Guai all'assassino
Di Franco Enna
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Anteprima del libro
Guai all'assassino - Franco Enna
Guai all'assassino
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright ©1962, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728523087
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
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I
Soffiava il vento dal deserto di Black Rock, quando Obed Lee arrivò alle prime case di Winnemucca. Peter Johns, che se ne stava sulla soglia del suo negozio a guardare le nuvole che fuggivano verso occidente, notò la lunga automobile coperta di polvere e l’uomo che sedeva al volante, e di Obed Lee pensò che era un tipo singolare.
Ad ogni folata, il vento faceva cigolare la vecchia insegna con la pomposa scritta Supermercato
. Nella casa di fronte, i ragazzi McCall giocavano a rincorrersi strepitando, e in giardino la signora McCall era occupata a ritirare la biancheria stesa nella mattinata. Man mano che prendeva i panni, li scrollava per toglierne la polvere portata dal vento.
Si era alla fine dell’estate e i cani avevano ancora la lingua penzoloni. Erano anni che Obed Lee non faceva attenzione ai cani, ai falchi sulla campagna, tutte cose che in quel viaggio da Los Angeles aveva notato con interesse un po’ infantile ma sempre crescente, come uno spettacolo di cui l’esistenza di tutti i giorni lo avesse voluto privare.
Percorse buona parte della strada principale quasi a passo d’uomo, guardandosi a destra e a sinistra, poi si fermò davanti al Pyramid Hotel, entrò disinvolto nella piccola hall deserta, dove premette due volte il pulsante di un campanello a mano. Gli squilli parvero turbare un silenzio antico come il nome dell’albergo. Una porta cigolò in alto, un vecchio apparve sulle scale di legno, in maniche di camicia, con un grembiule azzurro legato alla cintola.
« Benvenuto a Winnemucca! » fu il saluto di costui. « Mi chiamo Bat Yatima e sono il proprietario. »
« C’è da dormire? » chiese brusco Obed.
« Naturalmente. Abbiamo camere bellissime, di cui alcune esposte a mezzogiorno… »
« Me ne basta una. Quella numero quindici, ad esempio. È libera? »
Il vecchio, che era ritornato arzillo dietro il banco, sollevò la testa di scatto, studiò l’uomo che gli stava di fronte. Alto, massiccio, le forti braccia appoggiate al banco, la pelle bruciata dal sole, Obed Lee faceva pensare a una quercia radicata al suolo. C’era appunto qualcosa di vegetale nella sua figura, forse nei celesti occhi freddi che guardavano il mondo con apparente distacco. Nel suo volto, l’unica nota umana era data da una lunga cicatrice che attraversava diagonalmente la guancia sinistra come un sottile solco aperto nella imperturbabile carne.
« È libera, » disse debolmente Bat, e spinse verso il forestiero una scheda da riempire. Non osò chiedere spiegazioni.
Obed firmò col suo nome, poi seguì il vecchio fino a una bella camera al piano superiore e, quando si fu affacciato alla finestra, respirò la fresca aria del fiume. Il vento agitava gli alberi lungo le sponde. Ora che le nuvole erano state scacciate, si poteva vedere il sole al tramonto, in un mare di fuoco.
« Ha bisogno di qualche cosa? » domandò Bat dalla soglia.
« No, grazie. »
« Se vuole consumare qui i pasti, il nostro ristorante è rinomato per le sue… »
« D’accordo. »
La porta si richiuse. Obed voltò la schiena al sole e restò a fissare il copriletto rosso a losanghe blu. Un aeroplano passò basso sulle case. Il rombo del motore fece vibrare i vetri. Obed riconobbe un Piper.
Prima di andarsi a mettere sotto la doccia, ebbe cura di mettere il chiavistello alla porta.
Obed lasciò l’automobile nel garage dell’albergo, quindi scese a piedi fino alla casa che gli era stata indicata, bussò alla porta che recava la scritta « Sceriffo ».
La donna che gli aprì, grassa e un po’ volgare, lo squadrò con diffidenza alla luce del crepuscolo. Prima che Obed avesse aperto bocca, gridò verso l’interno: o Al, c’è un forestiero! » Scomparve subito dopo verso la cucina, agitando lo sviluppato deretano.
Dal corridoio oscuro la voce secca di un uomo disse: « Venga avanti! » Una luce si accese tra le pareti gialle e illuminò un uomo sui cinquant’anni, tarchiato, dai capelli arruffati, intento ad asciugarsi le mani con uno straccio. Indossava una canottiera sporca sul torace villoso. Quando gli si fu avvicinato, Obed avvertì un forte odore di benzina.
