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Kadimah!: Saggi sull'identità ebraica (1999-2012)
Kadimah!: Saggi sull'identità ebraica (1999-2012)
Kadimah!: Saggi sull'identità ebraica (1999-2012)
E-book2.976 pagine17 ore

Kadimah!: Saggi sull'identità ebraica (1999-2012)

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Info su questo ebook

Kadimah raccoglie la ventennale produzione sparsa di Vincenzo Pinto dedicata all'identità ebraica. Sionismo, antisemitismo, Israele e Palestina: tutti i temi sono affrontati e approfonditi dal punto di vista di una solida storia sociale delle idee.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2017
ISBN9788827535998
Kadimah!: Saggi sull'identità ebraica (1999-2012)

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    Anteprima del libro

    Kadimah! - Vincenzo Pinto

    (1999-2012)

    L’ebreo nuovo nazionalista nell'opera e nel pensiero di Nathan Birnbaum (1882-1907)

    Introduzione

    Cent’anni fa nacque a Basilea la World Zionist Organization. Cinquant’anni dopo fu la volta dello Stato d’Israele, a seguito di lunghe ed estenuanti trattative. Gran parte del merito era attribuibile all’intenzione delle potenze vincitrici di porre fine alla questione ebraica, permettendo alle frange più intransigenti e romanticheggianti di vedere soddisfatte le loro rivendicazioni nazionaliste. Tralasciando, senza comunque sottovalutare, la congiuntura storica (la Shoah), è innegabile che la maggior parte dell’intellighenzia ebraica e dell’ortodossia religiosa guardò con sospetto all’intenzione rivoluzionaria del fratellastro del nazionalismo europeo: un ebreo nuovo orgoglioso di sé e del proprio retaggio. Il sionismo, infatti, era considerato un’utopia capace d’acuire l’antisemitismo impedendo l’integrazione (liberalismo riformato), un’eresia (ortodossia religiosa) o uno strumento dell’imperialismo europeo (socialismo marxista). Inoltre, non raccolse mai eccessivi consensi tra le masse¹, e annoverò tra i suoi estimatori gentili solo filantropi o sognatori.

    Risaliremo per sommi capi alle origini del nazionalismo ebraico austriaco, specifica reazione a problematiche spirituali (l’assimilazione nichilista, l’assenza di un proprio senso storico, la ridefinizione dei propri parametri culturali). Prenderemo in esame le conversioni ideologiche della personalità cui è attribuibile il merito di aver preparato il campo all’organizzazione herzliana. Scrittore, pubblicista e politico di spicco del sionismo viennese, Nathan Birnbaum fu tra i fondatori della prima associazione studentesca nazionalista ebraica tendente alla Palestina. Pubblicò la prima rivista nazionalista in lingua occidentale. Coniò e definì il termine Zionismus (sionismo). Redasse il manifesto programmatico del sionismo austriaco. Espresse la critica sionista più circostanziata del materialismo storico. Divenne uno dei maggiori propugnatori del sionismo culturale. Fu tra i teorici dell’Alljudentum (Panebraismo). Infine, dopo essere diventato uno dei più strenui difensori dello yiddish, si convertì all’ortodossia religiosa.

    Soffermandoci sul periodo nazionalsionista (fino al 1907), offriremo un contributo alla comprensione delle ragioni storiche del sionismo, movimento di redenzione politica che elaborò un proprio composito progetto di ebreo nuovo in antitesi con gli schemi della diaspora di ieri (ghetto) e d’oggi (integrazione). I dilemmi sopra proposti potranno essere chiariti analizzando l’opera e il pensiero di Birnbaum, personaggio comprensibilmente ignorato dai nostri libri di storia, ma incomprensibilmente dimenticato dalla cultura ebraica contemporanea. Attraverso gli scritti reperiti², abbiamo analizzato quella che ad alcuni intellettuali ebrei di fine secolo apparve l’unica soluzione della questione ebraica: la riconquista della Palestina. Si potrà forse comprendere come mai il sionismo apparisse a molti un’ideologia estemporanea, contraddittoria e criticabile sotto molti punti di vista. Nell’odissea intellettuale di Birnbaum si possono cogliere alcuni dei limiti storici del sionismo, tanto le ragioni della sua gestazione relativamente breve e del suo apparente successo futuro, quanto quelle per cui non fu mai l’ideologia predominante nell’arcipelago culturale ebraico. Ecco che nell’esistenza di un apolide e di un eretico è ravvisabile quella conflittualità interiore specifica solo dell’ebreo finalmente alla ricerca della storia.

    1. La critica della cosa ovvia e della mania d’amalgamazione. Kadimah e la prima fase di «Selbst-Emanzipation!» (1882-1889)

    Figlio di un ebreo polacco e di un’ungherese³, Nathan Birnbaum nacque a Vienna nel 1864. La sua personalità atipica, estranea agli schemi del liberalismo occidentale (integrazionismo e secolarizzazione) e dell’ortodossia religiosa (chiusura refrattaria alla modernità) emerse già nelle sue scelte spirituali giovanili. Pur avendo frequentato le scuole elementari e secondarie austriache («stava per emergere nella borghesia colta»)⁴, «ben presto si estraniò dal suo ambiente famigliare moderatamente ortodosso»⁵. Ma non solo: nonostante l’enorme influenza esercita dal Deutschtum (germanesimo) sulle nuove leve della Kultusgemeinde (comunità di culto) viennese, optò per il difficile e tortuoso cammino verso l’ebraicità rimossa e dimenticata. Controcorrente e anticonformista, nel suo contributo commemorativo di Kadimah (1933), intitolato Gegen die Selbstverständlichkeit (Contro la cosa ovvia), riportò un breve passo di una conversazione avuta in età ginnasiale, frutto – a sua stessa detta – di un’improvvisa folgorazione⁶.

    Birnbaum negava un assioma di molti Westjuden (ebrei occidentali): l’appartenenza fisica e spirituale al mondo tedesco. Non il popolo eletto incaricato di una missione universale: «Gli ebrei erano un’entità etnica con una storia e una cultura originali legate ad Eretz Israel (terra d’Israele)»⁷. Da alcune semplici declamazioni, capaci solo d’immergerlo nella lettura di periodici in ebraico come «Ha-Shahar» (Alba)⁸ o di richiamare l’attenzione dei suoi coetanei, si passò a qualcosa di molto più serio nel 1882 (immatricolazione alla facoltà di Legge). Memore delle notizie provenienti dalla Zona di Residenza⁹, fondò, con il medico polacco Bierer e lo studente di medicina romeno Schnirer, «un’associazione studentesca nazionalebraica tendente alla Palestina»¹⁰. In dicembre, dopo alcune riunioni preliminari cui parteciparono altri studenti d’origine orientale, nacque l’Akademische Verbindung Kadimah (Associazione accademica Kadimah). Sul nome (in ebraico avanti, verso est), pesò il suggerimento di Smolenskyn, che, seppur gravemente malato, accettò l’invito degli ebrei nazionalisti¹¹.

