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La grande storia della guerra. Uomini, Stati e imperi in lotta
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E-book565 pagine8 ore

La grande storia della guerra. Uomini, Stati e imperi in lotta

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Info su questo ebook

L’evoluzione delle armi, delle strategie e delle tecnologie belliche, dall’antico Egitto al terzo millennio, dalla fionda alle armi di distruzione di massa

La guerra è la più complessa delle attività umane. È da sempre un elemento decisivo nell’evoluzione delle società, oltre che un oggetto privilegiato delle loro creazioni artistiche – da Omero a Shakespeare a Salvate il soldato Ryan – ma resta in parte avvolta dal mistero, sconcertante, spaventosa. Le descrizioni accurate di campagne e di battaglie, i simboli geometrici, le frecce rosse e blu disegnate sulla mappa non sono che il riflesso condizionato dell’uomo che cerca di mettere ordine nel caotico e oscuro orizzonte della sua conflittualità perenne. La guerra è una strana partita a scacchi in cui d’improvviso un pezzo può muovere in una direzione sbagliata, un pedone respingere l’attacco di una torre, una casella rivelarsi impossibile da attraversare, un re fuggire… Negli ultimi decenni noi occidentali l’abbiamo respinta ai margini della nostra vita privilegiata; eppure sappiamo che è là fuori, appena oltre il confine della nostra sicurezza, che aspetta come una belva nel buio. È essenziale non dimenticarcene, e dunque osservarla e conoscerla in tutti i suoi aspetti.

Dai tempi antichi alla contemporaneità la guerra è un filo rosso che percorre l’intera storia umana. Capire le guerre del passato è essenziale per affrontare il nostro futuro

Perché si fa la guerra
Le motivazioni individuali e collettive che spingono gli uomini e gli Stati a combattersi tra loro

Come si fa la guerra
Strategia e tattica, armamenti, logistica, pianificazione ed esecuzione delle manovre, battaglie decisive o guerra d’attrito: le molte vie verso la vittoria

Dove e quando si fa la guerra
Le stagioni e gli orizzonti sempre più vasti dei conflitti: dai rigori dell’inverno alle insidie della notte, dalle montagne più inaccessibili alle isole e ai deserti

La guerra degli uomini
L’esperienza del combattimento e la difficoltà di descrivere il vero “volto della battaglia”

Il presente e il futuro della guerra
Un mondo senza certezze: l’arte della guerra nel XXI secolo
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2020
ISBN9788822751065
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    Anteprima del libro

    La grande storia della guerra. Uomini, Stati e imperi in lotta - Gastone Breccia

    Premessa

    La guerra è un paradosso. È antica come il mondo, o perlomeno come le più antiche comunità umane organizzate, eppure è proiettata nel futuro; è semplicissima nella sua essenza – un duello, come scrive Carl von Clausewitz, per imporre con la forza la propria volontà all’avversario – eppure è complessa, imprevedibile, sorprendente, in continua trasformazione come «un vero camaleonte» ¹. È umanissima perché la facciamo da sempre, visto che il «buon selvaggio» ignaro di guerra è un nobile parto della nostra fantasia, ma spinge spesso chi la combatte a commettere azioni di una ferocia che fa inorridire. È crudele e miserabile, ed è causa di crudeltà e miseria, ma al tempo stesso è capace di ispirare sentimenti e comportamenti di nobile altruismo, fino al sacrificio estremo della vita. Sulla tomba del milite ignoto britannico, a Westminster, è scritto che il corpo del soldato senza nome ha meritato di essere sepolto tra i re della terra per il sublime gesto che ha compiuto. Attorno alla tomba ci sono quattro citazioni dall’Antico e dal Nuovo Testamento, tra cui Greater love hath no man than this – «l’uomo non ha un amore più grande di questo» (Giovanni

    XV

    , 13) – che si presta a diverse interpretazioni: prima di tutto amore per Dio e la patria, ovviamente, ma i vecchi soldati preferiscono pensare all’amore per i propri compagni, per chi ha condiviso la fatica, la noia, la paura, la sofferenza, l’orrore della guerra. No greater love than this…

    La guerra è distruttrice e generatrice di mondi, perché se lascia indietro una scia di sangue, morte e rovine è anche capace di trasformare e rinnovare in pochi anni la struttura sociale, l’economia, i costumi, la religione e la morale delle comunità coinvolte. Gli esempi sono numerosi in ogni epoca: dall’affermazione politica degli «uomini coperti di bronzo» nella Grecia arcaica ai cittadini-soldati della Rivoluzione francese, dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America nel 1863 ai progressi dell’emancipazione femminile quando milioni di donne, in tutti i Paesi coinvolti, si dimostrarono essenziali per la produzione industriale durante la Grande Guerra. La definizione marinettiana «sola igiene del mondo» è un irresponsabile oltraggio alle vittime dei conflitti ²: eppure è impossibile non riconoscere come la guerra abbia imposto accelerazioni formidabili alla storia.

    Infine, l’ultimo paradosso: la guerra è orribile, ma è anche il più grande spettacolo creato dall’uomo. Plutarco racconta che il console Lucio Emilio Paolo ricordava spesso le emozioni provate all’inizio della battaglia di Pidna, quando la vista della falange macedone che attaccava in massa, con il sole che brillava su migliaia e migliaia di punte di lancia, gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene: la terrificante grandiosità della scena era rimasta scolpita nella sua mente e non smetteva di affascinarlo anche a molti anni di distanza ³. Ventidue secoli dopo un ufficiale inglese a bordo di un mezzo da sbarco che dirigeva verso le spiagge della Normandia, nel momento in cui le batterie costiere aprivano il fuoco, afferrò un megafono per scandire ai compagni i versi più famosi dell’Enrico

    V

    di Shakespeare: And gentlemen in England now a-bed / Shall think themselves accursed they were not here – «e i gentiluomini in Inghilterra, adesso nei loro letti, si malediranno per non essere stati qui con noi» ⁴… Anche lui aveva certamente paura, ma il mattino del 6 giugno 1944 non avrebbe cambiato il suo posto di combattimento con la sicurezza della propria casa: perché quello che stava osservando – navi da guerra sull’intero orizzonte, stormi di cacciabombardieri a volo radente verso la costa, colonne d’acqua che si sollevavano verso il cielo grigio, scie di traccianti rossastri che si incrociavano e si spegnevano tra le dune – era uno spettacolo da togliere il fiato.

