale, sotto assedio durante le guerre sannitiche, si era immolato agli dèi dell’oltretomba in cambio della vittoria.

    E dopo vent’anni di servizio, Roma aveva ricompensato Tito con una condanna a morte. Pavone si sentì strozzare la gola da un groppo cocente, per l’indignazione che provava al ricordo del padre letteralmente sventrato e sbudellato dalla spada del suo assassino, mentre la folla ringhiava e urlava per avere sangue.

    «I gladiatori non costruiscono fortini, e nemmeno fanno marce», riprese con voce stentorea Calamo, allontanandosi da Buccone e rivolgendosi a tutte le reclute come se fossero un solo uomo. «Cercate di non fare errori. Se state col culo per terra nell’arena con la spada di qualche bastardo puntata alla gola, ricordatevi che non arriveranno compagni a salvarvi. Le tecniche gladiatorie sono competenze precise, signorine. Non è un’arte, come qualche tronfio individuo continua a sostenere. L’arte è roba per donne o, peggio, per Greci. Un gladiatore entra ed esce nell’arena da solo, l’unica differenza è se esce camminando o trascinato. I gladiatori si dedicano ai duelli uno contro uno. Buccone, perché tieni quella cazzo di mano alzata?»

    «Quando si mangia, signore?».

    La domanda fece trasalire Pavone, che all’improvviso si ricordò di quanto fosse anche lui affamato dopo quella lunghissima mattinata. Li avevano portati nel ludus all’alba per essere esaminati dal medico, un vecchio greco dagli occhi vitrei di nome Acheo. E da quel momento l’attesa era stata lunga e ansiosa, lasciando le reclute sulle spine di sapere cosa sarebbe successo.

    «Mangerai quando lo dirò io, Buccone. Caghi quando lo dirò io, dormirai quando lo dirò io e non pensare nemmeno lontanamente di farlo senza che io prima ti abbia autorizzato. Sono stato chiaro?»

    «Sì, signore!».

    Calamo girò la testa di scatto verso un gruppetto di uomini sotto il portico esposto a nord. Pavone ne notò, impressionato, la muscolatura possente e il busto ricoperto di cicatrici. Il doctor ne chiamò uno. «Amadoco!».

    Uno dei veterani si voltò e, sbuffando, si incamminò verso Calamo. Pavone lo esaminò. L’uomo aveva la pelle bianca come il gesso e una criniera di capelli biondi con una barba più scura e corta sulle guance. I muscoli erano perfettamente definiti; le vene gonfie come corde sugli avambracci e sul collo. Si fermò di fronte a Calamo che gli indicò le cicatrici.

    «Dimmi, quanti combattimenti hai avuto?»

    «Tredici, signore», rispose il gladiatore in un latino dall’accento pesante. Pavone notò lo sguardo ostile e duro dell’uomo.

    «E quante volte hai perso, Amadoco?»

    «Mai, signore».

    «Mai!», ripeté il doctor a voce alta, orgoglioso della risposta; poi tornò a rivolgere lo sguardo glaciale alle reclute. «Guardatelo, miserabili coglioni: vedete la faccia segnata e stanca di un uomo che si è preso la sua bella dose di pugni. Amadoco era solo un demolitore, quando è arrivato qui, niente di più, ma grazie alle mie indicazioni è ancora vivo, mentre i suoi molti avversari adesso si stanno facendo un lungo viaggetto verso l’oltretomba».

    Poi Calamo fece un cenno di congedo al veterano. «Per ora è tutto, Amadoco».

    «Sì, signore», rispose il colosso trace senza nessuna particolare espressione in faccia.

    Pavone lo guardò riguadagnare il suo gruppo di compagni veterani mentre Calamo tornava a fissare torvo le reclute. Il doctor fece un profondo respiro e voltò poi la testa in direzione di un balcone affacciato sul cortile. «Adesso, tutti schiena ben dritta. Il vostro lanista, Vibio Modio Gurges, vuole presentarsi a voi».

    Calamo si fece da parte. Pavone allungò il collo e vide spuntare una figura sul balcone. Un viso piccolo, labbra sottili con occhi incassati nelle orbite. La pelle del volto era tirata. Appoggiò le mani alla balaustra del balcone e fissò lo sguardo incuriosito su Pavone per qualche istante, prima di parlare a tutti.

    «Calamo è il vostro mentore, il vostro doctor. Se gli dèi vorranno, trasformerà qualcuno di voi in una leggenda dell’arena», esordì Gurges, spostando lo sguardo da Pavone al resto del gruppo di reclute. «Ma io sono il vostro padrone. Siete miei, corpo e spirito. Nei miei confronti avete il solenne impegno di farvi bruciare, legare, picchiare o uccidere con la spada. Alcuni di voi adempiranno alla promessa prima della fine dell’anno, gli altri, più fortunati, vivranno un po’ più a lungo. La maggior parte dei Romani vi considera la feccia dell’umanità. Io no». Gurges alzò gli occhi al cielo, poi giunse e batté le mani davanti al proprio viso. «Al contrario, io vi invidio».

    Il lanista fece una pausa e inspirò profondamente. «Vi invidio perché avete l’opportunità di morire di una morte gloriosa. A Roma, come qualcuno di voi probabilmente sa già, non esiste onore più grande. Il popolo griderà il vostro nome per le strade. Le donne vorranno giacere con voi. Alcuni uomini vorrebbe addirittura essere voi. I bambini continueranno a parlare della vostra leggenda anche molti anni dopo che il vostro sangue si sarà seccato».

    Gurges fece una seconda pausa. Un perfido ghigno solleticò gli angoli della sua bocca quando apparve uno schiavo con un vassoio d’argento e un solo calice di vino in equilibrio sopra. Il lanista lo afferrò e lo sollevò, brindando alle reclute. «Al vostro successo», disse, «o alla sconfitta».

    Tracannò il calice in un solo sorso e poi fece un cenno a Calamo. «Liberi».

    «Tornate all’allenamento!», ringhiò Calamo ai gladiatori. «Nuove reclute, al palus. Svelti!».

    Controvoglia, Pavone si incamminò verso i grossi pali di legno al centro del campo di allenamento. I pali si trovavano poco lontano da una meridiana utilizzata per cronometrare la durata di ogni esercizio. Come un normale allenamento nelle legioni, pensò Pavone. Il suo status privilegiato di tribuno della Sesta d’un tratto gli parve un sogno distante.

    «Non tu, ragazzino ricco», gli ordinò il doctor. Pavone si fermò e lanciò un’occhiata perplessa a Calamo.

    «C’è qualche problema?»

    «Il lanista vuole scambiare due parole con te».

    Capitolo quattro

    Uno schiavo domestico accompagnò Pavone lungo un ampio corridoio con un soffitto a volta decorato con colori sgargianti. Alla fine del corridoio, lo schiavo girò a sinistra e si fermò di fronte a una porta rivestita di placche di bronzo con colonne di marmo scolpito. Sul pavimento, un complesso mosaico rappresentava un combattimento tra due gladiatori con pettorali protettivi e scudisci.

    In quel momento

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