    In Palestina per il progresso del popolo ebraico. Ecco la soluzione della Judenfrage (questione ebraica) avanzata dai Kadimahianer. Sebbene la legislazione sull’associazionismo studentesco vietasse la proclamazione per statuto della tendenza nazionalista¹², di fatto l’ammissione a Kadimah era subordinata ad una dichiarazione scritta in cui gli studenti ebrei giuravano di combattere l’assimilazione, di portare un contributo alla nazione ebraica e di supportare la colonizzazione della Palestina. Pochi giorni dopo l’approvazione della sua costituzione (23 marzo 1883), Schnirer e Birnbaum tappezzarono le bacheche dell’università con un’Erklärung in tedesco e in ebraico:

    Fratelli di stirpe ebraica! Per diciotto secoli, da quando il popolo ebraico perdette la propria indipendenza, esso è stato soggetto a continue persecuzioni il cui unico scopo è la distruzione dell’ebraismo. Purtroppo in questo loro tentativo i nostri nemici sono stati aiutati da appartenenti alla nostra stessa razza. L’indifferenza nel cuore degli ebrei concorre con l’animosità altrui nel raggiungimento di quest’obiettivo. Nei confronti dei nostri avversari noi possiamo solo difenderci; per quanto riguarda, invece, l’indifferenza, dobbiamo passare al contrattacco. È questo lo scopo che si è prefissa l’associazione universitaria Kadimah, fondata a Vienna con lo scopo di preservare e d’incoraggiare il patrimonio letterario e culturale del nostro popolo (…) Fratelli di stirpe! Offriteci il soccorso della vostra mano, nella convinzione di contribuire a un sublime e nobile scopo: la rigenerazione della nazione ebraica!¹³

    Come Birnbaum avrebbe sottolineato in seguito, il progetto di Kadimah appariva piuttosto ambizioso. Non si trattava solo di rilevare le prime avvisaglie dell’antisemitismo accademico e le risa di scherno degli studenti ariani¹⁴, ma di vincere anche l’opposizione e l’indifferenza dei vertici della Kultusgemeinde. Da un lato, infatti, l’ebraismo riformato della capitale, ottenuto de jure la completa emancipazione civile (1867), temeva che velleitari rigurgiti nazionalistici potessero ostacolare quel processo d’integrazione che in quegli anni appariva sulla strada della realizzazione¹⁵. Dall’altro lato, il progetto territorialista dei Kadimahianer, alla luce dell’ottimismo integrazionista occidentale, non sembrava in grado di riscuotere molti consensi tra i tedeschi di confessione mosaica¹⁶. Da ultimo, non poteva apparire casuale il fatto che tutti i fondatori della Verbindung fossero ebrei provenienti o comunque originali dell’Est, cioè persone a diretto contatto con un’ortodossia religiosa assai soffocante e con una legislazione a dir poco discriminante.

    La rigenerazione della nazione ebraica significava riconquista della coscienza storica perduta. A tale scopo Kadimah nominò soci onorari Pinsker e Smolenskyn che, insieme col rabbino lituano Isaak Rülf¹⁷, si erano prodigati per eliminare la miseria della Galuth¹⁸. In secondo luogo, convertì al nazionalismo la Jüdisch-Akademische Lesehalle (Salone accademico ebraico di lettura), inizialmente assimilazionista, e costituì una propria biblioteca. In terzo luogo, nel dicembre 1883 organizzò festeggiamenti in onore dei Maccabei, i ribelli che duemila anni prima si erano opposti al dispotismo siriano. Organizzate a scadenza annuale, queste celebrazioni intendevano esaltare l’eroismo patriottico cui dichiaratamente s’ispirava l’ethos dell’associazione: «la critica delle tendenze ellenizzanti che favorivano un processo di disgregazione e alimentavano l’autodisprezzo degli ebrei; la lotta di liberazione contro la dominazione straniera; la lotta per una libera e autonoma identità; il sogno di restaurare uno stato ebraico indipendente in Eretz Israel»¹⁹. La coscienza storica era il presupposto indispensabile per ogni sentimento patriottico, «il consigliere, il maestro e il capo delle nazioni e di tutta l’umanità (…) la perenne autocoscienza dei popoli e dell’umanit໲⁰.

    Pur accusata di deviazione pagana²¹, Kadimah proseguì la sua attività sensibilizzatrice, cercando anche d’esportare il suo modello altrove. Accanto alle celebrazioni e ai proclami, il suo proselitismo culturale necessitava di una mirata attività pubblicistica, anche in considerazione del fatto che l’ebraismo liberale deteneva il monopolio della stampa viennese. Birnbaum, figura di primo piano del nazionalismo accademico, si era reso conto che la salvezza e la rigenerazione della nazione ebraica dipendevano dalla critica di quello che considerava il vero cancro del Westjudentum (ebraismo occidentale): la mania d’amalgamazione. Nel 1884 pubblicò senza nome l’opuscolo Die Assimilationssucht (La mania d’assimilazione), dal titolo piuttosto polemico (definiva l’integrazione «mania d’assimilazione»; gli ebrei, riallacciandosi al Mendelssohn²² criticato da Smolenskyn, «uomini di confessione mosaica»; se stesso uno «studente di nazionalità ebraica»). Alla mania d’amalgamazione e a una politica suicida basata sull’autoinganno, l’autoabnegazione e il desiderio innaturale d’autodissoluzione, opponeva la rivalutazione di una cultura e un sentimento nazionale millenari. A questo nuovo tentativo d’ellenizzazione, di servile e utilitaristica imitazione culturale, fomentatore solo d’antisemitismo e nichilismo spirituale²³, occorreva opporre «un risveglio della coscienza nazionale e un incoraggiamento alla colonizzazione in Eretz Israel»²⁴. La Palestina era una necessità improrogabile²⁵.