    L’orrore di un campo di battaglia non ha eguali, come sanno tutti i veri soldati. La bella morte, come il buon selvaggio, è un’invenzione letteraria: in guerra è spesso particolarmente squallida e triste, solitaria e disperata, lontanissima da qualsiasi immagine di bellezza. Il corpo lacerato dalle armi nemiche è «spettacolo indecente, abominevole», come scriveva il poeta Tirteo già nel

    VII

    secolo prima di Cristo ⁵; ma questa è solo una delle due facce della medaglia, perché proprio Tirteo ci ha lasciato alcuni splendidi versi che esaltano la tenacia e il coraggio dei guerrieri della Grecia arcaica, schierati spalla a spalla nei ranghi della falange oplitica:

    Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,

    mordendosi le labbra con i denti

    nascondendo le cosce, gli stinchi, il petto e gli omeri

    entro la cavità d’uno scudo immenso;

    l’asta possente stringa nella destra e l’agiti,

    muova tremendo sul capo il cimiero.

    E l’azione gagliarda gli sia scuola di guerra

    né con lo scudo resti fuori tiro.

    Entrando nella mischia, con la lancia o con la spada

    ferisca e faccia del nemico preda.

    Appoggi piede contro piede, scudo a scudo

    il cimiero al cimiero, l’elmo all’elmo,

    s’accosti, petto contro petto, e lotti col nemico

    brandendo l’elsa della spada o l’asta.

    Ci sono una forza e una bellezza terribili nei versi di Tirteo e nella realtà che descrivono. Il fascino che la guerra esercita sulla mente creatrice dell’uomo sembra inesauribile: poeti, musicisti, romanzieri, registi cinematografici, pittori e scultori ne hanno tratto ispirazione, da sempre, per esaltare l’eroismo e condannare l’orrore, per celebrare la nobiltà dei vinti e le gesta dei vincitori, per onorare i caduti e piangere le vittime innocenti. Come recita la splendida chiusa Dei sepolcri, Ettore, eroe sconfitto caduto in difesa della sua città, sarà ricordato e pianto «finché il sole risplenderà su le sciagure umane». Non il corpo oltraggiato dal nemico semidivino, coperto di polvere e sangue, ma la grandezza del suo cuore di uomo mortale.

    Questo libro non parlerà delle guerre, ma della guerra. È un tema impopolare: oggi siamo convinti di averla allontanata dalle nostre vite di occidentali ricchi e felici; crediamo sia possibile ignorarla, lasciando che se ne occupino pochi professionisti, perché dopo aver scatenato la sua furia per due volte in un quarto di secolo – in una misura mai conosciuta prima dall’uomo, che ci ha portato a un passo dall’autodistruzione – ci consideriamo saggi per averle voltato le spalle. È un’illusione. Piccoli ma terribili focolai si sono riaccesi persino in Europa in tempi recenti; e in situazioni estreme non esiste alcun mezzo che possa trattenere a lungo la guerra al di fuori di uno spazio protetto.

    Questo almeno è ciò che insegna la storia. Non dobbiamo dimenticarlo. Come non dobbiamo smettere di studiare la guerra: perché chi distoglie lo sguardo dal suo volto insanguinato rischia di comprendere ben poco l’uomo, la sua cultura e il mondo in cui vive.

    1 C. von Clausewitz, Della guerra, nuova edizione a cura di Gian Enrico Rusconi, Torino 2000, p. 17 (libro

    I

    , 1, 2, per la definizione della guerra come Zweikampf, «duello») e p. 41 (libro

    I

    , 1, 28 per l’immagine della guerra come «camaleonte»).

    2 Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il suo Manifesto del Futurismo sul quotidiano parigino «Le Figaro» sabato 20 febbraio 1909: vi si legge, al punto 9, Nous voulons glorifier la guerre – seule hygiène du monde

    3 Plutarco, Emilio Paolo,

    XIX

    ; cfr. G. Breccia, Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma, Roma 2017, p. 309, n. 52.

    4 Sono due versi del celebre discorso che William Shakespeare fa pronunciare al re inglese Enrico

    V

    prima della battaglia di Azincourt (25 ottobre 1415).

    5 Tirteo, fr. 6 Gentili-Prato. Tirteo visse all’epoca della 35a olimpiade (640-637 a.C.); il poeta, nella sua opera, menziona battaglie contro i Messeni, e partecipò quindi con ogni probabilità alla seconda guerra messenica (datazione incerta, prima metà del

    VII

    sec. a.C.), al termine della quale la sua città, Sparta, ridusse i nemici sconfitti al rango di iloti (servi-coltivatori) e distribuì le loro terre tra i cittadini, mettendosi così in grado di creare e mantenere un esercito professionale. Attorno al 650 a.C. reperti archeologici confermano l’introduzione della falange oplitica a Sparta.

    6 Tirteo, fr. 7 Gentili-Prato.

    1

    Perché si fa la guerra

    1.1. Scimmie assassine?

    L’alba dell’uomo. Un gruppo di scimmie antropomorfe scopre un misterioso monolite nero, lo circonda, lo tocca. Il sole sembra sorgere dal bordo superiore della pietra; in sottofondo l’epica introduzione del poema sinfonico Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss. Stacco. Un paesaggio desolato di polvere e rocce. Una delle scimmie fruga tra un mucchio di ossa abbandonate. Raccoglie una tibia, la impugna, la solleva con qualche esitazione, poi la fa cadere con forza sul teschio di un grosso mammifero, che si frantuma. Stacco. Il gruppo arriva a una pozza d’acqua dolce, ma per potersi abbeverare deve scacciare altre scimmie della stessa specie. Il maschio con la clava guida i compagni; sfida a gesti il capo avversario, lo affronta, lo abbatte con un paio di colpi ben assestati. Alla fine scaglia la sua arma verso il cielo, feroce e trionfante. Ha ucciso un suo simile e per questo non solo è diventato più potente, ma ha mostrato agli altri la strada verso la conquista del potere.

