Gli Argodoro
Di Jim Tatano
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Anteprima del libro
Gli Argodoro - Jim Tatano
Emozioni
Gli epitaffi degli Argodoro
Quando dopo vent’anni tornai nel cimitero di Tadonia, stranamente riaffiorarono molti ricordi d’infanzia. Mi rivedevo bambino portare dei fiori a parenti defunti mai conosciuti, e in un attimo di avventura, tra la morte, osservavo furtivo gli ultimi resti di vita di tanti altri sconosciuti. Lapidi, sepolcri, sculture di tristezza che nascondevano storie di vite dimenticate.
C’era la tomba semplice e modesta di una famiglia a cui facevo immancabile capolino, non perché ci fossero legami tra noi, bensì perché quattro defunti avevano degli epitaffi bizzarri che mi affascinavano e incuriosivano. Era l’ultima dimora degli Argodoro.
Le circostanze mi tennero per molto tempo a Tadonia e il mio pensiero volava spesso a visitare quelle foto in bianco e nero. Riflettevo in libertà sui loro nomi che mi facevano ridere e sulle frasi sepolcrali che infuocavano la mia curiosità partorita da lunghe ore di ozio.
Sull’umile cappelletta funebre, sita in una viuzza seminascosta e secondaria, si leggeva:
Eligio Argodoro Lea Cureti
α 20 aprile1868 α 03 aprile1875
ω 15 gennaio 1939 ω 28 aprile 1955
Egidio Argodoro Luisa Modone
α 17 marzo 1895 α 10 maggio 1896
ω 20 settembre 1967 ω 01 dicembre 1981
Superstite a i fati è amor
Emilio Argodoro Teresa Cipri
α 24 settembre 1896 α 02 ottobre 1898
ω 13 luglio 1971 ω 16 novembre 1982
Mi sono sempre divertito
Evaristo Argodoro Olimpia Viarasi
α 11 ottobre 1897 α 25 giugno 1898
ω 02 febbraio 1976 ω 06 agosto 1978
Ci vediamo presto!
Erasmo Argodoro Noemisia Paganetti
α 05 gennaio 1898 α 01 maggio 1900
ω 19 febbraio 1979 ω 05 maggio 1982
Ho sempre guardato le stelle
Con nomi simili e con simili frasi, poteva mai la mia fantasia non subire uno stimolo? Così intrapresi delle ricerche più per passare il tempo che per reale interesse, fino a quel momento non avrei mai potuto immaginare di conoscere e vivere insieme a delle persone di così differente corrente vitale, ma di aspetti straordinari che non potevo non riportare in vita.
Iniziai dal capofamiglia per capire da quale radice si sviluppò la pianta stravagante che portò i figli a scrivere sulla lapide eccentriche parole.
Eligio Argodoro non era nato a Tadonia – si è sempre originari di un altro posto – proveniva da Villa Grande Sicula, da là però ben presto dovette fuggire, d’altronde uno che era nato in tempi di tumulti popolari in sé avrebbe conservato una certa irrequietezza. Almeno questo mi parve di capire.
Eligio era un pastore come tanti altri quando a quindici anni portava il gregge al pascolo, e fu a quell’età che venne preso di mira da un gruppetto di sopraffattori. Una volta spariva una pecora, una volta qualche agnello, altre volte forme di formaggio, ed Eligio faceva finta di niente, con certa gente, si diceva, bisognava fare così. Le ruberie continuavano, ma in fondo la vita andava avanti con una certa spensieratezza perciò chiudeva sempre un occhio. Una notte però sentendo dei rumori nell’ovile, il belato agitato delle pecore e il latrato convulso del cane, il nostro pastorello si alzò dal pagliericcio e si diresse verso il trambusto.