    La Judenfrage non era risolvibile con «l’arrendevolezza completa della teoria suicida assimilativa»²⁶, ma solo col risveglio della coscienza nazionale e l’incoraggiamento della colonizzazione in Palestina. I presupposti sembravano buoni: Hibbath Zion (Amore di Sion²⁷) stava finanziando i primi insediamenti in Eretz Israel; le associazioni, i circoli e i periodici nazionalisti si moltiplicavano a vista d’occhio; in Europa orientale si assisteva alla rinascita della lingua ebraica. Ma non solo: nel febbraio 1885 Birnbaum fondò, ispirandosi a Pinsker²⁸ e a Smolenskyn, il primo periodico nazionalista ebraico in lingua occidentale: «Selbst-Emanzipation!» (Autoemancipazione!), che si prefiggeva di tutelare gli «interessi nazionali, sociali e politici del popolo ebraico»²⁹. A tiratura modesta e sempre a corto di fondi, il giornale chiuse i battenti per la prima volta nell’estate del 1886, riprendendo le pubblicazioni quattro anni dopo. Accanto agli omaggi al vate da poco deceduto³⁰, colui che n’era l’editore, il redattore, il principale finanziatore, l’amministratore e il fattorino, dedicò ampio spazio alla diffusione dell’idea di rinascita ebraica. I principali temi discussi erano la minaccia dell’antisemitismo e la lotta contro ogni forma d’assimilazionismo.

    Dietro i fallimenti del pedagogismo del liberalismo ebraico, si celava – secondo Birnbaum – un principio piuttosto semplice: la razza. La millenaria storia ebraica, le scienze naturali e l’economia politica sembravano avvalorare questa tesi. L’assimilazione basata sugli astratti principi mendelssohniani non soltanto era destinata al fallimento, ma fomentava anche quello Judenhaß (odio per gli ebrei) che, indirettamente, dimostrava le inalienabili differenze razziali tra semiti e ariani³¹. Non era il nazionalismo ebraico la causa della pubblicistica antisemita, bensì «il rifiuto di riconoscere un’individualità nazionale primordiale da parte degli ebrei assimilazionisti»³². Ma non solo: i ripetuti fallimenti del liberalismo (vedi le persistenti discriminazioni antisemite) apparivano, in prospettiva, un utile strumento di propaganda capace di svegliare i Westjuden.

    Alla critica dell’Assimilationssucht, «Selbst-Emanzipation!» affiancava una sezione dedicata alla Palestina (clima, condizioni e sviluppo delle colonie della I Aliyà)³³. Oltre alla seconda reale emancipazione raggiungibile con il senso della storia e di se stessi, e rivalutando le espressioni genuine del proprio Volksgeist³⁴, il Golusjude (ebreo della Galuth) doveva eliminare il male acuitosi nel corso dell’ultimo secolo: il culto della Mammona (o spirito del vile interesse). Ripercorrendo quell’ampio filone letterario-filosofico prosperato nella Mitteleuropa tedesca del XIX secolo, Birnbaum mostrava di credere allo stereotipo che raffigurava i Börsenjuden (ebrei della Borsa) come il simbolo par excellence del capitalismo e del materialismo. Se il Bürger (borghese) gentile si era emancipato da questi fardelli spirituali raggiungendo sia le più alte vette del mondo accademico sia una perfetta corrispondenza tra la Bildung (educazione) e la Sittlichkeit (moralità)³⁵, l’ebreo, che si era trovato la strada preclusa per tradizione e volontà, aveva fatto del denaro il nuovo feticcio. Sulla base di una triplice distinzione (il merchant of Venice shakespeariano, il negoziante tratteggiato da Freytag e il venditore ambulante dell’Europa Orientale), egli pensava che «un popolo che viveva solo di commercio, cade(ssse) preda del guadagno e perde(sse) tutti i suoi valori»³⁶.

    Facendo suo un argomento di dibattito ripreso in seguito, Birnbaum dimostrava di essere profondamente imbevuto dell’evoluzionismo positivista e marxista. Ad avvalorare il determinismo delle sue teorie, concorrevano una serie di circostanze. La Vienna fin de siècle era diventata una città ebraicamente spaccata in due: da un lato esisteva la liberaleggiante Kultusgemeinde, economicamente agiata e stanziata, soprattutto dopo il nuovo assetto urbanistico del 1858, nel Ring e nei suoi dintorni, ben integrata nel milieu asburgico; dall’altro, la comunità degli Ostjuden (ebrei orientali) di Leopoldstadt, profondamente attaccati alla tradizione del ghetto e affatto disposti a sacrificare i propri costumi. In secondo luogo, la sua situazione economica rimaneva sempre sull’orlo dell’indigenza: dottore in Legge nel 1887, non riscosse molti successi nella sua professione forense, anche perché «la sua fisionomia spiccatamente semita scoraggiava i clienti»³⁷. Il contrasto tra poveri Ostjuden e ricchi Westjuden, tra viva cultura e morto cosmopolitismo iniziava a farsi strada nella sua Weltanschauung. Grazie ai soldi della madre, che vendette il suo negozio per finanziare l’attività editoriale del figlio, Birnbaum decise di dedicarsi completamente alla diffusione dell’idea nazionalista, che di lì a poco si sarebbe tramutata nel sionismo.

    2. I principi del «Zionismus» (1890-1892)

    La rinnovata «Selbst-Emanzipation!» riapparve il 1° aprile 1890 con un lungo articolo di fondo in cui Birnbaum ribadiva come solo l’autoemancipazione (rigetto dell’astratta emancipazione legale, graduale riconquista del suolo atavico) potesse salvare il Golusjude dall’Antisemitismus (antisemitismo), forma moderna e aggiornata di Judenhaß, e dall’Assimilationssucht, forma ebraica di Nihilismus (nichilismo)³⁸. A tal scopo, la rivista, «Organ – come specificava il sottotitolo – der Jüdisch-Nationalen» (Organo degli ebrei nazionalisti), s’impegnò nel dimostrare «l’attualità dell’idea ebraica-nazionale e specialmente palestinese»³⁹ tanto alla Kultusgemeinde quanto all’ebraismo mitteleuropeo integrazionista o, come nel caso della Galizia e della Bucovina, affascinato dai nuovi ideali universalistici del marxismo. Prendeva corpo, in questo modo, il proselitismo auspicato anni addietro: il Russisch-jüdischer Wissenschaftlicher Verein (Associazione scientifica russo-ebraica) a Berlino e Hasmonea a Czernowitz cercavano di diffondere un’idea (il nazionalismo integrale di Kadimah) che nella capitale della Kakania doveva sottostare gioco forza ad un progressivo processo di ghettizzazione culturale, soverchiata dal liberalismo e dall’ortodossia religiosa.