    Così inizia 2001. A Space Odyssey, uno dei capolavori di Stanley Kubrick, presentato in anteprima mondiale il 2 aprile 1968. La pietra nera, che comparirà ancora nel film come inquietante simbolo dell’evoluzione, si mostra per la prima volta facendo scoprire agli ominidi la possibilità di usare un oggetto per uccidere. Per uccidere meglio, con più rapidità ed efficacia. La tesi è chiara: la competizione tra simili per l’uso di risorse limitate è inevitabile; l’aggressività è una caratteristica innata; la ricerca di mezzi adatti a esercitare la violenza stimola la mente. L’uso di un’arma adatta a uccidere segna il passaggio dall’età ferina a quella dell’homo sapiens.

    È una visione terribile e controversa dell’evoluzione umana. Stanley Kubrick venne influenzato dal dibattito allora molto acceso tra zoologi e antropologi sulle origini della violenza: nel 1961 Robert Ardrey, nel suo fortunato e discusso African Genesis, aveva proposto la teoria della killer ape («scimmia assassina»), sostenendo che il passaggio dalla raccolta alla caccia – e quindi al consumo della carne delle prede – da parte dell’australopithecus africanus (l’ominide comparso in Africa circa 4 milioni di anni fa) lo aveva trasformato in un predatore aggressivo, pronto a utilizzare le sue nuove abilità e le sue nuove armi anche contro i propri simili ¹.

    Ardrey si era basato sulle scoperte dell’antropologo e paleontologo australiano Raymond Dart, che fin dal 1924 aveva identificato nello scheletro di un ominide di tre anni rinvenuto a Taung, in Sudafrica, la specie dell’australopithecus africanus, da lui e da molti altri considerata l’«anello mancante» nella catena evolutiva che portava all’homo sapiens. Dart aveva poi formalizzato la sua teoria sulla «transizione predatoria dalla scimmia all’uomo» in un saggio del 1953, nel quale interpretava le ferite rilevate su numerosi teschi di australopithecus come prova dell’uso di armi primitive ². Era un colpo formidabile alle tesi dei sostenitori della bontà dell’uomo allo stato di natura, gli «ottimisti» eredi di Rousseau che dominavano la scena scientifica nel secolo scorso: ma le idee di Dart vennero ignorate o respinte senza troppi complimenti. L’ipotesi della «scimmia assassina» fu parzialmente accolta dal premio Nobel Konrad Lorenz nel suo saggio sull’aggressività del 1963, ma continuarono a moltiplicarsi aspre critiche da parte degli antropologi, che ebbero buon gioco nel mettere in luce come le prove addotte per dimostrare l’aggressività dell’australopithecus fossero scarse e di interpretazione controversa. C’era una linea rossa che non doveva essere attraversata: gli animali sono buoni, uccidono animali di specie diverse solo per sopravvivere; gli uomini diventano cattivi solo quando pensano che sia accettabile (e vantaggioso) uccidere dei propri simili. Ma si tratta di una convinzione culturale, e come tale può essere eliminata da un progresso della nostra civiltà che porti alla definitiva condanna etica della violenza intraspecifica.

    L’uomo discendente diretto di una «scimmia assassina», la cui innata aggressività ha rappresentato un fattore decisivo nel processo evolutivo, è una tesi considerata poco meno che offensiva da buona parte della comunità scientifica: che infatti ha reagito con una curiosa «dichiarazione sulla violenza» approvata il 16 maggio del 1986 durante un congresso internazionale a Siviglia (Seville Statement on Violence). Vi si legge che

    è scientificamente sbagliato sostenere che abbiamo ereditato una tendenza a fare la guerra dai nostri antenati animali; è sbagliato sostenere che la guerra o qualsiasi altro comportamento violento sia geneticamente programmato nella natura umana; o che nel corso dell’evoluzione della specie umana vi sia stato un processo di selezione favorevole al comportamento aggressivo. La biologia non condanna l’umanità alla guerra. ³

    L’

    UNESCO

    ha ufficialmente adottato la dichiarazione di Siviglia nel 1989; per anni, da allora, antropologi e sociologi sono stati tacitamente diffidati dal proporre teorie affini a quella della «scimmia assassina». Si percepisce un inquietante eccesso di zelo – e una chiara preoccupazione ideologica – nel condannare senza appello una teoria scientifica basata sul comportamento di ominidi vissuti tra quattro e due milioni di anni fa. In realtà la questione è estremamente complessa: nuovi studi hanno dimostrato che anche tra gli scimpanzé vi sono casi di violenza organizzata intraspecifica – qualcosa di simile a una proto-guerra, in altre parole – ma non tutti sono convinti che questo faccia capire meglio perché l’uomo abbia preso la strada che lo ha portato alla sua straordinaria capacità di dare la morte ai propri simili.

    Prendere come punto di partenza gli studi sulla violenza organizzata tra gli scimpanzé, come pure condurre un’analisi comparativa con i conflitti tribali su piccola scala per comprendere la guerra moderna è tutt’altro che semplice e scontato. «Guerra» è un termine dal significato ampio, fa notare Robert Hinde, zoologo dell’Università di Cambridge (Regno Unito), uno tra i firmatari del Seville Statement. Anche se Hinde concorda su molti aspetti delle tesi di Wrangham sul possibile parallelismo esistente nei conflitti tra gruppi diversi di scimpanzé e di umani, ha però delle riserve sulla possibilità di estrapolare conclusioni impegnative da questi studi. «Nelle grandi guerre tra nazioni la gente fa quello che fa perché è suo dovere nel ruolo che ricopre: chi combatte nelle guerre istituzionalizzate, in altre parole, non lo fa perché è aggressivo, ma perché ritiene suo dovere farlo», osserva Hinde, che ha servito nella Seconda guerra mondiale come pilota da caccia.

