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Il diavolo dentro
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E-book266 pagine3 ore

Il diavolo dentro

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Abbiamo studiato, studiamo, la Divina Commedia a scuola. E questo è giusto. Ma è anche causa di cattivi rapporti con la poesia. La Divina Commedia è difficile, maledettamente difficile. Si dice: per possederla in profondità occorre studio, per apprezzarla in tutta la sua grandezza bisogna averla nella mente in tutta la sua estensione. Vero, ma quanti  possono farlo? Allora, in tempi frettolosi come i nostri, dobbiamo rinunciare? No, non credo, anzi sono sicuro che non è così. Ero e sono convinto che la Commedia possa parlare a tutti. Allora niente paroloni e niente citazioni, ma racconto. Il divino tremore deve arrivare dopo. Voglio che si senta la vicinanza, la tenerezza, l’umanità di Dante per la vita. Le sue paure, le sue nostalgie, le tristezze, le notti e le stelle, le luci dell’alba, i fiori, il sangue, il sesso, il diavolo dentro, il freddo, la luce e la musica... Racconto e controllo dell’emozione. Perché anche comunicare la passione  ha le sue retoriche, senza le quali si disperde inutilmente o si rapprende invece di attrarre. Partire dal personaggio, partire dall’episodio. Raccontare il primo canto usando parole come: depressione, rifiuto, esclusione, paura, perdere la bussola della vita. Raccontare l’incontro con Beatrice nel Paradiso Terrestre come l’incontro tra un giovane che ha lasciato la sua prima ragazza e ora, rivedendola, si pente, capisce di aver sbagliato, le chiede scusa. Perché quella è la sua vita. Raccontare come Virgilio prende a cavalluccio Dante per passare il centro del  mondo, e come lo fa aggrappandosi ai peli di Satana. La Commedia è piena di episodi avvincenti, che permettono un avvicinamento graduale alle sue grandezze e alle sue difficoltà. Per poi passare alla dizione/ascolto. Inutile spiegare parola per parola. Il racconto lo si è sentito. Ora si ascolta la grande musica verbale. Molte parole sfuggono ma il flusso vibrante agisce dando corpo al racconto ascoltato.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2020
ISBN9788835830818
Il diavolo dentro

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    Il diavolo dentro - Nazzareno Luigi Todarello

    diavolo.

    Leggere Dante oggi

    Se letta assiduamente, e capita, cioè assorbita nel suo valore esistenziale, La Divina Commedia può essere il libro della vita. Una guida anche per i nostri giorni. Giorni ricchi di possibilità e di libertà, per noi che viviamo nell’Occidente felice, ma impoverita di verità. Dante può insegnarci a distinguere ciò che conta da ciò che conta meno e da ciò che non conta per niente. Dante non crede che occorra rinunciare alla vita. È anzi pienamente convinto che il compito dell’uomo sia sviluppare al massimo grado le potenzialità che Dio gli ha donate. È in hac vita che l’uomo si realizza e, così facendo, realizza il piano di Dio per lui. Per ogni uomo. Dante pensava alla grande, in generale. E questo pensiero generale gli faceva amare a capire ogni dettaglio del mondo e dell’esistenza. Quali sono i suoi insegnamenti? Nessuno oggi può condividere la dottrina contenuta nella Commedia. Si tratta di una visione integralista che, se adottata in tutto e per tutto, non potrebbe che portare alla intolleranza e alla violenza. No, non è il Dante teologo che ci può ancora dire qualcosa. Né possiamo condividere la sua passione per le gerarchie, noi che abbiamo scoperto la democrazia. Il Dante che possiamo sentire come maestro di vita è quello che osserva il mondo. Quello che cerca di capire il significato profondo delle cose. Quello che non nasconde con le parole la realtà di cui parla, ma che, con le parole, la scopre. Toglie il velo che di solito la nasconde agli occhi degli uomini. Dante fotografa i dettagli del mondo e radiografa le menti umane. La sua visione del mondo è virile, virile nel comportamento. Invita alla maturità del giudizio e alla nobiltà del comportamento. Il suo desiderio più grande è la pace universale. Perché solo nella pace l’uomo è nella condizione di sviluppare liberamente il suo potenziale affettivo e intellettuale. Non è un banale vogliamoci bene. È un maturo, adulto invito alla ragione. L’anima razionale è la caratteristica dell’uomo. Egli condivide con le piante l’anima vegetativa. Con gli animali l’anima sensitiva. In questo è parte integrante del mondo naturale, della vita in generale. Ma l’uomo ha l’anima razionale. L’uomo pensa e giudica e decide come comportarsi. E questa anima razionale la condivide con gli angeli.