    Birnbaum cercò, innanzi tutto, di chiarire le mete del movimento ebraico-nazionale. In Volkstum und Weltbürgertum (Comunità di sangue e borghesia mondiale) risolse la conflittualità tra l’ideologia nazionalista e quella socialista⁴⁰. Nei numeri successivi di «Selbst-Emanzipation!» apparve una serie di pezzi intitolati Die Ziele der jüdisch-nationalen Bestrebungen (Le mete degli sforzi ebraici-nazionali). Nel «Wirtschaftlicher Teil» (Parte economica) era sottolineata l’importanza della Palestina per l’eliminazione della miseria delle masse. Nel «Politischer Teil» (Parte politica) era utilizzato l’aggettivo sionista con riferimento ai progetti nazionalisti. Nel «Ethischer Teil» (Parte etica) si faceva di Eretz Israel, da reminiscenza romantica il luogo in cui debellare il mammonismo e creare una nuova classe di liberi e indipendenti lavoratori ebrei. La redenzione del Volkstum non poteva prescindere da una rigenerazione nazionale che fosse parimenti socioeconomica. Si trattava di una curiosa forma di socialnazionalismo: la normalizzazione nazionale era il presupposto di quella morale e sociale, come era affermato in Die Sozialdemokratie und die Juden (La socialdemocrazia e gli ebrei), pezzo critico nei confronti del cosmopolitismo austromarxista.

    A tale scopo Birnbaum, che già nella prima fase di «Selbst-Emanzipation!» aveva sentito la necessità di giustificare scientificamente l’esodo nella terra atavica, espresse chiaramente tutto il suo disappunto verso quell’opzione americana preferita, a conti fatti, dalla maggior parte delle masse orientali. In Osten oder Westen (Oriente od Occidente) intervenne nell’acceso dibattito scoppiato già nel 1884 nella Zona di Residenza tra chi riteneva preferibile indirizzare l’esodo verso l’America (la filantropia e gli assimilati) e chi riteneva indispensabile riconquistare, con la fatica e le sofferenze fisiche, la Palestina (Hibbath Zion). Accanto a ragioni pratiche (accaparramento dei finanziamenti di Hirsch e dell’Alliance Israélite Universaille) e politiche (dimostrazione del debole consenso dell’americanismo), Eretz Israel era descritto come l’unico luogo in cui eliminare le anomalie del Golusjude⁴¹.

    Una colonizzazione organizzata della Palestina: ecco la cura del Goluselend (miseria della Galuth). Birnbaum, consapevole della debolezza e della frammentazione delle forze nazionalistiche, decise di intensificare la propaganda attraverso dibattiti nella sua Vienna e, a partire soprattutto dal 1891, con lunghi giri di conferenze in Galizia e in Bucovina. L’Organisation (organizzazione) – come sottolineò in un omonimo articolo del 1891 – e la Zentralisieurung (centralizzazione) nei singoli paesi della diaspora costituivano «la precondizione e il fondamento per la Centralizzazione generale da realizzare nel movimento sionista». Da principio, la diffusione dell’idea e la sua realizzazione: la propaganda andava adattata alle esigenze locali (lingua, ambiente, problematiche speciali); l’organizzazione necessitava di «un ambito operativo (Wirkungskreis) non troppo ristretto o troppo ampio». Successivamente, l’unione di tutte le forze nazionaliste⁴². Che queste parole contenessero in fieri l’idea di Congresso herzliano, era ravvisabile sia in Die Leitung der zionistischen Partei Wiens (La direzione del partito sionista di Vienna) sia in Der neue Cours (Ein Wort an aller Zionisten) (Il nuovo corso. Una parola a tutti i sionisti), la cui chiusa non ammette fraintendimenti:

    Il sionismo, la stessa idea nazional-ebraica, significa già di per sé un nuovo corso dell’ebraismo; adesso significa, all’interno del sionismo, un nuovo corso da perseguire: aspirazione alla meta attraverso la formazione di un grosso partito sionista che istruisca e educhi il popolo. A tal fine esortiamo tutti i compagni di stirpe fuori e dentro la Russia. Solo il nuovo corso guida il nostro popolo sulla riva della salvezza⁴³.

    Il nuovo corso, che si tradusse in scambi epistolari⁴⁴ e in appelli demagogici⁴⁵, significò anche un nuovo nome. In occasione della pasqua ebraica del 1891, Birnbaum pronunciò un discorso nella sede di Kadimah in cui denunciò la tradizione Yavneh ed assunse lo pseudonimo di Mathias Acher⁴⁶, a suggello sia dell’inclinazione rivoluzionaria del nazionalismo ebraico, sia del suo carattere d’ebreo eretico alla costante ricerca dell’essenza dell’ebraismo. Di lì a poco si giunse ad un dibattito organizzato a Vienna dall’associazione Admath Jeschurun, sorta dalla cenere della vecchia Ahvat Zion (Al servizio di Sion) e tesa a favorire la colonizzazione in Palestina, in cui il pubblicista espose per la prima volta compiutamente il concetto di Zionismus. Pubblicata a puntate su tre numeri di «Selbst-Emanzipation!», col titolo Die Prinzipien des Zionismus (I principi del sionismo), la sua lunga prolusione s’apriva con la definizione del termine:

    Sionismo deriva dal termine Sion. Sion, il nome di una collina di Gerusalemme, è già dai tempi più antichi l’indicazione poetica di Gerusalemme, in senso ampio, perché la città rappresenta il punto cruciale della storia ebraica, l’indicazione poetica della stessa e della nazione ebraica, quando si radicò nella terra di Palestina e vi raggiunse l’unità. Quando le legioni romane sciolsero quest’unità, la parola Sion conservò un senso nostalgico; essa personifica la speranza della rinascita nazionale. Poiché la figlia di Sion è diventata vedova, l’anima del popolo sente la nostalgia del suo conforto. Sion diventò l’ideale della stirpe ebraica, che l’accompagnò duemila anni sui suoi sentieri della vita e della sofferenza. Quest’ideale è la base del Sionismo, che per primo su di esso si fonda, quando è diventato da inconsapevole movimento dell’animo consapevolezza, da malinconia nostalgica volontà attiva, da ideale sterile idea salvifica⁴⁷.