    Forse è vero che «la biologia non condanna l’umanità alla guerra», come dice il Seville Statement on Violence: ma l’umanità se la cava benissimo da sola, senza il suo aiuto. Se spostiamo lo sguardo abbastanza in avanti rispetto alle controverse gesta dell’australopithecus africanus, infatti, quello che ci appare sono comunità di uomini in guerra. Su questo c’è ormai poco da discutere: il buon selvaggio descritto da Jean-Jacques Rousseau nel

    XVIII

    secolo, accolto come concittadino nella repubblica della ragione dagli illuministi e vagheggiato dalla maggioranza degli antropologi del ’900, sconvolti dalla catastrofe del primo conflitto mondiale – il noble sauvage ignaro di guerra molto probabilmente non è mai esistito, o si è tenuto ben nascosto nei recessi di foreste impenetrabili, evitando il contatto con i suoi simili. L’uomo che possiamo osservare, o di cui rimangono tracce superstiti, è un combattente. Forse non lo è per una questione genetica, quanto piuttosto socio-culturale: ma si arma, si addestra e si organizza per uccidere altri uomini. Del resto persino Hobbes, molto spesso citato come sostenitore di una visione pessimistica opposta a quella del noble sauvage, parla di un’aggressività sociale, non genetica, perché indotta dal confronto:

    nella natura umana troviamo tre principali cause di conflitto. In primo luogo, la rivalità; in secondo luogo, la diffidenza; in terzo luogo, la gloria. La prima causa spinge gli uomini all’aggressione per un guadagno materiale; la seconda, per la sicurezza; la terza, per la reputazione. Nel primo caso si usa la violenza per impadronirsi delle persone di altri uomini, delle loro mogli, dei loro figli e del loro bestiame; nel secondo per difenderli; nel terzo per delle sciocchezze, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, o qualsiasi altro segno di scarsa considerazione, o direttamente rivolto verso le loro persone, o indirettamente verso i loro congiunti, i loro amici, la loro nazione, la loro professione o il loro nome.

    La violenza, anche per Thomas Hobbes, nasce quindi dalle relazioni tra gli uomini, e ha sfumature innumerevoli, dall’uccisione all’insulto, dallo stupro alla riduzione in schiavitù alla semplice diffamazione. Non è una condanna, ma una scelta; non un impulso irrefrenabile, ma uno strumento per ottenere un risultato, che sia impadronirsi di un oggetto, incutere timore (e quindi aumentare la propria sicurezza) o consolidare il prestigio dell’individuo e del suo gruppo di fronte a potenziali avversari.

    È una scelta frequente, ma non obbligata: sono possibili comportamenti di segno opposto, anche da parte degli stessi soggetti. Come ha scritto efficacemente Doyne Dawson, gli «psicologi evoluzionisti, partendo da un’osservazione fatta da Charles Darwin alla fine dell’Origine della specie, hanno proposto una soluzione diversa dalla rigida opposizione tra natura e cultura», ovvero tra una concezione dello sviluppo umano determinato dalla genetica e dall’istinto giustapposta al modello che privilegia l’apprendimento in tutte le sue forme. Secondo gli psicologi evoluzionisti,

    la mente umana sarebbe simile a una rete di programmi specializzati di computer che si sviluppano in modo da padroneggiare specifici problemi di adattamento, come procurarsi e condividere il cibo, riprodursi, elaborare un linguaggio, rispondere a una minaccia esterna. Si ritiene che questi meccanismi abbiano carattere sia biologico che culturale; in sostanza, rimangono latenti finché non vengono chiamati in causa da ragioni specifiche, e per questo motivo possono manifestarsi in alcune società ma non in altre.

    Se la guerra ha le sue radici in un simile meccanismo psicologico, è dunque sbagliato considerare il ricorso alla violenza un aspetto «geneticamente programmato» del comportamento umano, come in effetti temevano gli scienziati firmatari del Seville Statement. Quello che la nostra specie possiede per natura è piuttosto un meccanismo in grado di decidere quale strategia – guerra o pace – sia più conveniente adottare di fronte a una determinata minaccia. Questo modello può spiegare «la strana combinazione di bellicosità endemica e di altrettanto diffusa disponibilità alla pace che si riscontrano nella storia umana, e la nostra capacità passare rapidamente da un atteggiamento all’altro». Non solo popoli primitivi «bellicosi in modo apparentemente irriducibile» hanno abbandonato la guerra nel giro di pochi anni, ma anche società complesse hanno dimostrato di potersi lasciare di colpo alle spalle generazioni intere di militarismo sotto la pressione degli eventi, come dimostra il destino parallelo di Germania e Giappone dopo la Seconda guerra mondiale.

    Ogni tentativo di spiegare perché si fa la guerra deve dar conto sia della sua ubiquità che della sua flessibilità. […] C’è stato, nell’evoluzione umana, un processo di selezione del comportamento aggressivo, questo sembra ormai innegabile: ma non per questo siamo condannati alla guerra. Le abitudini e i comportamenti bellicosi hanno permeato la costituzione biologica e culturale della specie umana, ma non in maniera deterministica.

