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Mamma voglio morire
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E-book249 pagine3 ore

Mamma voglio morire

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Info su questo ebook

Questo romanzo è basato sulla storia vera di una bambina che a soli tre anni voleva già morire. Ancor prima di aver sperimentato l’esistenza. Colpita da un sottile malessere, un’incomprensibile malinconia, incubi che non le danno tregua. Attecchiti come parassiti su una mente in via di formazione, affetta da un’estrema, ingestibile sensibilità. Da qui parte la condanna, il messaggio di fondo dell’opera contro certi media che non rispettano la fragilità dei giovani (ma anche dei meno giovani) con la messa in onda di immagini crudeli, raccapriccianti, violente. L’omicidio di suo padre le sconvolge ulteriormente la vita. Sarà proprio lei a dare una svolta alle indagini per scoprire l’assassino, convinto di aver compiuto il delitto perfetto. A questo punto il racconto si discosta dalla narrazione a sfondo psicologico, proseguendo su un binario parallelo che assume i connotati di un giallo. Riservando colpi di scena che lasciano il lettore col fiato sospeso in quel confine fra cielo e terra dove tutto è possibile. Se ci credi, lo vuoi e ci speri.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835829171
Mamma voglio morire

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    Anteprima del libro

    Mamma voglio morire - Maria Cristina Giongo

    MAMMA VOGLIO MORIRE

    di Maria Cristina Giongo

    Mamma voglio morire è liberamente ispirato ad una storia vera. Alcuni riferimenti a fatti e persone sono puramente casuali, altri schermati per motivi di privacy.

    Prima edizione: febbraio 2020

    Tutti i diritti riservati 2020 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana          

                     Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Maria Cristina Giongo

    MAMMA VOGLIO

    MORIRE

    Dedico questo libro a una cara amica, Alessandra Appiano, giornalista e scrittrice. Anche lei, come la bambina della storia, travolta da un’inspiegabile devastante sofferenza, un perfido malessere esistenziale, a volte ingestibile. Nella vita reale la protagonista del libro ce l’ha fatta; lei purtroppo no. Ha posto fine alla sua esistenza il 3 giugno 2018. 

    Lo dedico inoltre a Christiaan e ad Alexander sperando di essere riuscita a far vivere loro un’infanzia serena, giocosa, spensierata, protetta da tanto amore. Con un grazie di cuore per averlo sempre contraccambiato codesto immenso amore, 

    dando un senso al mio passaggio su questa terra.

    La vostra Mamma sempre e per sempre. 

    PREFAZIONE

    La piccola Muriel e l’incendio nella testa dei nostri bambini.

    Lettera aperta all’autrice, ai lettori e invito alla lettura del giornalista e scrittore Salvatore Giannella*

    Cara Cristina,

    il romanzo Mamma voglio morire che mi mandi da leggere in anteprima mi conferma le tue doti di efficace cronista e scrittrice capace di colpire cuore e mente del lettore: doti sperimentate in passato, quando raccoglievo per i lettori di Oggi le tue cronache da quella terra d’Olanda dove hai scelto di vivere, e oggi nel seguire il tuo originale blog Il Cofanetto magico. 

    Ma non mi soffermerò qui sulla trama della storia, vera ma romanzata, ricostruita con piacevolissima lettura, alla stregua di un episodio ricco di colpi di scena del commissario Montalbano.

    Quella la si può condensare in poche righe, trascurando di indicare il finale a sorpresa: "Muriel è una bambina che a soli tre anni comincia a manifestare il desiderio di morire, stanca di una vita che non ha neppure iniziato a sperimentare. Trascorsi alcuni anni la madre disperata si rivolge a uno psichiatra, in quanto non è più in grado di reggere la situazione.

    A maggior ragione dopo un drammatico evento che sconvolge ulteriormente la loro vita: la scomparsa del marito, ucciso durante quello che agli investigatori era parso un fallito tentativo di rapina a mano armata. Sarà proprio la bambina, con il sostegno dello psichiatra e di un commissario di polizia, a condurre gli inquirenti sulla strada giusta per scoprire l’omicida del padre, sua amante e il movente del suo gesto efferato." 

    Nella mia mente le angosce e gli incubi notturni della bambina hanno fatto affiorare una drammatica realtà dei nostri tempi confusi: le immagini di guerre, massacri di esseri umani, di terrorismi e di malvagità varie che si vedono con inquietante frequenza in televisione e sui giornali. 