    La ricchezza rischia di accecarci del tutto. Di farci appiattire sulle soddisfazioni elementari, materiali. Senza rinunciare a niente, Dante ci invita a tenere alta la prospettiva, a non dare valore assoluto a ciò che è destinato a finire, a non essere eccessivamente attaccati ai beni che ci appartengono. Perché ci appartengono per un po’. Li abbiamo in prestito non in proprietà definitiva. Quello che abbiamo in proprietà definitiva è l’essenza del nostro essere. Non crediamo all’aldilà? Non importa. La nostra eternità breve è il tempo spirituale che abbiamo dentro. E che troppo spesso tace nel buio. Dante può aiutare ad accendere quella luce, quella fiamma soave, che non si impone per sua forza, che ha bisogno di essere alimentata. La Divina Commedia può alimentare quella fiamma.

    Ma è soprattutto agli artisti che Dante può indicare la via. A ogni genere di artista, non soltanto ai poeti, dei quali è il maestro riconosciuto nel mondo. Mettere se stesso al centro del mondo, non per esporsi come narciso, ma per essere sguardo libero. L’artista crea, l’Arte è nipote di Dio, perché è figlia del Mondo che è figlio di Dio. Il primo canto della Commedia ci dice molto a questo proposito. Dante è perso nella foresta della vita. Ha perso se stesso. Non sa che farsene di sé. C’è grande verità in questo inizio di racconto. Poi gioisce perché vede una via d’uscita, una luce, e inizia a salire verso la vetta del colle. Ma non è pronto, non esistono scorciatoie, per nessuno, e tanto meno per un artista. Bisogna sprofondare in se stesso, per conoscersi senza menzogne. Altrimenti il nostro io oscuro crea mostri per fermarci. E ce li spaccia per realtà. A te convien tenere altro viaggio dice Virgilio allo smarrito. Convien vuol dire devi. Devi fare un’altra strada, caro uomo, non ti illudere di farla franca a poco prezzo. Vuoi conoscere? Devi scendere là dove non vorresti andare. Come dirà Kafka: Solo dal più profondo dell’inferno si possono sentire i cori angelici.

    Il fren de l’arte. Dante ha un senso mirabile della forma. La forma dà senso al contenuto. Elaborando la forma crei il contenuto. Lo sappiamo, ce lo ha insegnato chiaramente la moderna semiotica. Così ha scritto il grande linguista danese Luis Hjelmslev: La funzione segnica è di per sé una solidarietà. Espressione e contenuto sono solidali - si presuppongono reciprocamente in maniera necessaria. Un’espressione è espressione solo grazie al fatto che è espressione di un contenuto, e un contenuto è un contenuto solo grazie al fatto che è il contenuto di una espressione. Non ci può dunque essere, tranne che per una artificiale separazione, un contenuto senza un’espressione, né un’espressione senza un contenuto. Vero. E Dante ce lo fa vedere in pratica, realizzata, questa fusione totale tra contenuto e forma. Alexandre Blok, il poeta russo dei primi decenni del Novecento autore dei Dodici e dei Drammi lirici, in una pagina del suo diario ha scritto: Sono diventato troppo bravo a scrivere versi: devo inventare nuove difficoltà. Vero. E Dante ci fa vedere come si possa lottare con una struttura metrica terribile per piegarla, per trasformarla in una meraviglia di leggerezza. Sartre, il filosofo esistenzialista francese, autore di L’essere e il nulla, ha scritto che non esiste la potenzialità precedente all’opera, non c’è un Proust prima della Recherche. Vero. Dante è diventato Dante in vent’anni di lavoro. Lo sentiamo, lo vediamo. Dante è l’esempio più clamoroso di immedesimazione con l’opera, di realizzazione di sé nella concretezza. Più di Bach e più di Shakespeare. Perché loro sono tante opere. E bisogna mentalmente collegarle per riconoscere la loro opera. Dante è un’opera sola. Ha puntato tutto su quella, lo scriba Dei, dedicandole tutto Sì che m’ha fatto per molt’anni macro. Ha vinto, alla fine il magro poeta fiorentino, dando eterna nobiltà al parlare del popolo italiano.

