Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lo stato delle cose
Lo stato delle cose
Lo stato delle cose
E-book160 pagine1 ora

Lo stato delle cose

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Italia, ovunque Non esiste un posto definito per collocare le storie narrate in questo libro, il loro tratto unificante non è lo spazio, mail tempo. Il tempo del XXI secolo, che scorre rarefatto e straniante, eppure frenetico e tecnologico, accompagnato dai suoi interpreti: che siano zelanti e integrati, oppure dissonanti e stralunati, essi ottano, resistono, reprimono, sovvertono, a volte semplicemente osservano. le storie contenute in questo libro raccontano di relazioni di potere e della violenza, esplicita o implicita, manifesta o ipocrita, che nasce, vive e muore all'interno di queste relazioni. Parlano dello stato delle cose.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835828174
Lo stato delle cose

Correlato a Lo stato delle cose

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lo stato delle cose

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lo stato delle cose - Gian Paolo Di Loreto

    LO STATO DELLE COSE

    di Gian Paolo Di Loreto

    Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale

    Prima edizione: novembre 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana           

                      Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Gian Paolo Di Loreto

    LO STATO 

    DELLE COSE

    PROLOGO

    no one knows I've lost the way

    I'm searching for a brighter day

    won't you come inside?

    won't you come inside?

    The Danse Society – Come Inside

    Piove. Di brutto. Non sembra una giornata di metà settembre, ma l’atmosfera è quella dell’autunno inoltrato, visto che fa pure abbastanza freddo.

    Sono davanti a questa chiesa dalle linee tristemente dritte, mentre l’ombrellino portatile che di solito tengo in macchina si dimostra troppo piccolo per garantirmi un’adeguata protezione dalla pioggia battente. Ogni tanto si avvicina qualcuno, e gli offro quel po’ di riparo che l’ombrello consente. Qualche parola fugace, nulla più: il pudore di questi momenti gioca per tutti un ruolo fondamentale nel bloccare l’esternazione di pensieri troppo articolati. Meglio così, evitiamo frasi di circostanza.

    Intanto la giacca mi è diventata completamente zuppa all’altezza della spalla destra, e ora che sono solo decido di spostarmi leggermente, cercando qualche improbabile riparo che difatti non trovo.

    Giorno appropriato per un funerale, nulla da eccepire.

    Mi viene in mente un video musicale, girato tutto in bianco e nero, in cui il protagonista, con vestito nero decisamente retrò e tanto di cappello a cilindro, balla e si dimena piuttosto grottescamente durante un funerale che si svolge in una giornata plumbea, al suono di una canzone che parla di una estate in cui non smette mai di piovere e in cui il cielo è sempre nero come se fosse notte.

    No, per carità… Proprio non ci siamo…

    Mi rendo quasi subito conto che, condizioni meteo a parte, il funerale del video non ha proprio niente a che spartire con quello di oggi.

    Incrocio con gli occhi il manifesto funebre della curva che celebra con semplicità il defunto, un semplice: «Ciao» seguito dal soprannome, anzi, dal nome di battaglia.

    Riprendo, lentamente, a guardarmi intorno, e mi fisso su qualche figura che si muove sul sagrato; cerco di carpire il significato di traiettorie pedonali che si risolvono in strani giri concentrici, fino al ritorno al punto d’origine, magari dopo qualche battuta rapida scambiata al volo e sempre a mezza voce.

    Nel frattempo la folla sul sagrato pare aumentata e non capisco se il motivo sia il defluire delle persone pigiate all’interno della chiesa oppure se ci siano stati nuovi arrivi, fatto sta che le persone delle quali non riconosco il volto ora sono la maggioranza.

    Compio una breve panoramica su questi volti. In alcuni casi la pioggia fa il suo onesto lavoro, si confonde con le lacrime, ma può poco o nulla nell'attutire le espressioni attonite, accigliate, nei soggetti più giovani soprattutto frastornate.

    Ma vedo anche rabbia, la contrazione dei lineamenti che sfocia in mascelle serrate incorniciate da capelli grondanti pioggia.

    Dolore e rabbia, sintesi ideale di questo pomeriggio. Alla fine, gira che ti rigira, ci siamo arrivati e non c’è molto da aggiungere.

    O forse sì, c’è dell’altro.

    Ci sono i colori e le iconografie richiamati da maglie, felpe, sciarpe o da qualunque altro accessorio, la cui familiarità non si limita a restituirmi un po’ di tepore in questo pomeriggio umido, ma mi fa riflettere su come certe emozioni possano dare senso a mondi che secondo molte persone senso non hanno, tanto da esser dipinti solamente come ostili, stralunati, un po’ folli.

    Mondi che sfioro, che a volte detesto, che a volte mi affascinano, dei quali sicuramente non posso fare a meno.

    Il funerale è ormai alla fine.

    Salgo in auto e a fatica mi immetto nella lunga coda fino a che, lentamente, passo di fianco alla chiesa e al piazzale a essa antistante, ormai vuoto. Ma è solo una questione di prospettiva.

    Mentre mi allontano penso che quel piazzale è pieno di tutti quelli che hanno cercato e cercano qualcosa che non hanno trovato e stentano tutt’oggi a trovare, che sbattono e sbatteranno il grugno senza capire bene la realtà, ma con in testa la speranza di come vorrebbero che fosse.

    Al di là della mia volontà, sono dentro a questo stato delle cose.

    Tanto vale tentare di raccontarlo.

    NUOVI IMPIANTI

    What if I say I'm not like the others?

    What if I say I'm not just another one of your plays?

    You're the pretender

    What if I say I will never surrender?