    Ovvero: di solito siamo indotti a ritenere che la guerra sia una risposta efficace ai nostri problemi, quali che siano; altrettanto spesso la nostra cultura ci conforta in questa scelta, offrendoci una fitta rete di testi di vario tipo adatti a corroborarla. Ma geneticamente non siamo né feroci «scimmie assassine», bruti consacrati alla sopraffazione reciproca, né moderati amanti dell’armonia regalataci dallo stato di natura. Siamo degli opportunisti: guerra e pace, uso della forza o rinuncia alla violenza sono strategie alternative del comportamento sociale, due opzioni – con molti gradi intermedi – cui i gruppi umani possono fare ricorso a seconda del vantaggio percepito in una particolare situazione. Possiamo diventare aggressivi se ci conviene; possiamo rinunciare alla violenza, anche «pubblicamente» come hanno fatto i governi di Giappone e Germania dopo il 1945, se riteniamo sia la scelta più opportuna per la nostra prosperità.

    La guerra è una scelta. Una scelta grave: perché in guerra si muore, e la morte spaventa tutti. Se non è l’istinto a costringerci all’uso della violenza, bisogna trovare un’altra risposta alla domanda iniziale di questo capitolo. Perché l’uomo combatte, uccide e si fa uccidere?

    1.2. Il Canto della lancia

    Immaginate una sala da banchetto in una villa sull’isola di Creta. Un lato è aperto sul mare, e le tende leggere lasciano entrare la brezza che rinfresca l’ambiente. Sui triclini disposti lungo i muri ci sono una mezza dozzina di uomini non più giovani; la loro conversazione è vivace, allegra, mentre due fanciulle silenziose servono il vino forte dopo averlo mescolato con una punta di miele. Gli amici parlano del passato. Scherzano tra loro. Hanno combattuto in guerre dimenticate. Sono stati feriti, sono stati sfiorati dalla morte, hanno ucciso. Nella quiete dolcissima della sera uno di loro chiede agli altri: perché? Perché abbiamo passato i migliori anni della nostra vita a combattere, invece di godere in pace quello che la vita aveva da offrirci? Ne è valsa la pena? Un altro cerca di rispondere, ma si confonde. Un terzo alza la mano, impone il silenzio e dice: «Hybrias, amico mio, rispondi tu per tutti noi…».

    L’uomo chiamato Hybrias scuote la testa: non ne ha voglia. Sta cercando di attirare l’attenzione di una delle ragazze e ha la coppa vuota. Ma gli altri insistono, rumorosamente. Allora Hybrias si fa passare dalla ragazza un piccolo strumento a corde, si alza in piedi, si schiarisce la voce. E canta.

    Io ho grande ricchezza – una lancia e una spada,

    E il bello scudo di cuoio, che protegge il petto.

    Con questo io aro la terra, con questo raccolgo,

    Con questo spremo il dolce vino dalla vite,

    E grazie a questo io vengo chiamato signore di uomini.

    Quelli che non hanno il coraggio di portare lancia e spada

    O il bello scudo di cuoio che protegge il petto,

    Tutti questi uomini prostrati attorno al mio ginocchio

    Mi prestano omaggio, e mi chiamano

    Signore e grande re.

    Una scena conviviale dalla «tomba del tuffatore» (470 a.C. circa).

    Il cosiddetto Canto della lancia di Hybrias, guerriero e poeta cretese del

    VI

    secolo prima di Cristo, è arrivato fino a noi grazie alla miscellanea erudita di Ateneo di Naucrati, I dotti a banchetto, composta poco dopo la morte dell’imperatore Commodo (192 d.C.). La scena che ho descritto è frutto della mia immaginazione, ovviamente, ma è verosimile: Hybrias, infatti, improvvisò i suoi versi durante un convivio, senza dubbio per intrattenere vecchi amici che ripensavano ai giorni passati sui campi di battaglia ⁹. Il Canto della lancia non è un capolavoro, ma contiene alcune verità fondamentali per il tema di questo capitolo: l’uso delle armi permette di conquistare onore e ricchezze, mentre «chi non ha il coraggio di portare lancia e spada» si condanna da solo a passare la vita all’ombra dei guerrieri. Hybrias, usando le sue armi, non uccide soltanto i nemici, ma simbolicamente apre la terra, miete il raccolto e spreme il succo dell’uva da cui avrà il vino. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro. Alla domanda «perché l’uomo fa la guerra», Hybrias e i suoi amici avrebbero risposto senza un attimo di esitazione: per godere beni e privilegi, ampliare il dominio, affermare autorità e prestigio. Che altro?

    La guerra promette di essere una scorciatoia per appagare bisogni e desideri. I nostri vicini possiedono qualcosa che noi non abbiamo e ci piace molto: piuttosto che aprire lunghe trattative e convincerli a dividerla con noi, piuttosto che discutere delle modalità e del prezzo, di vantaggi reciproci e prospettive future, possiamo tentare di impadronircene con la forza. È più rischioso, ovviamente, ma più rapido e spesso più efficace. Il «ratto delle Sabine», archetipo occidentale della guerra di razzia, è la scorciatoia scelta da Romolo e dalla sua banda di giovani pastori per fondare una vera comunità, riprodursi e prosperare senza dover scendere a patti con i loro confinanti. Niente di nuovo: quando Roma era ancora un villaggio di capanne, Omero cantava le imprese degli eroi greci, i loro dieci anni di sofferenze e morte per vendicare il rapimento di Elena dalla reggia di Menelao. L’Iliade, alle origini della nostra civiltà letteraria, è una stupenda trasposizione mitopoietica del desiderio che spezza l’ordine e provoca la guerra.

    1.3. Nobili motivi

    Siamo aggressivi, ma non basta, perché siamo soprattutto opportunisti. Siamo disposti a ricorrere alla violenza per soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri, e non basta ancora. Se fosse soltanto una questione di interesse – se si trattasse soltanto di impadronirsi di più potere e ricchezza – non sarebbero molto numerosi gli uomini disposti a combattere. Perché in guerra si muore, lo sanno tutti: e come ha scritto Martin van Creveld, «in fin dei conti, il motivo per cui combattere non può mai essere una semplice questione di interessi è che – per dirla senza tanti giri di parole – i morti non hanno più interessi» ¹⁰.