    Le mete erano: «il riconoscimento della specificità del popolo ebraico, così come del suo diritto e del suo dovere in quanto popolo a ricostituirsi; la convinzione che la situazione del popolo ebraico sia infelice e indegna; che perciò sia necessario una precisa riorganizzazione delle relazioni statuite dal diritto pubblico ed economiche del popolo ebraico, che deve essere creato un asilo per gli ebrei perseguitati e un punto di raccolta come sostegno e centro per il popolo ebraico, e infine l’opinione che solo un paese del mondo sia adatto per questo asilo e punto di raccolta, sostegno e centro, la vecchia patria popolare degli ebrei – Palestina»⁴⁸. Solo questi presupposti erano in grado di assicurare la conquista di quella normalizzazione nazionale che eliminasse la condizione del popolo ebraico come Pariavolk⁴⁹.

    Dopo la normalizzazione nazionale, Birnbaum riteneva necessaria una redenzione morale. La Palestina appariva l’unico territorio in grado d’assorbire un’immigrazione di massa, costruttrice spiritualmente (preservazione della cultura e della lingua) e destrutturatrice socialmente (eliminazione dello spirito del vile interesse)⁵⁰. Le emozioni di un popolo si celavano dietro il successo sionista:

    Il grido Sionne! risveglia un mondo di emozioni nel cuore dei nostri confratelli ebrei e genera schiere di combattenti entusiasti, mentre il grido America! (se, per esempio, si volesse trovare lì la nuova patria per Israele) lascia fredda l’anima nazionale ebraica. Non è facile trarre un popolo di coltivatori da un popolo di commercianti. Solo l’entusiasmo può realizzare questo compito immane; non è possibile adempierlo con la ragionevolezza dell’uomo d’affari. L’ebreo coltivatore attingerà questo entusiasmo dal suolo dei suoi avi, mentre un insuccesso, anche minimo, lo allontanerà da una terra straniera che per lui non significa nulla⁵¹.

    Accanto a questo romanticismo agrario retaggio del radicalismo ottocentesco, Birnbaum proponeva una visione messianica fatta sua già Hess⁵²: «gli ebrei sono un popolo orientale. Lì (in Palestina) si sentiranno come a casa propria e saranno in grado di svolgere una missione culturale che, in linea con l’intero corso della storia, appartiene a loro e soltanto a loro (…). Essi sono ampiamente qualificati a ridestare l’Oriente dal suo letargo, a riammetterlo nella storia e a compiere un grande lavoro al servizio dell’umanità»⁵³. Quest’idea di missione civilizzatrice dei semiti europei, capaci di importare in Oriente una Zivilisation (civilizzazione) epurata dalla sua ipocrita Weltanschauung, sarebbe stata approfondita in seguito. Nell’occasione, Birnbaum offriva un’analisi più precisa del socialnazionalismo predicato con tanto ardore dal 1885. Non a caso, il fin de siècle asburgico aveva portato alla ribalta il pangermanesimo, l’austromarxismo e il cattolicesimo sociale. La necessità di affermare la propria diversità era un incentivo propagandistico verso gli Ostjuden polacchi, e ideologico verso i Westjuden austro-ungheresi. Non una semplice reazione alla miseria materiale, non il figlio adulterino del nazionalismo razzista: il sionismo era redenzione di una particolarità sospinta da ideali di giustizia universale⁵⁴. Ritenere che l’antisemitismo fosse solo il prodotto dello spirito capitalista e la sua scomparsa connessa ad esso era una semplificazione storica errata e perniciosa⁵⁵.

    Alla fine del 1892, Birnbaum si era formato un giudizio piuttosto chiaro della Judenfrage. Il sionismo era l’unica via verso la redenzione fisica e spirituale dell’ebraismo, antitetico al liberalismo riformato e al socialismo, responsabili dell’annientamento morale in corso nella Galuth. In quanto movimento socialnazionale, doveva serrare le proprie file costituendosi in un’organizzazione unitaria. Si doveva tradurre – come scrisse poco dopo – in Politischer Zionismus (Sionismo politico), cioè «organizzar(si) come partito politico e combattere pubblicamente per i propri fini»⁵⁶. Non era sufficiente la creazione di Zion: Verband der österreichischen Vereine für Colonisation Palästinas und Syriens (Sion: unione delle organizzazioni austriache per la colonizzazione della Palestina e della Siria). Accanto alla ricerca delle garanzie giuridiche per un focolare ebraico in Palestina, reso sempre più difficoltoso dalla burocrazia turca, era necessario anche una Gegenwartsarbeit (lavoro attuale), per rendersi garanti dei propri Stammesgenossen (fratelli di stirpe) e per evitare che la socialdemocrazia e il liberalismo potessero riscuotere maggiori consensi. La Kaiserstadt rappresentava il centro ideale della zionistische Partei (partito sionista)⁵⁷.

    3. Tra «Palestinocentrismo» e «Gegenwartsarbeit». Die nationale Wiedergeburt des jüdischen Volkes in seinem Lande (1893-1895)

    Il 1893 fu un anno chiave per il sionismo austriaco: apparve il suo indiscusso manifesto programmatico, prese coscienza della recrudescenza dell’antisemitismo accademico e cercò di costituirsi in un’organizzazione unitaria impegnata anche nell’attualità diasporica. Pur continuando la pubblicazione di «Selbst-Emanzipation!», che – fatto importante – assunse il nuovo sottotitolo di «Organ der Zionisten» (Organo dei sionisti), Birnbaum diede alle stampe un opuscolo nel quale raccolse i frutti della sua decennale attività propagandistica. Cercando di porre a sistemazione tutti le tematiche a volte pedantemente ripetute sulle pagine della sua rivista, Die nationale Wiedergeburt des jüdischen Volkes in seinem Lande (La rinascita nazionale del popolo ebraico nella sua patria), dall’emblematico incipit⁵⁸, era il disperato appello lanciato da un uomo consapevole di trovarsi di fronte ad un bivio: o decollo o affossamento definitivo del sionismo.

    La prima parte, intitolata di Die Judenfrage, analizzava lo schieramento della zivilizierte Welt (l’Europa) sulla questione ebraica, non esistendo – a detta di Birnbaum – neutrali. Gli antisemiti consideravano gli ebrei «persone infami, contro di cui una qualche decisa misura precauzionale – sia la privazione dei diritti o l’espulsione – (doveva) essere adottata». I filosemiti prendevano posizione contro gli intolleranti spinti solo dal loro spirito umanitario, come fecero due millenni prima i filellèni nei riguardi dei greci. I semiti avevano versato un pesante dazio per l’ottenimento dei diritti civili (sacrificio della loro comunanza di sangue amalgamandosi nell’ambiente cristiano). Peccato – considerava – che nessun filosemita li aiutasse a stare nuovamente in piedi.⁵⁹ Gli ostinati sforzi assimilativi, «presupposto dell’accettazione nella società borghese», erano vanificati dall’Antisemitismus, più forte nei paesi in cui gli ebrei cercavano con maggiore insistenza l’integrazione. «Poiché gli antisemiti (accettavano) la nazionalità ebraica, non si riconosce(va) questa stessa e si tralascia(va) perciò che l’idea di nazionalità ancora non sporcata dalla rabbia antisemita (offrisse) la chiave per la soluzione definitiva della questione ebraica»⁶⁰.