    Foo Fighters – The Pretender

    Alla fine non era riuscito a resistere e quel pomeriggio, deviando repentinamente dal tragitto prefissato, era giunto fin lì: restava solo da svoltare l’angolo del grande centro commerciale, poi se lo sarebbe trovato per la prima volta davanti.

    Syd attese il verde del semaforo pedonale e attraversò la grande strada a quattro corsie, diretto verso il suo obiettivo.

    Ora che era arrivato sul marciapiede del centro commerciale si bloccò per un momento, mentre nella bocca sentì un sapore sgradevole, chissà, forse era per le telecamere della sorveglianza che spuntavano dai muri come tanti funghi occhiuti e grigi.

    Il boato che improvvisamente si propagò nell’aria giunse in parte attutito dai muri dell’edificio, eppure riuscì ad attraversargli la testa con l’effetto di una lama; puntò lo sguardo verso la propria figura magra riflessa sulla vetrata del centro commerciale, fino a che a fior di labbra non emerse un: «‘fanculo.»

    Affrettò il passo con decisione e girò quel maledetto angolo e finalmente lo vide, duecento metri di fronte, leggermente più in basso della collinetta artificiale sulla quale lui ora si trovava e dalla quale si dipanava la grande urbanizzazione residenziale che comprendeva anche palestre, piscine, centri commerciali.

    Si mise a osservarlo con attenzione: era incredibile. Non perché fosse particolarmente grande e imponente, ma perché visto da lì, nuovo fiammante, con quella perfetta sintesi di cemento, acciaio e vetro, le tettoie spioventi che catturavano i raggi del sole ormai obliqui, dava più l’impressione di essere un tempio futuristico che un posto per guardare il calcio.

    Ora che il vociare sembrava affievolirsi Syd ricordò, mentre una punta di dolore gli trafiggeva la bocca dello stomaco. Ricordò quei momenti nei quali si alzavano forti i cori d’incitamento e gli sfottò agli avversari; ricordò le riunioni col suo gruppo il giorno prima del match, le sveglie all’alba per le trasferte, qualche scazzottata con i gruppi rivali.

    L'urlo liberatorio della folla al fischio finale dell’arbitro suonò anche per lui come una liberazione, una liberazione da vecchi ricordi ma anche da nuovi desideri, e il tempo presente riprese spietatamente a scorrere. Non si rendeva bene conto di quanto fosse rimasto in quella condizione sospesa, forse un bel po’ perché gli era salita una gran sete.

    Girò stancamente sui tacchi compiendo a ritroso la strada dalla quale era venuto e a una traversa successiva trovò un camioncino che vendeva bibite e panini gestito da un tizio con tratti decisamente mediorientali, e mentre gli ordinò da bere si meravigliò di come il tizio, se era veramente ciò che sembrava, fosse riuscito a ottenere l’autorizzazione per stare così vicino allo stadio.

    Mandò giù una sorsata piuttosto generosa, sbirciando distrattamente lo schermo di una piccola e antiquata televisione a tubo catodico posta dietro il bancone che iniziava a diffondere i finali degli incontri del pomeriggio.

    Nella via spuntavano le avanguardie dei tifosi usciti dal nuovo stadio e prese a osservarne alcuni con attenzione, come se volesse individuare nei loro movimenti qualche segno, qualche elemento di distinzione dal resto dell’umanità.

    «Lo vedi? In fondo non hanno nulla di diverso…», Syd ribadì a sé stesso, scuotendo lievemente la testa.

    Ritenne che forse era venuto il momento di prendere una decisione.

     «Ma sì, l’impianto è solo un chip» ripeté ancora tra sé, sfregandosi lievemente la parte esterna del braccio, quasi per provare a tastare ciò che non c’era, «In fondo è uno stupido congegno elettronico da mettere sotto la pelle, e poi chi ci farà più caso…e potrai finalmente tornare allo stadio, e andare di nuovo anche in un sacco di altri posti…»

    Il rumore di un elicottero lo distolse dalle sue riflessioni e notò che nel frattempo la strada si era riempita, la marea colorata dei tifosi della squadra di casa avanzava compatta e piuttosto silenziosa, nessuna corsa sfrenata, nessun coro, nessun urlo sguaiato, nessuna celebrazione, eccezion fatta per quella degli sponsor ovunque rigorosamente in bella mostra, o per il nome di qualche giocatore più o meno famoso stampato sulle spalle di qualche ragazzino che indossava la maglia della squadra.

    «Ne vale la pena? Ne vale veramente la pena?» si chiese sottovoce in un sibilo di rabbia: la risposta già la conosceva, non era necessario tentare ancora di mentire a sé stesso.

    Anche perché ormai quasi tutti sapevano che gli impianti localizzatori sottocutanei, come li chiamavano le autorità, non servissero solo per la gestione dell’ordine pubblico allo stadio o per l’ingresso in certi luoghi come discoteche e centri commerciali, ma nascondessero anche altro.

    L’elicottero nel frattempo si era abbassato e si distinguevano bene le antenne protese sul muso, antenne che individuavano, verificavano, registravano.

    Sentì di nuovo quel sapore sgradevole in bocca e per reazione vuotò d’un fiato il suo bicchiere.

    Adesso aveva voglia di correre, di urlare, di scagliarsi contro qualcuno a caso tra coloro che componevano quella ordinata marea, qualcuno che aveva tollerato, tollerava e avrebbe ancora tollerato l’affronto disumano di avere addosso per sempre un parassita elettronico.

    E poi capì che aveva voglia di urlare anche contro sé stesso perché si sentiva irreversibilmente diviso a metà, per sempre costretto a scegliere tra una vita sociale ipercontrollata e una integrità

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1