    Allora tutto qui? Scavare in se stesso e curare una forma? Questo è l’insegnamento di Dante? Sarebbe un insegnamento scontato. Quale artista non sa queste cose? Sì ma Dante non ci elargisce precetti, Dante fa nel migliore dei modi possibile. Ogni artista può riconoscere in lui una guida, nel senso che può andare a vedere come ha fatto lui. Lui non si è tirato indietro di fronte a niente. Ha scorticato la realtà per vedere cosa c’è sotto, dentro. Niente gli è sfuggito, del suo mondo. E ha elaborato il suo modo espressivo con cura infinita, insonne, per decenni, migliorando sempre, arrivando, passo dopo passo, al canto, alla perfezione musicale del Paradiso.

    Dante è il maestro di chi scrive. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare logico. Si potrebbe infatti pensare: Dante è tutto dentro una sua compatta ideologia. È così, infatti. Usa, di conseguenza, il suo linguaggio per dimostrare qualcosa. Anche questo è vero. Quindi la sua lingua deve essere opaca nei confronti del reale, offuscata dalla volontà di astrazione, gravata dalle categorie, disattenta ai dettagli. E invece non è così. L’ideologia in Dante lavora al contrario. È vero che in molta scrittura precedente, parliamo di tutta Europa, la teologia ha reso ottuso lo sguardo. Ma Dante è un poeta grande proprio perché la volontà di esporre una verità incontrovertibile lo spinge a cercarla, questa verità, in ogni aspetto del reale che descrive. Con fiducia nella sua presenza. Quindi senza nessun inganno linguistico. L’intento di Dante è pedagogico. Anche la pedagogia può opacizzare sguardo e scrittura, se in pratica diventa io so e ti dico. Dante invece dice io guardo e tu guarda con me. La verità è sparsa nel mondo. Occorre guardare. E basta solo questo per capire. Noi, nel secondo decennio del terzo millennio, siamo, questo sì, immersi in un linguaggio opaco. Probabilmente il più opaco di sempre. Usiamo le parole, quasi tutti, in uno spazio scenico che troppo spesso non ha reali legami con ciò che è. Se consideriamo il fatto che noi non pensiamo se non attraverso le parole, il problema non è di piccola portata. Non è un’epoca in cui si vive particolarmente male, la nostra. Ma certamente è un’epoca nella quale il linguaggio sta mettendo in opera tutte le sue peggiori attitudini. Che possono essere riassunte in questa: creare un velo di menzogna, un mondo irreale parallelo capace di persuaderci che quello è il vero mondo. Le modalità sono praticamente infinite. I moventi anche, dalla semplice insipienza, alla voglia di vedere miti e non fatti, alla frode consapevole, ecc.