    Hybrias alzerebbe la sua coppa per brindare a questa scoperta, in realtà ovvia: la guerra è molto più di una rapina organizzata, o del violento appagamento della sete di potere. Chi si ostina ad affermare che si combatte soltanto per appropriarsi dei beni altrui – che si tratti di un gregge di pecore o del petrolio iracheno la sostanza non cambia, solo la scala di grandezza – si ostina a non capire fino in fondo la natura della guerra. Ci sono altri motivi per cui l’uomo, da decine di migliaia di anni, inventa, perfeziona e utilizza strumenti adatti a uccidere i suoi simili. «Veniva dal profondo, ed era arrivato», scrive Louis-Ferdinand Céline nel suo Viaggio al termine della notte, parlando dell’oscuro desiderio che aveva travolto l’Europa nell’estate del 1914. Molto spesso la pulsione verso la violenza organizzata non si può ridurre alle forze elementari che Hobbes analizza nel Leviathan. Viene appunto dal profondo, è estremamente complessa e riguarda la collettività più che i singoli uomini. «Intere società, infatti, possono essere trascinate in una sorta di stato di alterazione segnato da una eccezionale intensità emotiva» ¹¹: al solo annuncio della prospettiva di una guerra ci sono sempre masse di uomini e donne che si lasciano trasportare dalla passione, si accalcano dietro a immagini sacre, simboli e stendardi, convinti di avere un nemico e validi motivi per combatterlo.

    Lo scoppio della Prima guerra mondiale, ad esempio, ispirò una vera e propria esplosione di entusiasmo sia tra i non combattenti che tra le potenziali reclute: e non si trattava di una smania di uccidere, saccheggiare, o partecipare in massa a un’«espansione imperialista», ma di qualcosa di molto più degno ed elevato.

    Già: ma che cosa? Quale terribile miraggio, quali aspettative possono mai spingere un’intera generazione a correre in massa, tra canti e bandiere – come se andasse a una festa – incontro alla morte in battaglia? La Germania aveva poco da guadagnare da una grande guerra europea: in molti dovevano saperlo, eppure a Berlino la folla invase le strade «come se un fiume avesse rotto gli argini e inondato il mondo» ¹². Robert Musil, allora trentaquattrenne, era nella capitale dell’impero germanico ai primi di agosto del 1914:

    quello che sta accadendo attorno a lui lo affascina e lo spaventa al tempo stesso. Trova odiosi i canti patriottici nei caffè […]. Eppure nel giro di poche settimane Musil tornerà in Austria per arruolarsi nell’esercito. Contro le tempeste emotive che si sono scatenate nemmeno la sua intelligenza e la sua natura fredda e distaccata possono fare molto: «La guerra mi venne addosso come una malattia, o meglio come la febbre che la accompagna». ¹³

    La Kriegseuphorie: folla a Berlino sulla Parisier Platz domenica 2 agosto 1914.

    A San Pietroburgo, a Vienna, a Parigi e a Londra si verificarono simili «febbricitanti» manifestazioni di entusiasmo collettivo; persino nella sonnolenta Firenze, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, il poeta Dino Campana, seduto al caffè Paszkowski, percepì l’avvicinarsi della tempesta come una ventata di entusiasmo travolgente:

    Si sente suon di tamburi alle porte della città

    Al Paszkowski è un dolce noioso sereno sulla vecchia pietra

    col vento che mette in follia le bandiere. ¹⁴

    Uomini e donne di grande cultura, fino a pochi giorni prima alieni da qualsiasi manifestazione bellicosa, scrissero parole che sarebbero poi apparse sconcertanti a loro stessi, frasi che sembravano partorite dalla mente di una persona sotto gli effetti di una droga. Perché? Anche Sigmund Freud cercò una spiegazione: alla fine concluse che ci doveva essere una terribile zona d’ombra nella psiche umana, un desiderio perverso di distruzione e morte che contrastava la pulsione erotica alla vita, e in una celebre corrispondenza con Albert Einstein si spinse fino a ipotizzare che la sola speranza di contrastare un simile desiderio sarebbe stato «il diffondersi del terrore della forma che assumeranno le guerre future» ¹⁵.

    Su quest’ultimo punto Freud anticipava i tempi, visto che la prospettiva della

    MAD

    ¹⁶ ha agito e agisce ancora come potente antidoto per un conflitto globale. Per il resto il suo tentativo di spiegare le cause che avevano scatenato la Kriegseuphorie («euforia bellica») alla vigilia della Grande Guerra era parziale e non molto convincente. «Le emozioni che travolsero l’Europa nel 1914 avevano poco a che fare con la rabbia, l’odio o la cupidigia», ha scritto giustamente Barbara Ehrenreich. «Erano invece espressione dei sentimenti più nobili che gli esseri umani possano avere la fortuna di provare»: altruismo, spirito di sacrificio, comunanza di interessi, solidariet໹⁷. La guerra promette ai singoli individui di trasformarsi nella piccola parte di un organismo destinato a compiere azioni che saranno ricordate dalle generazioni future. Promette di nobilitare esistenze altrimenti invisibili, opache, prive di scopo, raccogliendo minuscoli frammenti di egoismo e mettendoli al servizio di una possente spinta collettiva¹⁸.