« Sono Al Challis, lo sceriffo. Stavo pulendo la motocicletta. Noi due non ci conosciamo, vero? Almeno, non mi pare. Difficilmente dimentico una faccia… »
« Mi chiamo Obed Lee. »
« Obed? » Lo aveva colpito l’insolito nome di battesimo.
« Obed, » ripeté il forestiero, a ed ero il socio di William Ranoke. »
Lo straccio si fermò nelle mani dell’uomo, i cui occhi chiari si strinsero per mettere meglio a fuoco l’interlocutore.
« Ah, quella storia! » fu il commento. « Venga da questa parte. Staremo più tranquilli. Vuole una birra? »
« No. »
Entrarono in uno squallido stanzino adibito a ufficio. Lo sceriffo accese una lampada da tavolo, che rivolse verso Obed come se avesse avuto intenzione di procedere a un interrogatorio di terzo grado.
« Si accomodi. Se permette, io bevo una birra. Oggi è stata una giornata calda. Fa sempre caldo dalle nostre parti, quando soffia il vento del deserto. »
Prese da un angolo una lattina, vi praticò due fori con un punteruolo, se l’accostò alle labbra per tracannare alcune sorsate.
« Che mi dice di Bill Ranoke? » chiese Obed.
Lo sceriffo parve non udire, e disse: « O preferisce whisky? So che voi cittadini non bevete altro… »
« Non si disturbi per me. Non sono venuto per bere con lei, sceriffo! »
Obed abbassò la lampada e, dopo essersi seduto a cavalcioni su una sedia, accese una sigaretta. L’altro lo guardava con interesse.
« Già, è venuto per Bill Ranoke! » scandì Challis e si lasciò cadere sulla poltrona di cuoio situata dietro la stretta scrivania. « C’è da ridere davvero, accidenti!… È il mio primo caso di assassinio e non posso dire gran che. Buffo, eh? C’è da mordersi le dita per la rabbia… »
« Mi racconti la storia, » fece Obed. « Forse insieme potremo fare qualcosa. »
« Insieme?… Ah, già! Lei e Ranoke avevate un’agenzia di investigazioni… »
« Esatto… »
« A Los Angeles, mi pare. »
« Infatti. »
Challis vuotò la lattina e la gettò in un angolo. La seguì con lo sguardo fin sotto alla finestra, dove si fermò.
« Non credo che insieme potremo fare qualcosa, » disse lo sceriffo guardando Obed di traverso. « Se facessi una cosa del genere, la gente qui direbbe che se non era per lei… Il caso riguarda me, lo capisce. »
« Le conviene lasciarmi fare. Agirei anche senza di lei, sceriffo. Le lascerò tutto il merito delle indagini, se un merito ci sarà. A me interessa l’assassino. »
Le ultime parole furono pronunciate con un tono che diede il brivido a Challis, la cui larga faccia si immobilizzò un istante.
« Se preferisce così… Io ho fatto tutto ciò che era umanamente possibile fare. In fondo, non sono passati che otto giorni dal delitto. Otto giorni giusti. Non posso fare miracoli, accidenti! »
« Non sarebbe meglio parlare chiaro con me? »
« Certo, certo!… Otto giorni, dicevo. Siamo all’undici. Ranoke è stato ucciso il tre. Era arrivato il primo settembre, come saprà. È stato Greg Pah-Utes a trovare il cadavere. Greg è un vecchio indiano che vive come un eremita, qua e là per i boschi. Brav’uomo. Venne da me tutto affannato, quella sera, per dirmi che poco lontano dalla miniera Starkel c’era una automobile con un cadavere dentro. Colpo alla nuca. Grosso calibro di sicuro, anche se non è stato possibile trovare il proiettile. C’era stata una fuoruscita dalla parte anteriore, segno che l’assassino aveva fatto fuoco a bruciapelo. Come i giapponesi, ricorda? Ranoke alloggiava al Pyramid, aveva la camera numero quindici, che ho perquisito da cima a fondo. Nessun indizio, né in albergo né altrove. Nessuno era venuto a cercare Ranoke in quei due giorni. Nessuno lo conosceva in paese. Mistero fitto come la notte. »
Al Challis si fermò per asciugarsi il sudore dalla faccia e dalle ascelle. Si era accalorato durante il racconto, e il rossore gli aveva macchiato i tondi zigomi.