    Voglio fare un piccolo esempio tratto da un contesto del tutto innocuo. Un giornalista in Africa, davanti alle dune del Sahara, dice, ripreso dalla tv: Ecco qui è evidente: la desertificazione avanza. Perché, mi sono chiesto, ha usato la parola desertificazione? C’è un verbo, un’azione: avanza. Il soggetto di quella azione è un astratto, una categoria: desertificazione. Perché ha usato quella parola, il giornalista? La voglia di dare valore generale alla propria affermazione? Una attitudine alla astrazione? Per atteggiarsi a professore, darsi un tono? Non so. Forse, ed è l’ipotesi peggiore, per abitudine. Il risultato è un indebolimento dell’immagine e quindi del concetto. Una diminuzione della sua forza espressiva e quindi della sua capacità di incidere nell’intelligenza di chi ascolta. Desertificazione in realtà è un velo che offusca la realtà. La realtà è il deserto. La sua generalizzazione in concetto gli toglie concretezza e forza. Dante non amplia il senso rinunciando al dettaglio. È il dettaglio che contiene in sé il concetto generale. Chi ascolta o chi legge estrae il senso nella sua mente. Se la scrittura fa tutto lei, la mente del lettore non agisce. La realtà è il deserto avanza. La desertificazione è contenuta nel deserto che avanza. È l’astratto contenuto nel concreto, che germina da esso. La desertificazione si realizza, o no, nella mente del lettore.

    Il sostantivo più usato da Dante nella Commedia è occhi. Prima ci sono solo parole funzionali, senza significato proprio: e, che, la, di, non, per, ecc. Il primo sostantivo è concreto ed è occhi, che occorre 212 volte. Poi ci sono mondo (143 volte), terra (137), Dio (127), gente (125). Dio e gente sono vicine, non c’è un’occorrenza 126. Il primo sostantivo astratto è più giù nella classifica: è amor (90 volte) poi c’è tempo (83), poi bene (62) e di nuovo amore (con la e finale) insieme con grazia (a pari merito, 59 volte). E si tratta comunque di sostantivi astratti grammaticalmente parlando, ma non di astrazioni. Sono per Dante essenze reali che riempiono e avvolgono i dettagli. Dante è l’esempio massimo di felicità nell’uso delle parole. Felicità che è precisione. La parola tocca l’oggetto e ne fa scaturire l’acqua del significato. L’acqua con la quale Dante ancora ci disseta.

    C’è poi, ma questo forse è davvero un fatto solo mio, la nostalgia. La nostalgia per un universo con me/noi al centro. La nostalgia per la mente che è specchio vero dell’universo. Così che si possa credere pienamente che la ragione non c’inganni. La nostalgia per la totale fiducia nella conoscenza. Per un modo di pensare che credeva veramente che la verità fosse a portata di mano. Oggi non possiamo più pensare così. Siamo tutti, chi più chi meno, esseri relativi. Eppure siamo ancora tutti, chi più chi meno, esseri di desiderio. Desiderio di verità. Che può tacere, starsene muto per anni. Ma prima o poi si tira su e ricomincia a parlare, a far domande. Da questo punto di vista viviamo in un’epoca infelice. Perché le risposte non le abbiamo. Leggo la Divina commedia e cuore e polmoni cambiano modo di fare. Lì sono in vacanza. Per un po’ respiro libero. Mi sembra che le cose che provo siano più importanti, di maggior rilievo nel fluire del tempo. Se Dante ha scritto questi versi, li ha scritti perché anch’io li leggessi. Sento che tutto è proiettato nella dimensione dell’eternità. Nostalgia d’eternità. È questo che mi porta alla Divina commedia.

    Esercizio preparatorio o piccola antologia

    Ripetete i versi fino a memorizzarli. Ogni tanto torneranno alla memoria da soli. Quando succederà, ripeteteli lentamente più volte. Se volete.

    A te convien tenere altro viaggio.

    Inferno, I, 91.

    Li occhi lucenti lagrimando volse.

    Inferno, II, 116.

    Rùppemi l’alto sonno nella testa.

    Inferno, IV, 1.

    Noi che tignemmo il mondo di sanguigno.