    Promette. O meglio illude, e poi tradisce. Ma non fino in fondo. È inutile sperare che l’orrore possa cancellare «il fascino oscuro della guerra», perché quest’ultimo dipende dal manifestarsi di forze ancestrali e positive. Del resto chi potrebbe dire a un soldato, a un patriota, a un partigiano che la sua scelta di impugnare le armi era sbagliata, e convincerlo? Non basta il rimorso per aver ucciso altri uomini, che prova in forma più o meno acuta chiunque non sia patologicamente privo di coscienza morale; non basta il ricordo di orrori, miserie e sofferenze; non bastano nemmeno la desolazione della sconfitta, o la consapevolezza di essersi battuti per una causa condannata dalla storia. Chi ha conosciuto la guerra e le è sopravvissuto proverà sempre sentimenti contrastanti, ma mai del tutto negativi, verso i giorni passati insieme ai compagni a combattere. No greater love than this

    Anche per questo gli uomini fanno le guerre. Non solo per soddisfare l’aggressività nascosta nel profondo del loro inconscio, come ipotizza Freud; non solo per la speranza di un guadagno materiale, o per accrescere il proprio prestigio. L’uomo va in guerra perché si sente parte di una collettività che condivide uno scopo chiaro, e di ovvia e grande importanza. Questa consapevolezza gli fa scoprire d’improvviso di possedere energia, resistenza fisica e morale, capacità di collaborare con i suoi simili. Soprattutto lo fa sentire felice. Gli effetti positivi della guerra sulla salute mentale delle persone sono stati analizzati per la prima volta da Émile Durkheim, il grande sociologo francese, che si rese conto di un fatto apparentemente strano:

    quando i paesi europei entrarono in guerra, nel 1914, le percentuali di suicidi crollarono. Gli ambulatori psichiatrici a Parigi rimasero stranamente vuoti durante entrambe le guerre mondiali, persino quando l’esercito germanico entrò trionfalmente in città nel 1940. I ricercatori hanno documentato una situazione analoga durante le guerre civili in Spagna, Algeria, Libano e Irlanda del Nord. Uno psicologo irlandese, H.A. Lyons, ha scoperto che il tasso di suicidi a Belfast diminuì del 50% durante i riots del 1969-70, e anche gli omicidi e gli altri crimini violenti diminuirono bruscamente. ¹⁹

    Uomini e donne erano meno depressi durante il periodo dei disordini in Irlanda di quanto non lo fossero stati negli anni precedenti; in particolare proprio gli uomini che vivevano nei distretti dove gli episodi di violenza erano più frequenti e più gravi. Al contrario nella contea di Derry, che rimase a margine dei riots, il tasso di depressione tra gli uomini aumentò. Sulla base di questi dati empirici Lyons ha formulato l’ipotesi che nelle aree «pacifiche» gli uomini erano infelici «perché non potevano aiutare il loro gruppo sociale a partecipare alla lotta».

    Quando le persone sono attivamente coinvolte in una causa, le loro vite hanno uno scopo, e questo determina un miglioramento nella loro salute mentale. […] Sarebbe irresponsabile consigliare di far ricorso alla violenza come mezzo per migliorare l’equilibrio psichico, ovviamente, ma le scoperte fatte a Belfast indicano che le persone si sentono davvero meglio, dal punto di vista psicologico, quando sono più coinvolte nel destino della loro comunità. ²⁰

    Se questo destino è drammatico, se comporta rischi e sofferenze, la situazione non cambia: al contrario, quando si analizzano le situazioni apparentemente più disperate – il comportamento della popolazione sotto i bombardamenti, ad esempio, da Londra nel 1940 a Sarajevo nel 1992 a Kobane nel 2015 – si scopre che gli esseri umani «non soltanto non soffrono troppo, ma addirittura mostrano le loro qualità migliori quando si trovano in difficoltà: quello che gli dispiace davvero è non sentirsi necessari» ²¹.

    Sono in parte considerazioni ovvie: tutti abbiamo sperimentato, nel corso della vita, quanto la nostra psiche e il nostro fisico siano programmati per risparmiarsi in assenza di pericoli esterni, ma reagire con la massima efficienza in situazioni di crisi. Nessuno si augura di trovarsi sotto le bombe: se capita, il comportamento della maggioranza degli individui è sorprendentemente positivo. Persone di solito chiuse e scostanti sono disposte a collaborare coi loro compagni d’avventura; persone deboli scoprono risorse di energia insospettabili; persone fragili e volubili si dimostrano capaci di resistere per lunghi periodi a pressioni psicologiche che avrebbero considerato intollerabili. Tutto questo accade grazie a un ritrovato senso di solidarietà e alla condivisione di uno scopo, fosse pure quello della semplice sopravvivenza: qualcosa che di solito manca, soprattutto nelle società moderne. Come ha scritto James Hillman, «la guerra non solo chiede che le sia dato un senso» – come sto cercando di fare in questo libro – ma, incredibilmente, lo offre:

    un senso che si scopre nel bel mezzo del suo caos. I soldati sopravvissuti a una battaglia dichiarano, al ritorno, che quello è stato il momento più ricco di senso della loro vita, di un senso che ne trascende ogni altro. Libri importanti hanno raccolto i racconti di quei soldati e affrontato questo tema. Malgrado la confusione logorante, l’insensatezza del caso e la paura paralizzante, il senso della guerra si palesa a coloro che in essa sono impegnati, un senso che rimane inspiegabile, che rimane incomprensibile e tuttavia è capace di durare tutta una vita. Dopo la Seconda guerra mondiale una donna francese, intervistata da J. Glenn Gray, disse: «Lei sa che non amo la guerra e mai vorrei che si ripresentasse. Ma se non altro mi faceva sentire viva, viva come non mi ero mai sentita prima e come non mi sono più sentita dopo». ²²

    I singoli individui possono quindi essere indotti a partecipare a una guerra da una serie di motivi diversi, che vanno dal riemergere dell’aggressività ancestrale alla sete di ricchezza e potere, dalla speranza di acquistare prestigio di fronte ai membri del proprio gruppo fino al più nobile impulso a integrarsi in uno sforzo collettivo che dia senso all’esistenza. Anche se non abbiamo trovato una risposta univoca, possiamo ritenere soddisfatto, nei limiti del possibile, il desiderio di capire cosa possa spingere l’uomo a combattere i suoi simili.