In cuor suo immaginava di cosa si trattasse e infatti ne ebbe conferma appena entrò. Vide un ragazzotto dalla faccia cattiva con una pecora tra le mani e il cane ringhiante che lo teneva bloccato nel bel mezzo del furto. Allora Eligio che di animo era mite fu rapito da un’inspiegabile ira, in un attimo rivide tutte le ruberie subite, con un fischio richiamò il cane che smise di abbaiare e si avventò sul ladruncolo. Lo schiaffeggiò, lo prese a pugni e calci così decisi che il malcapitato non ebbe modo di reagire. Lo ridusse talmente male che il povero ragazzo raggiunse malconcio e insanguinato la sua casa e i suoi compagni di ruberie lo trovarono più morto che vivo (per riprendere le forze ci vollero otto giorni). Eligio capì immediatamente che la cosa avrebbe avuto delle gravi ripercussioni, ciononostante ormai era troppo tardi per ripensamenti.
In paese tutti vennero a conoscenza della vicenda, come al solito tutti tacevano e capirono due cose: con il pastore sorridente non si scherzava e che i ladri presto gliel’avrebbero fatta pagare.
Passò una decina di giorni tranquilli, tutti i contadini e i pastori del villaggio in cuor loro erano contenti che qualcuno avesse intrapreso un’iniziativa di rivalsa verso i malfattori, purtroppo la paura prevale sempre, e alla fine avvenne il peggio.
Un gruppo di cinque mafiosetti, tra cui il ladro che abbiamo conosciuto, a volto scoperto, armati di coltellacci e rudimentali fucili da caccia, di notte si introdussero nella modesta proprietà di Eligio, gli rubarono tutte le pecore e sparano al cane. Al rimbombo dell’arma il pastore subito andò a vedere cosa stesse succedendo, non ebbe il tempo di uscire dalla porta di casa che fu afferrato e legato. I vigliacchi lo malmenarono, gli sputarono addosso, lo insultarono e lo minacciarono dicendogli che là comandavano loro, lui non era nessuno, non poteva far altro che stare muto e subire come aveva sempre fatto e come era suo dovere.
Eligio che non aveva mai letto un libro in vita sua non sapeva chi fosse Jean Valjean, tuttavia in un certo qual modo le loro anime furono affini quando il pastore sentì pesante la sensazione di essere braccato e offeso dalla malia del tempo. Che occorreva fare? Ormai era rovinato. Tutto quello che possedeva era stato rubato. Brutalmente picchiato non aveva le forze di reagire. Un tale sentimento di abbandono prevalse sul suo animo, così sentendosi senza speranza decise di lasciarsi morire di fame. Ebbe solo le forze di trascinarsi sul suo giaciglio e attendete la morte, a soli quindici anni. Crudele verità di un altrettanto mondo crudele.
La sua assenza fu notata e pochi giorni dopo ricevette una stranissima visita.
Aveva già perso la nozione del tempo quando sentì bussare alla porta. Non rispose, fosse stato anche il diavolo. Bussarono una seconda volta. Chiamarono, ma Eligio ormai aveva intrapreso il suo cupo viaggio e le voci dei viventi per lui non avevano più alcuna importanza. Sentì aprire la porta. Due uomini vestiti da contadini, mai visti prima, si accostarono al letto, lo guardarono con pietà e rabbia, dal tascapane estrassero una bottiglia d’acqua e gli bagnarono le labbra.
«Alzati Eligio!»
Ormai il ragazzo aveva perso il sorriso e la voglia di rispondere.
«Siamo venuti per aiutarti» dissero gli uomini con voce amichevole.
Poco importava al pastore che voleva soltanto dirigersi laddove non si fa più ritorno.
«Alzati, per il Cielo! Vogliamo vendicare il tuo torto».
A malapena il ragazzo batté ciglio, tuttavia qualche corda sensibile fu toccata e il buio dentro il suo animo si fece meno fitto.
«Torneremo di notte, vogliamo trovarti vivo e ti diremo che fare per vendicarti. Correrà molto sangue, tu non ne sarai macchiato. Devi solo ascoltarci».
Dopo parecchi giorni si seppe nel villaggio che Eligio aveva sì subito un furto di venti pecore, però non si seppe come il suo ovile si riempì di trenta capi, e fatto ancora più strano lo si vedeva più spesso in paese tra la piazza e le taverne sempre sorridente. Era molto ambiguo un recupero così repentino e beffardo del maltolto e dei mezzi.
La cosa offese gravemente il gruppetto dei cinque che aveva già fatto visita al pastorello. Troppi affronti, troppo veloci e, soprattutto, chi si permise ad aiutare il ragazzo?