    La scena del bambino siriano da te citata come vista in tv l’ho riportata sul mio blog Giannella Channel come copertina di Time, simbolo del dolore universale, non solo dei bambini, ma con l’appello del magistrato Adriano Sansa, fino a ieri presidente del tribunale dei minori di Genova: "Ci chiediamo oggi se, davanti alla strage dei bambini in Siria, alla carneficina di donne, anziani e malati con gli ospedali deliberatamente bombardati – peggio che nel furore della Guerra Mondiale – non si possa tentare di mobilitare via e-mail e telefono i cittadini europei, per esempio con dieci minuti di silenzio in un giorno determinato e rapidamente scelto in Rete. Potremmo cominciare noi, chiedendo a tutti di raggiungere in una catena ogni amico, conoscente e corrispondente. 

    Non si può assistere inerti alla strage continua, alle stragi infinite. Se lo facessimo già stasera, poi i giornali e le tv ne parlerebbero e potremmo raggiungere migliaia se non milioni di persone. Rompere il silenzio. Chiedere è un sogno? Proviamo. Ogni primo venerdi di marzo, dalle 11,00 alle 11,10, dovunque, nei luoghi di lavoro, nelle case, nelle scuole, in Europa, ci fermeremo per fermare la strage in Siria o, in subordine, in attesa che la follia della guerra finisca, che almeno vengano create zone franche dove donne, bambini, malati e anziani in fuga dalle zone di guerra siano accolti, nutriti, curati e protetti dai caschi blu dell’ONU senza distinzione di nazionalità e credo politico e religioso. Altrimenti siamo perduti anche noi."

    Un’altra immagine di un bambino di tre anni ha scioccato il mondo: quella di un agente di polizia turca che raccoglie il corpo senza vita di Aylan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum (Turchia). «L’unica cosa che potevo fare era far sentire l’urlo del suo corpo che giaceva a terra», ha detto Silufer Demir, la fotografa dell’agenzia turca Dogan che ha scattato una foto difficile da dimenticare.

    A corredo di quella immagine proveniente dal mar Egeo avevo raccolto le parole di un poetico commissario di polizia italiano, Ennio Di Francesco: Chi ti ha ucciso piccolo bimbo dalla camicia rossa e le scarpine allacciate per correre verso un sogno di pace? Quale nenia sussurravano le onde e il vento per cancellare lo spavento e poi il buio dei tuoi occhi che cercavano la mamma e il fratellino che annegavano con te? Chi vi ha ucciso veramente? Non il mare, pietosa tomba di tanti che scappano da guerre e povertà. Lo hanno fatto gli uomini che hanno elevato il potere, l’avidità e l’ipocrisia a divinità di vita e di morte, i politici e governanti che hanno alimentato guerre e conflitti spesso ammantandoli di democrazia esportata, i falsi maghi della finanza e del profitto dai magici algoritmi, i famelici faccendieri e venditori di armi, gli sfruttatori di terre ricche di minerali e petrolio, i trafficanti materiali e morali di altri esseri umani, gli organismi internazionali burocratici e inetti…  Allora, chi ha ucciso il bimbo dalle scarpine allacciate che non correrà più? Ciascuno si interroghi dentro. Parafrasando una vecchia canzone: ‘Anche se non c’eravamo, siamo tutti coinvolti’. Riflettiamo prima che sia troppo tardi. E tu perdona, bimbo dolcissimo, ma quella tristissima foto penetri come bisturi le coscienze.

    Immagini violente e distruttive, icone di ingiuste morti si rovesciano nelle menti dei bambini sin dalla più tenera età: Susanna Tamaro ha citato di recente il dato agghiacciante di un’emergenza mondiale: A dieci anni un bambino ha già assistito a ottomila omicidi, una bomba atomica per un cervello del piccolo, è molto probabile che la fisiologia del suo sistema nervoso abbia incorporato l’idea che quella sia una via normale per risolvere i problemi.

    Una sequenza di omicidi e suicidi: ogni anno 800.000 persone si tolgono la vita, una ogni minuto, e circa 20 milioni tentano il suicidio (il 10 settembre 2019, in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, più di cento paesi hanno organizzato eventi culturali, conferenze e marce dedicate a questo problema e alla ricerca delle soluzioni). La ricerca spasmodica delle 3 S in cronaca (Sangue, Sesso e Soldi), storie spesso trasmesse in fascia protetta, alimentano ferite fisiche e mentali, un malessere di vivere nei più piccoli e persino negli adulti, come ha stroncato la pur forte scrittrice Alessandra Appiano (alla quale il libro è dedicato), sempre più affetti da quella brutta malattia che si chiama defuturizzazione, di un futuro che viene a mancare, di un domani che per la prima volta si fa oscuro e non amico.

    Bisogna reagire a questa ondata di ignavia e fatalismo educativo che semina stanchezza esistenziale, essere severi contro l’emissione di scene violente e ritrovare il senso dell’umanità perduta, quella che costituisce la cattedrale che ha sostenuto per millenni la nostra civiltà. 