    Ma le tribù, gli Stati, gli imperi? Perché sfidano la sorte scegliendo la strada del conflitto piuttosto che quella del dialogo, della trattativa, del compromesso? Anche le comunità rischiano di morire in guerra; certamente vanno incontro a trasformazioni profonde, che persino in caso di vittoria ne mettono in pericolo equilibri sociali, tradizioni, valori, gerarchie. Come scrive il maestro cinese Sun (Sun Tzu, o più correttamente Sunzi),

    gli affari militari sono un’importante questione di stato; il terreno su cui si giocano la vita e la morte; la via del permanere e del perire. ²³

    Nessun capo di una comunità organizzata – che sia una tribù, una polis, uno stato-nazione o un impero – entra in guerra a cuor leggero. Almeno non dovrebbe: perché chi detiene il potere si presume abbia interesse a conservarlo, mentre la guerra è distruttrice e creatrice di mondi.

    1.4. Sulla «via del permanere e del perire»

    [Clinias cretese:] «Tutte le nostre consuetudini sono adattate alla guerra. […] Il termine pace, per come viene normalmente utilizzato, non è altro che un nome: in verità ogni polis, per legge di natura, si trova perpetuamente coinvolta con tutte le altre in uno stato di conflitto permanente».

    Platone, Leggi, 626a

    Se si prescinde dalla guerra strettamente difensiva, che non è una scelta ma una necessità, i gruppi umani si affidano all’uso della forza per quattro ragioni fondamentali: opportunismo, dovere, bisogno, paura. La prima causa di guerra è piuttosto comune, perché quando ci si sente più forti dei propri avversari è facile lasciarsi sedurre dalla prospettiva di acquisire vantaggi materiali con poco rischio. In situazioni del genere chi ha il potere di decidere la condotta politica di una comunità, se pensa di ottenere una vittoria militare facile, rapida e relativamente poco costosa in termini di uomini e mezzi, si comporta da predatore, attaccando senza essere stato provocato. Spesso si tratta di azioni imprudenti, basate su una valutazione ottimistica delle proprie possibilità, oltre che moralmente condannabili, ma la sostanza non cambia: la prima ragione per entrare in guerra è l’opportunismo, il desiderio di imboccare la via breve verso un accrescimento di ricchezza e potere. Gli esempi non mancano, in tutte le epoche e a tutte le latitudini. Per limitarci alle vicende italiane basta citare qui il patto segreto di Londra del 26 aprile 1915, in cui venne garantita la nostra entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, o «la discesa in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente» annunciata da Mussolini il 10 giugno 1940: episodi molto diversi dal punto di vista del contesto storico, delle implicazioni morali e delle conseguenze a breve e lungo termine, ma accomunati dall’illusione di poter sconfiggere senza troppa fatica un avversario già in grave difficoltà su altri fronti ²⁴.

    Il secondo motivo per combattere è invece nobile, almeno apparentemente: si decide infatti di entrare in guerra per senso del dovere e dell’onore, nel rispetto di quanto previsto da un precedente patto di alleanza concluso con un «amico» che subisce un’aggressione esterna. Adolf Hitler attaccò la Polonia il primo settembre del 1939 basandosi su considerazioni opportunistiche – che possono rientrare quindi nella prima tipologia ²⁵ – viziate da un catastrofico errore di calcolo, ovvero dalla convinzione che le democrazie occidentali non avrebbero dato inizio a un nuovo conflitto europeo per difendere l’indipendenza polacca, onorando l’impegno preso a Londra il 6 aprile precedente ²⁶. Le cose non andarono come aveva sperato il capo del Terzo Reich: Francia e Inghilterra, che si erano dimostrate arrendevoli in occasione degli accordi di Monaco del 1938, dopo poche ore di incertezza dichiararono guerra alla Germania. La propaganda nazista reagì con violenza, ma nessuno avrebbe potuto accusare i governi di Londra e Parigi di agire in maniera illegittima: uno dei principi fondamentali del diritto internazionale è che i patti vanno rispettati – pacta sunt servanda.

    Anche i trattati, tuttavia, quando prevedono clausole tali da danneggiare altri soggetti, possono essere causa di un uso non giustificato della forza. Il giudizio su quest’ultimo punto varia a seconda delle epoche e delle civiltà: in linea di principio è sempre ritenuta lecita la guerra difensiva, persino dai severi teologi dei primi secoli dell’era cristiana, perché a nessuna comunità organizzata può essere richiesto di limitarsi alla resistenza passiva, essendo questo un comportamento che solo i singoli individui, ascoltando i dettami della propria coscienza, possono concepire e mettere in atto fino al sacrificio estremo. Per estensione è quindi lecito non solo l’uso della forza in difesa di sé stessi, ma degli amici a cui si sia legati da vincoli pubblicamente riconosciuti: se la Polonia viene aggredita, e l’impero britannico ha promesso alla Polonia di tutelare la sua indipendenza, l’impero britannico deve intervenire, succeda quel che succeda; se Annibale attacca Sagunto, e Sagunto ha stretto un legame di amicitia col popolo romano, Roma deve intervenire; se Saddam Hussein invade il Kuwait, e il Kuwait è membro delle Nazioni Unite, le Nazioni Unite devono intervenire.

    Sembra ci sia poco da aggiungere. I patti vanno rispettati, altrimenti si ricade nello scenario hobbesiano del bellum omnium contra omnes, «la guerra di tutti contro tutti». Gli accordi di amicizia tra i popoli, conclusi secondo le norme del diritto internazionale, rappresentano una delle poche alternative allo stato di guerra permanente, che persino Platone sembra considerare il più «naturale» per le società umane ²⁷. Ma anche i patti possono essere delle trappole che scatenano la violenza. Possono diventarlo per caso, oppure possono essere concepiti fin dall’inizio per sfruttare l’imprudenza di un potenziale avversario. Allearsi con uno Stato debole ed esposto alle mire espansionistiche di una potenza ostile – la Polonia, Sagunto, il Kuwait – può rivelarsi un mezzo efficace per creare un casus belli sulla cui legittimità nessuno sarà poi in grado di sollevare dubbi, e quindi poter reagire a un’aggressione e punire il colpevole ²⁸.

    Il terzo motivo per mettersi sulla rischiosa «via del permanere e del perire» è la convinzione di

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