    La seconda parte, intitolata Die jüdische Nationalitätsdee (L’idea ebraica di nazionalità), analizzava le ragioni storiche del nazionalismo ebraico, affermatosi in Occidente proprio dopo l’emancipazione civile. «Né le esortazioni dei nobili propugnatori del diritto e dell’umanità, né l’insegnamento egualitario del socialismo internazionale (avevano) dissuaso la borghesia e le grandi masse popolari dall’odio per gli ebrei». Come mai? Da un lato c’era «il rapporto numerico degli ebrei con i loro attuali fratelli statali non ebrei (…) dall’altro il fatto che non (ci fosse) alcun’istanza sul grosso, ampio pianeta, che (prendesse) le difese degli ebrei e (salvaguardasse) i loro diritti di uomini e di popolo». Non i diritti civili conquistati in alcuni paesi bensì «un’uguaglianza statuita dal diritto dei popoli»⁶¹. Non una patria per il singolo ebreo, bensì la creazione di un centro nazionale per l’intera ebraicità e per quella sua parte oltre il punto di saturazione, fonte dell’intolleranza antisemita. I beneficiari sarebbero stati le masse (salute fisica e morale a contatto con il suolo natio) e i Golusjuden (normalizzazione e punto di riferimento capace di proteggerli dall’intolleranza). Eliminata la mania d’amalgamazione, l’antisemitismo avrebbe perso la sua raison d’être, costretto anche ad affrontare le pressioni di uno stato ebraico entrato nel Concerto delle potenze mondiali.

    «Terra, terra! – In essa giace(va) il segreto della soluzione della questione ebraica». La Palestina, meta dal movimento nazional-ebraico, era preferibile alle altre perché offriva «le relativamente maggiori garanzie contro il rigetto dell’agricoltura e i recidivi (…) (rendeva possibile) il passaggio egualmente faticoso nello spirito e nel corpo da un lavoro cittadino ad uno agricolo, (perché mancava) la possibilità troppo ghiotta di tornare alle vecchie professioni ed (era) presente un forte agente morale (…)». «Sopportate, non scoraggiatevi, per aspera ad astra!»: solo nell’Oriente semita, «dove Israele è di casa, dove terra e persone corrispondono alle caratteristiche ebraiche (…) solo là il popolo ebreo (poteva) assumere il suo grosso compito messianico». Oltretutto, «la terra santa si (adattava) anche in relazione alla vicinanza con gli attuali insediamenti delle masse ebraiche indirizzatesi, al clima, alla fertilità e quantità della popolazione nell’ambito della colonizzazione»⁶².

    La terza e ultima parte, intitolata Die Kritik (La critica), considerava tutte le possibili obiezioni all’idea di rinascita territoriale dell’ebraismo. «Gli ebrei sono una nazione». Pur non possedendo un territorio, conservavano il sentimento del popolo, «il migliore argomento per la stessa qualità della nazione». «Il popolo ebraico (aveva) la forza culturale per raggiungere questo fine, per produrre un’essenza comune nazionale, per conservare e portare alla fioritura»⁶³. Nella poesia e nella scienza, nell’economia e nella politica europee s’incontravano notevoli personalità di stirpe ebraica: rifacendosi a Laharanne⁶⁴, Birnbaum sottolineava la necessità di coordinare l’esodo e di attirare l’imprenscindibile simpatia e interesse delle masse diseredate. Non un peccato contro i doveri nazionali e patriottici degli ebrei: «Il sionismo (…) è una garanzia per un onesto sentimento patriottico degli ebrei verso i singoli stati in cui vivono e per la devozione interiore ai singoli popoli in mezzo ai quali vivono». La sua vittoria avrebbe inaugurato una nuova era, in cui «gli ebrei rimasti dispersi e liberi da quell’amara sensazione di mancanza di coraggio (…) (si sarebbero potuti) porre completamente e senza ogni secondo fine al servizio della patria e della rispettiva nazione»⁶⁵.

    Lungi dallo scomparire per selezione o per evoluzione, Birnbaum riteneva gli ebrei il popolo più elastico della terra (vedi l’adattamento alle circostanze avverse e le innate capacità mediatrici). Riprendendo Laharanne⁶⁶ ed Hertzka⁶⁷, li definiva «orientali in virtù delle loro qualità ereditarie dello spirito e dell’indole, occidentali attraverso un’educazione di diciotto secoli (…) il solo mezzo adatto per la grande opera, che inizierà con la coltivazione dei popoli dell’Asia e dell’Africa e finirà con la riconciliazione delle razze di levante e di ponente»⁶⁸. Non un mero sforzo nazionalista: «la nazionalità (era) il mezzo necessario per offrire qualcosa all’umanità»⁶⁹. Un vecchio anelito rinnovato giusto in tempo: opponendosi al materialismo socialdemocratico, che intendeva espungere i concetti di patria, religione, famiglia e onore dal vocabolario umano, e utilizzando ancora Laharanne⁷⁰, Birnbaum pensava che «la nazione ebraica (potesse sviluppare) nella propria terra i suoi enormi impianti morali, cioè sociali, e (partecipare) con la stessa forza a realizzare la redenzione sociale finale dell’umanità». L’antisemitismo, «affare antico sotto nuove spoglie», era estirpabile solo con il progetto sionista. La chiusa era un appello ai buoni e ai nobili di tutte le nazioni:

    Aiutateci nella nostra grande opera di rinascita nazionale del popolo ebraico con consiglio e azione (…) Dateci il vostro sostegno morale e il ringraziamento di questo popolo così martoriato, il ringraziamento del mondo è per voi assicurato⁷¹.