    Inferno, V, 90.

    Amor condusse noi ad una morte.

    Inferno, V, 106.

    Quando leggemmo il disiato riso

    esser baciato da cotanto amante.

    Inferno, V, 133-134.

    La bocca mi baciò tutto tremante.

    Inferno, V, 136.

    Tragge Marte vapor di val di Magra.

    Inferno XXIV, 145.

    Tu ne vestisti

    queste misere carni, e tu le spoglia.

    Inferno, XXXIII, 62.63.

    Quindi Cocito tutto s’aggelava.

    Inferno, XXXIV, 52.

    Ma la notte risurge e oramai

    è da partir, ché tutto avem veduto.

    Inferno, XXXIV, 68-69.

    Noi andavan per lo solingo piano

    com’om che torna a la perduta strada.

    Purgatorio, I, 118-119.

    Ambo le mani in su l’erbetta sparse

    Soavemente ‘l mio maestro pose.

    Purgatorio, I, 124-125.

    Già s’imbiancava al balco d’Oriente.

    Purgatorio, II, 2.

    Lo dì c’han detto ai dolci amici addio.

    Purgatorio, VIII, 3.

    Poi s’ascose nel foco che li affina.

    Purgatorio, XXVI, 148.

    Manibus oh date, lilia plenis.

    Purgatorio, XXX, 21.

    Et iterum, sorelle mie dilette,

    modicum, et vos videbitis me.

    Purgatorio, XXXIII, 10-12.

    Mostrando li occhi giovanetti a lui.

    Purgatorio, XXX, 122.

    Onde si muovono a diversi porti

    per lo gran mar dell’essere.

    Paradiso, I, 112-113.

    Dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

    Paradiso, II, 14.

    Quali per vetri trasparenti e tersi,

    o ver per acque nitide e tranquille,

    Paradiso, III, 10-12.

    I’ fui nel mondo vergine sorella.

    Paradiso, III, 46.

    Che del secondo vento di Soave

    generò ‘l terzo e l’ultima possanza.

    Paradiso, III, 119-120.

    S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore.

    Paradiso, V, 1.

    Osanna, sanctus Deus sabaòth,

    superillustrans claritate tua

    felices ignes horum malacòth!

    Paradiso, VII, 1-3.

    Guardando nel suo figlio con l’amore

    che l’uno e l’altro etternalmente spira.

    Paradiso, X, 1-2.

    Donne mi parver, non da ballo sciolte,

    ma che s’arrestin tacite, ascoltando.

    Paradiso, X, 79-80.

    Tin tin sonando con sì dolce nota.

    Paradiso, X, 143.

    Render voce a voce in tempra

    e in dolcezza ch’esser non pò nota

    se non colà dove gioir s’insempra.

    Paradiso, X, 146-148-

    Chi nel diletto de la carne involto

    s’affaticava.

    Paradiso, XI, 8-9.

    Ch’io vidi le due luci benedette,

    pur come batter d’occhi si concorda,

    con le parole mover le fiammette.

    Paradiso, XX, 146-148.

    Quale ne’ plenilunii sereni

    Trivia ride tra le ninfe etterne

    che dipingon lo ciel per tutti i seni.

    Paradiso, XXIII, 25-27.

    Fatto ha del cimitero mio cloaca

    del sangue e della puzza.

    Paradiso, XXVII, 25.

    Sparser lo sangue dopo molto fleto.

    Paradiso, XXVII, 45.

    Gli occhi da Dio diletti e venerati.

    Paradiso, XXXIII, 40.

    Così al vento ne le foglie levi

    si perdea la sentenza di Sibilla.

    Paradiso, XXXIII, 65-66.