    E da questa angolatura ho apprezzato il lieto fine del tuo interessante romanzo, laddove la giovane Muriel inizia e affronta, con molto coraggio, una terapia di sostegno capace di liberarla da tutti i fantasmi che da piccola si erano attaccati al suo cervello come parassiti, senza darle tregua. Sostituendo i ricordi negativi con quelli positivi. 

    Cominciamo noi, seminatori di parole e di storie, come quella di Muriel, capaci di farci riflettere. 

    I

    Tutto cominciò quando Muriel aveva solo tre anni: era seduta davanti alla finestra che dava sul giardino sottostante, in una ventosa serata impregnata di pioggia. Era così carina, ben sistemata sulla sedia troppo alta per lei, con le gambe che a malapena toccavano il pavimento! Sembrava tranquilla. Osservava attentamente una scintillante goccia di condensa che guizzava sul vetro in caduta, pronta a dissolversi nel nulla. Sua madre le posò le mani sulle spalle. Solo allora si accorse della sua presenza. Si girò lentamente, la fissò negli occhi e disse: «Mamma, voglio morire.» 

    Nessun punto esclamativo, nessuna inflessione particolare nella voce. Fu colta da una sensazione di gelo paralizzante. Per un secondo rimase immobile, in silenzio. Poi la sollevò dalla sedia e la prese in braccio stringendola a sé, senza commentare quanto aveva appena sentito. Non devo dare troppo peso alle sue parole, pensò. Avrà sentito qualche strano discorso all’asilo. Ma purtroppo la realtà era diversa. Muriel cominciò a pronunciare frasi simili sempre più spesso, nel corso degli anni. Non solo: un giorno prese un coltello e se lo puntò alla gola. Senza contare il fatto che in seguito aveva iniziato a esprimersi in modo insolito, capovolgendo le parole, scambiandone le lettere. Componendole e poi scomponendole. 

    Ripensando agli ultimi mesi, alla tragedia che aveva colpito la loro famiglia, era comprensibile, povera creatura! Con tutto il dolore che aveva dovuto sopportare, così piccola e indifesa! Lei stessa era spossata, alla fine delle sue energie. Il medico di famiglia le aveva consigliato, visto il caso inusitato e delicato, di rivolgersi a uno psichiatra, il professor Massimo Ozzi, indicandoglielo come il migliore nel campo. Il suo nome le era noto: infatti era consulente, anche in veste di criminologo, di una trasmissione televisiva serale, in cui venivano trattati casi di cronaca nera che lei seguiva regolarmente. Il termine psichiatra l’angosciava, ma era sfinita. Aveva bisogno di un sostegno professionale. Soprattutto per combattere e annientare quell’inquietante pensiero di morte che da anni ossessionava sua figlia.

    In quel momento era seduta per terra; giocava con la sua bambola prediletta. 

    «Muriel, devo uscire, ma tornerò presto.»

    «Posso venire con te? Te- posso- con- nireve-?» le chiese alzando lo sguardo verso di lei. 

    «Santo cielo! Ci risiamo! Dove hai imparato questa maniera di parlare? Smettila, una volta tanto! Ogni tanto! Comunque oggi vado da sola. Dopo vai a fare la spesa con tata, va bene?» le domandò infilandosi la giacca e dirigendosi verso la porta, senza attendere una risposta.

    Avrebbe voluto darle un bacio ma era irritata. Le raddrizzò una delle due treccine che sporgeva un po’storta dalla nuca, poi uscì. Muriel non la salutò, offesa per il suo rifiuto; subito strattonò la bambola e cominciò a sgridarla, dicendole, con voce cantilenante:  

    «Smettila, una- tanto- volta.» 

    Lo studio del professore era bello, arredato con gusto. Lui era un uomo di mezza età, con gli occhi celesti, i capelli corti grigi e la barba ben curata, come tutta la sua persona. Sedeva dietro a una scrivania antica, due poltrone di pelle davanti a sé.

    Una biblioteca di legno massiccio circondava la stanza, avvolgendola di quell’odore un po’ stantìo che a lei piaceva assai, tipico dei libri comprati ai mercatini dell’usato.

    «In che modo posso aiutarla, signora?» le chiese con voce pacata e rassicurante.

    Come poteva rispondergli che la sua bambina aveva iniziato a vivere con un senso di morte addosso? Che cosa avrebbe pensato di lei? Che razza di madre era? 

    Poi trovò il coraggio di dire, tutto d’un fiato: 

    «Ecco, vede, professore, mia figlia dice che vuole morire.» 

    «Quanti anni ha sua figlia?»

    «Otto: ma ha cominciato con questa fissazione cinque anni fa. In principio credevo si trattasse di una cosa passeggera», aggiunse sentendosi in colpa per aver atteso così a lungo ad affrontare quel problema. 