    La necessità d’affermare la propria rispettabilità era dettata anche dalla piega ariana assunta dal fulcro del sionismo austriaco. Divenuta nel 1888 una schlagende Verbindung (Associazione duellante)⁷², Kadimah dovette fronteggiare più attivamente di prima il problema dell’antisemitismo accademico. «La forza dello spirito» non era più sufficiente contro «la cieca brutalità, l’aggressività di teppisti ubriachi e il barbaro trattamento riservato agli ebrei come razza di vilissimi schiavi»⁷³. Era necessario ricorrere ad uno strumento pescato nella tradizione tedesca: il mensur (duello). Nonostante le critiche di Birnbaum⁷⁴, un incontro del 1893 passò una risoluzione che faceva adottare all’associazione «un’attitudine moderatamente conservativa (derivandone) per ogni membro l’obbligo di concedere soddisfazione quando una disputa degenerata da un insulto non (potesse) essere accomodata da scuse formali»⁷⁵. Questa dichiarazione, che di lì a poco fece del duello un mero accorgimento tattico, non solo intendeva salvaguardare l’onore degli offesi e assicurarne un futuro rango professionale⁷⁶. «Sfoggiando la loro abilità nel maneggio della spada e mostrandosi pronti a tutelare l’insieme degli studenti ebrei, i membri di Kadimah avevano elevato di molto il prestigio dell’associazione anche fra quegli ebrei che inizialmente non avevano nascosto la loro freddezza verso l’ideologia sionista»⁷⁷.

    Dopo la costituzione di Zion, nell’aprile del 1893 si tenne a Leopoli il primo convegno degli ebrei nazionalisti. Birnbaum, rappresentante viennese e presidente onorario della manifestazione, ritenne che fosse giunta l’ora del partito sionista⁷⁸. Assieme a Salz, presidente del comitato esecutivo dei sionisti galiziani, organizzò a Cracovia una conferenza d’unificazione (novembre 1893). Nell’occasione furono precisati i princìpi, i mezzi d’informazione e i metodi di propaganda del neonato Verein der österreichischen Zionisten (Associazione dei sionisti austriaci), i cui cardini erano la lotta «per la rinascita della nazione ebraica e la ricostituzione della vita comunitaria ebraica in Palestina»⁷⁹. In primo luogo, fu riconosciuto il dovere «di salvaguardare gli interessi politici, sociali ed economici degli ebrei in Austria». In secondo luogo, fu richiesta «l’abolizione del sistema delle gilde in Austria», l’abrogazione del numerus clausus e l’abolizione della domenica come giorno di riposo obbligatorio per gli ebrei. Da ultimo, il consesso auspicò una partecipazione più attiva dei nazionalisti alla politica diasporica, la pubblicazione (in yiddish) di un opuscolo che illustrasse il contenuto delle riforme elettorali, e la presentazione di una petizione alle autorità che riconoscesse come alfabete le «persone che sanno leggere e scrivere in ebraico»⁸⁰.

    Le basi di un movimento sionista di massa erano state poste. Birnbaum, fuggito in Oriente alla ricerca del consenso, rimaneva fermamente convinto della necessità di convertire alla causa i tedeschi di confessione mosaica della Kultusgemeinde, perché «il fascino della Kaiserstadt esercitava ancora una notevole attrattiva sugli ebrei di provincia». A tal fine, s’interessò della Colonisationsvereine (Organizzazione colonizzatrice) e promosse associazioni culturali che combattessero «la mancanza d’idealismo degli ebrei austriaci» e coltivassero «la scienza e la coscienza ebraiche»⁸¹. Cessate le pubblicazioni di «Selbst-Emanzipation!»⁸², decise d’intensificare il suo interesse per l’attualità diasporica. «Una nuova strategia era necessaria anche a livello più generale in Austria, dove l’intensificazione dei conflitti nazionali, le varie proposte di riforma elettorale e la crisi del sistema parlamentare obbligavano i sionisti a rivedere il loro atteggiamento d’indifferenza verso la politica quotidiana»⁸³. Nonostante Eretz Israel, era necessario anteporre al «cieco fanatismo di parte» gli interessi della monarchia asburgica. In attesa di tempi migliori (consenso di massa e astensione del liberalismo), bisognava appoggiarsi su quelle forze moderate favorevoli all’eguaglianza giuridica, presentandosi, qualora si fosse presentata l’occasione, alle elezioni politiche. I tempi per la convocazione di un Congresso pansionista non erano ancora maturi.

    4. La critica sionista del materialismo storico. Die Jüdische Moderne (1896)

    Nell’attesa di condizioni favorevoli alla costituzione di un partito sionista, Birnbaum, a contatto con gli Ostjuden galiziani, si avvicinò progressivamente a problematiche di carattere socioculturale, ridimensionando, tra l’altro, il vecchio ribrezzo verso il Ghettojargon (lo yiddish). Il nuovo ebreo aveva bisogno di un movimento capace di rappresentarne le istanze di riforma socioeconomica e – fatto importante – di difenderne l’autonomia spirituale mantenendolo al riparo da ogni deviazione estremista. In quest’ottica, l’esplosione del fenomeno Herzl poteva rappresentare lo scossone in grado di smuovere gli occidentalizzati e gli ortodossi dalle loro false e vane sicurezze. Nel febbraio del 1896 fu pubblicato il suo noto pamphlet Der Judenstaat (Lo stato degli ebrei) che, riprendendo quasi specularmente – e inconsapevolmente – le tematiche di Die nationale Wiedergeburt, offrì con maggiore puntualità e precisione le condizioni della realizzazione di uno stato degli ebrei capace di superare quelle antinomie socioeconomiche acuitesi nell’età dell’emancipazione. L’ex inviato speciale parigino della «Neue Freie Presse» (Nuova stampa liberale) aveva rinunciato all’illusione integrazionista e, sulla scorta dell’affaire Dreyfus, aveva imboccato la strada nazionalterritorialista alla soluzione della questione ebraica.

    I due uomini s’incontrarono per la prima volta il 1. marzo 1896, allorquando Birnbaum, con altri sionisti, si recò a far visita all’autore dell’opuscolo che tanto aveva sconvolto l’opinione pubblica. Nell’occasione, il vecchio militante sionista si rese conto delle indiscutibili qualità carismatiche del giornalista ungherese, pur ravvisandone un certo distacco da quelle problematiche di riforma economica e di rigenerazione culturale su cui riponeva maggiore attenzione. La necessità di chiarire il significato di rinascita nazionale si stava facendo più pressante in seguito a due avvenimenti quasi contemporanei: l’affermazione dell’antisemita Karl Lueger, destinato nel 1897 ad assumere la carica di primo cittadino della Kaiserstadt; l’entusiastica ricezione dell’appello herzliano tra le associazioni studentesche nazionaliste, che salutarono la chiarezza e la concisione con cui veniva proclamata la necessità dello stato ebraico. In questo clima particolarmente euforico, Mathias Acher tenne nella sede di Kadimah una conferenza intitolata Die Jüdische Moderne (Il modernismo ebraico), considerata da molti la sua migliore esposizione delle ragioni storiche del sionismo.