« Eppure qualcuno doveva averlo ammazzato! » proseguì di scatto. « Il corpo era lì. Non me lo sognavo di certo… Mi sono messo subito al lavoro, lo avrà letto sui giornali. Ho rivolto domande a destra e a sinistra. Ranoke era stato visto in compagnia di Thomas Ecker, che conosco da quando era alto una spanna e che non farebbe male a una mosca. Logicamente mi è parso un appiglio e l’ho interrogato. Ho saputo, così, che il suo socio era venuto a Winnemucca per prendere informazioni sul conto dello stesso Ecker. Questioni di matrimonio, mi pare… »
« Sì, Ecker aveva risposto a un annuncio matrimoniale, e l’interessata si era rivolta alla nostra agenzia per sapere che tipo fosse, » spiegò Obed.
« Infatti, proprio questo mi disse Tom, sicché mi sono insabbiato lì. Ecker non ha saputo dirmi altro. Aveva avvicinato Ranoke due volte, e gli era parso un tipo simpatico. La stessa cosa mi hanno detto Bat Yatima, il proprietario del Pyramid e Virginia Tyler… »
« Chi è questa Tyler? »
« La nipote di Bat Yatima, una bella ragazza che ogni anno viene a passare l’estate a Winnemucca. Abita a Salt Lake City con la madre. Credo che abbiano un negozio di stoffe, laggiù… Insomma, non ho fatto un passo avanti, e da quel giorno mi dispero, perché non posso dimostrare ai miei concittadini che sono un abile sceriffo. Invece, le assicuro che ce l’ho messa tutta… »
Challis si colpì la sinistra con un pugno. Obed capì che esperire un’inchiesta per un caso di omicidio doveva essere per lo sceriffo una cosa superiore alle sue forze, anche se voleva far credere il contrario. Obed giudicò Challis un uomo non molto intelligente, ma ambizioso.
Si alzò dicendo: « Ho voluto conoscerla, sceriffo. Se dobbiamo collaborare, sarà bene tenersi in contatto… »
« Spera davvero di riuscire? » chiese Challis alzandosi a sua volta. Il suo tono era leggermente ironico.
« In genere la spunto. Basta che lo voglia. E stavolta lo voglio, mi creda! »
Lo sceriffo accompagnò Obed fino alla porta. Le luci si erano accese nella strada, il vento faceva dondolare i lampioni e da qualche posto proveniva una musichetta piacevole.
Operai e contadini, chi a piedi chi in bicicletta, facevano ritorno alle case chiacchierando con calma. Nel cielo ormai cupo, punteggiato di stelle, passò ancora il rombo del Piper.
« C’è un aeroporto qui vicino? » domandò Obed.
« Un semplice campo di atterraggio. Appartiene alla miniera Starkel. »
« Argento? »
« Oro. Buoni filoni. Abbiamo parecchie miniere nei dintorni, ma questa vallata è fertile e i più preferiscono fare gli agricoltori… Alloggia al Pyramid, vero? »
« Sì, camera numero quindici, sceriffo! » disse a voce alta Obed e lo piantò in asso sulla soglia.
II
Obed non si cambiò per il pranzo. Andò solo a rinfrescarsi la faccia in camera. Nel tornare a pianterreno scorse una ragazza in blue-jeans dietro il banco del bar, e il suo aspetto lo indusse a fare una sosta. Obed sostava sempre davanti a certi panorami.
« Whisky, signor Lee? » lo apostrofò lei per prima.
« Conosce il mio nome, a quanto vedo. »
« Non è possibile sbagliarsi, » rispose la ragazza con una risata armoniosa. « Lei è la sola faccia nuova, oggi. »
« Va bene, bevo whisky. »
« Liscio? »
« Con poca soda. »
Due mani agili e abbronzate mossero bottiglia e bicchiere. Obed osservava con interesse quella ragazza dall’inconfondibile aria cittadina e dagli occhi pieni di sentimento. Un nasetto all’insù tracciava un accento sbarazzino sul volto abbronzato dai lineamenti delicati. I blue-jeans mettevano in risalto due lunghe gambe armoniose e dei fianchi tutti seduzione. La camicetta bianca, incrociata sul davanti, le fasciava il dorso, modellando i bei seni appuntiti.
« Eccola servita! »
« Grazie. »
Obed bevve un paio di sorsate senza staccare lo sguardo dal viso della ragazza.
« Forse anch’io conosco il suo nome, » disse Obed.
« Fa l’indovino? »
« Può darsi… »
« Sentiamo, allora. Come mi chiamo? »
« Virginia. »
La ragazza ebbe una risata fresca.
« Azzeccato!… Ma non venga a dirmi che non lo sapeva già. »
« Infatti non lo dico. »
« È californiano? »
« Sì.