    Dante poeta strano

    Dante è il più grande dei poeti. Lo si sente dire spesso. Lo hanno detto soprattutto, e la cosa impressiona, i suoi colleghi, gli altri poeti. Italiani e stranieri. Eliot, Brodskij, Walcott, Montale... per restare al Novecento. La cosa è quasi data per scontata. Chi si permetterebbe di affermare il contrario? Dante è ormai un mito. Un mito antico, del quale si sa sempre meno, in realtà. Se però ci si chiede in che cosa consiste la sua grandezza, tutto si complica. Sono stati versati, letteralmente, fiumi di inchiostro su Dante e la sua opera maggiore, La divina commedia. Io ho letto molto su Dante. Soprattutto ho letto molto Dante. Da decenni, come lettore, come insegnante di dizione, come attore. Ho passato molte ore, giorni, anni a cercare il ritmo e le intonazioni per dire quei versi. E sempre, soprattutto in alcuni passaggi del poema, ne sono rimasto come incantato. Col tempo la mia voglia di capire è diventata pressante. Che cosa mai fa la differenza tra Dante e gli altri poeti? Io ne amo tanti: Leopardi, Montale, D’Annunzio, Brodskij, ecc. E, più vicini, Luzi, Zanzotto, Raboni. Ma tutti insieme non fanno Dante. C’è qualcosa di strano in questo. Cambio campo, cercando di capire. Penso a Bach, il sommo tra i sommi come ha scritto Alberto Basso. Forse è davvero così. Bach è il più grande. Ma lì vicino c’è Mozart. E non mi sento davvero di dire che, tutti insieme, Mozart, Haendel, Beethoven e Monteverdi non fanno Bach. Il caso è singolare. Risposte me ne sono date tante, negli anni: grandiosità dell’impianto, acutezza dello sguardo, maestria metrica, fantasia concretissima... ma perché mi incantano, ora, soprattutto sequenze di passaggio, che sembrano senza pretese, puramente referenziali? Due esempi:

    Ma la notte risurge, e oramai

    è da partir, ché tutto avem veduto.

    Inferno XXXIV, 68-69

    Sono le parole che Virgilio dice a Dante dopo avergli spiegato perché Satana è così, piantato al centro della Terra, con, nelle sue tre bocche, Giuda, Cassio e Bruto, i traditori. Certo, una buona parte della suggestione deriva dal sapere a che punto siamo del viaggio. E quel tutto che riassume in una sola parola tutte le cose terribili viste nell’Inferno è il tutto più potente che io conosca. Insieme a veduto. Il viaggio di Dante è appunto per vedere, come gli ha anticipato lo stesso Virgilio nel primo canto, quando è emerso dal nulla per soccorrerlo: Ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida; / e vederai color che son contenti / nel foco. Quindi che tutto avem veduto con il suo senso posizionale influisce molto. Ma non basta. Non è tutto qui. Queste sono considerazioni che presuppongono un ragionamento, delle conoscenze, il ricordo di quanto ho letto. Ma mi sembra che la suggestione sia ancora più profonda, più intima e più fisica. Perché mi piace tanto dire queste parole? Perché le ripeto e le ripeto come se volessi scoprire qualcosa che ancora non ho capito?

    El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:

    volgianci in dietro, ché di qua dichina

    questa pianura a’ suoi termini bassi».

    Purgatorio, I, 112-114

    Qui siamo nel primo canto del Purgatorio. Sulla spiaggia, la mattina di Pasqua 1300, avvengono riti delicati di purificazione. Virgilio alla fine del canto lava il viso di Dante con la rugiada e gli cinge la vita con un giunco colto sulla riva del mare. Giunco simbolo di umiltà. Canto di sublime semplicità e sorprendentemente diverso dall’Inferno appena finito. Il clima riempie di sé le parole. Ma sono le parole stesse che creano il clima! Non c’è una nota fuori posto. Ecco: nelle parole di passaggio, quando non sono del tutto preso dalla potenza del racconto, la musica viene in primo piano. Questo è il prodigio dell’opera di Dante: una musica di parole che si fa clima. Ripetiamo: Figliuol, segui i miei passi, ecc. Sanno inconfondibilmente di

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