    «C’è dell’altro. Ultimamente Muriel parla in modo bizzarro, mette le parole in fila, le usa all’incontrario. Non sempre, per carità, ma io non so più come comportarmi con lei. Mi creda, cerco di darle tutto l’affetto che posso; eppure talvolta la sento lontana, sfuggente, estranea. Mi fa quasi paura. Allora sto male, mi vergogno per questi pensieri. Come si può temere la propria figlia?» Nel dire questo abbassò gli occhi sulle mani inerti posate in grembo, le spalle incurvate in un atteggiamento di palese sofferenza.

    «Non deve giustificarsi. Posso capirla. A volte i bambini, anche molto piccoli, raccontano storie e hanno comportamenti che ci preoccupano. Spesso confondono sogno e realtà, fantasia e realtà; inoltre assorbono come spugne i discorsi degli adulti, soprattutto i più negativi. Che lei sappia, nella sua vita è avvenuto qualche episodio particolare che possa averla portata a esprimersi in questo modo? Un trauma, un lutto, una violenza subita?»

    «Circa mezzo anno fa è morto suo padre, improvvisamente, in circostanze drammatiche». 

    II

    «Mezzo anno fa? Lei mi ha appena detto che la bambina già da tempo aveva cominciato a parlare di morte. Quindi la scomparsa del padre non è stata la causa scatenante. Può aver peggiorato il sentimento ma non averlo generato.» 

    «No, in passato non è accaduto alcun avvenimento traumatico. Eravamo una famiglia unita, serena, con alti e bassi, come per tutti.» 

    «Come è deceduto suo marito?» 

    «È stata una rapina a mano armata. Umberto, mio marito, stava tornando a casa, di sera; aveva appena parcheggiato la sua auto quando un uomo gli si è avvicinato e gli ha ingiunto di dargli il portafoglio. Secondo una ricostruzione della polizia lui avrebbe messo subito la mano in tasca per levarlo e consegnarglielo. Ma il ladro, probabilmente drogato, pensando che volesse tirare fuori un’arma, gli ha sparato. Dritto al cuore. L’ha trovato poco dopo riverso sul selciato un signore che abita al piano sopra di noi, che stava portando il cane a passeggio. Abitiamo in un piccolo condominio molto tranquillo, al secondo piano, circondato da un giardino il cui accesso è vietato ai non residenti. È morto subito. A pochi passi il suo portafoglio.

    Io stavo preparando la cena con la televisione accesa. Mi aveva avvertita che sarebbe rientrato un po’ tardi, quella sera. Credo che Muriel stesse giocando nella sua stanza con la sua bambola preferita. La nostra tata aveva un giorno libero. Per questo cucinavo io. Quando due poliziotti suonarono alla porta e mi diedero la notizia gridai. Dio mio, quanto gridai! Muriel mi corse accanto, con la bambola in braccio. Non piangeva. Tremava. Non pianse mai. Neanche al funerale. Lo stavamo aspettando, sì, io cucinavo: cucinavo- io, ero -felice- io, io- ero. Poi, improvvisamente, sì, così... improvvisamente!»

    «Mi spiace, signora! Lei ha usato il condizionale, questo significa che la dinamica dei fatti non è certa: ci sono stati testimoni, visto che ha parlato di un uomo? L’omicida è stato arrestato?»

    «No, è fuggito subito. Non ci sono testimoni; e non hanno trovato tracce del suo DNA sul portafoglio perché non l’ha neanche preso! È stata la polizia ad avanzare l’ipotesi che l’assassino potrebbe essere un uomo.»

    «Scusi le domande, ma per me è importante conoscere quale situazione lei e sua figlia state vivendo adesso. Non solo il passato. Siete state colpite da una tragedia che sicuramente avrà ulteriormente minato la sua fragilità emotiva. La prossima volta vorrei conoscere Muriel. Può accompagnarla nel mio studio e venirla a riprendere dopo mezz’ora? La mia segretaria le fisserà un appuntamento dopo la scuola della bambina.» 

    Al ritorno a casa trovò Muriel in salotto; non faceva niente. Assolutamente nulla. Era seduta sul tappeto, con lo sguardo fisso davanti a sé. Corse ad abbracciarla. Lei si lasciò coccolare, inerme come una bambola di pezza. Era uno dei suoi momenti no, lo capiva subito. Chiamò la tata e le chiese come avessero trascorso il pomeriggio. Per fortuna c’era lei, ad aiutarla! 

    Aveva cominciato a lavorare da loro quando era incinta di sei mesi. 

    La sua gravidanza era stata difficile e il suo sposo, che non aveva problemi economici, aveva deciso di assumere per mezza giornata una persona che

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