    La prima parte dell’intervento si soffermava sulle convinzioni di base della soluzione assimilazionista e socialista della Judenfrage. I Sozialkonservativen (socialconservatori), che consideravano l’antisemitismo «l’ultima scintilla di vecchi pregiudizi»⁸⁴, pensavano che con la difesa condotta con le armi della logica e della ragione dall’Abwehr (associazione filantropica gentile appoggiata anche da Kadimah) fosse estirpabile il Judenhaß. Quest’utopia illuminista, capace di leggere la storia in un’ottica pura, al riparo dagli istinti e dalle emozioni delle masse, riteneva l’assimilazione il presupposto per incanalare l’ebraismo nel progresso occidentale. Sottovalutando l’importanza di una tradizione culturale plurimillenaria⁸⁵, spesso confusa con la fede monoteista, i guerrieri della ragione sembravano ignorare come ogni tentativo assimilativo fosse destinato all’insuccesso⁸⁶. Dall’altra parte, i Sozialkritiker (critici sociali), che «dichiaravano di comprendere l’antisemitismo dalle attuali relazioni economiche», ritenevano che «la questione ebraica avrebbe trovato una soluzione nella questione sociale»⁸⁷. La confutazione di questa posizione conduceva alla base del socialismo scientifico: la concezione materialistica della storia.

    «Il materialismo storico significa(va) la rimozione delle rappresentazioni trascendentali dallo studio della storia», ritenendo la materia il fattore primario e l’idea quello secondario⁸⁸. In relazione alla Judenfrage, notava che «il movimento antiebraico (…) era diventato da azione stessa, l’origine soprattutto della degenerazione degli ebrei e così ancora d’ulteriori progressi dell’antiebraicità; (…) (che) se le ragioni economiche dell’antisemitismo dovessero un giorno cessare d’operare, poi sarebbero espunte poco o molto tempo dopo anche le sue propaggine secondarie, terziarie, ecc.». Ma quando sarebbe accaduto tutto ciò? I Sozialkritiker come Bebel riponevano le loro speranze nella vicina realizzazione della società socialista. E il Judenhaß? Sarebbe anch’esso scomparso? «La natura umana – obiettava Birnbaum – non si (poteva) modificare dall’oggi al domani (…) Il vecchio mondo non si accomiaterà per sempre dopo la prima sconfitta (…) Si potrebbe attendere un millennio, finché l’umanità giunga all’ultima, incontrovertibilmente ultima caccia agli ebrei». «L’economia non (era) la base materiale della storia (…) Materia della storia dell’uomo (poteva) essere solo l’uomo stesso». «La corrente concezione materialistica della storia tralascia(va) la storia dell’uomo come essere razziale e considera esclusivamente la storia dell’uomo come essere generico»⁸⁹. Non solo era generica ed astratta, ma si lasciava andare anche ad un pericoloso ottimismo (la nota causa-effetto tra socialismo e fine dell’antisemitismo).

    Il discorso appariva avviato verso l’affermazione altrettanto riduzionistica del monismo razziale. Se l’uomo non era un essere generico, ma il risultato del proprio Volksgeist, la scomparsa dell’antisemitismo, componente intrinseca dell’homo europaeus, veniva proiettata de facto in un futuro molto lontano. In realtà, Birnbaum proseguiva evidenziando la differenza fra tre concetti chiave: stato, lingua e nazionalità, che attenuavano notevolmente il suo dogmatismo iniziale. Riallacciandosi ad una considerazione dell’ultimo Engels, in cui la lotta per l’acquisizione di un proprio spazio vitale era considerata il presupposto della liberazione internazionale⁹⁰, sottolineava sia il carattere transeunte dello Stato⁹¹ e della lingua⁹², sia quello sub specie aeternitatis della nazionalità (primato della sovrastruttura sulla struttura). L’ebraismo, carente nei confronti dei primi due (non aveva un proprio territorio e aveva ritualizzato la lingua primigenia), era una nazionalità dalle qualità razziali indiscutibili⁹³, che necessitava di una patria per eliminare l’attrito con gli altri popoli⁹⁴ e per avviare quel vasto processo di riforma socioeconomica che, lungi dal cancellare le diversità, gli avrebbe permesso di servire herderianamente la Menschheit.

    Da queste considerazioni, Birnbaum traeva due conclusioni. In primo luogo, i subjective Sozialisten (socialisti soggettivi) ebrei, che negavano o rimuovevano la loro origine, dovevano rendersi conto che le idee che predicavano (giustizia sociale, eguaglianza, fratellanza) non erano altro che la dimostrazione della loro qualità razziale⁹⁵, un aggiornamento della vecchia legge biblica «ama il prossimo tuo come te stesso», innalzata e difesa in un’età (quell’antica) caratterizzata dalla schiavitù e dalla sopraffazione dell’uomo sull’uomo⁹⁶. In secondo luogo, i sionisti dichiaravano – per riprendere Engels – che il Judenhaß era «uno strappo nazionale evitabile», eliminabile solo se il popolo ebraico fosse diventato «indipendente e padrone nella propria casa». Una patria difesa dal diritto pubblico, casa per alcuni e riferimento spirituale per altri, avrebbe «affrancato lo sviluppo sociale dell’umanità dal disturbo cronico della Judenfrage»⁹⁷. Figli dell’esigenza storica di rivendicare il proprio sentimento nazionale, i sionisti non erano né chauvinisti né socialconservatori. Non erano membri di un movimento con una semplice valenza nazionale o politico, non potendo contare su un territorio e un’organizzazione. Loro scopo principale era la conquista delle masse, non attraverso la demagogia⁹⁸, ma con un programma economico. «In questo senso il Sionismo-partito politico (die politische Zionismus-partei) (era) un’assurdità (…) Il numero dei sionisti che ne (prendevano) atto, era sempre maggiore»⁹⁹.

    La parte conclusiva della conferenza si soffermava sul lavoro di Herzl, ultimo prodotto del modernismo ebraico. Dopo un esordio polemico¹⁰⁰, Birnbaum riconosceva come anch’egli stesse lottando per l’ottenimento di una patria in cui rigenerarsi, attendere l’estinzione dell’antisemitismo e porre la parola fine alla Judenfrage. «Spirito e capitale», le armi moderne per la conquista della terra, non erano termini che esulavano dalla competenza della volontà umana, ma erano «l’enorme ammasso secolare di lavoro fisico e spirituale (…)». Perché – continuava – «se si (era) trovato sulla base di un esame di coscienza che lo sviluppo (spingeva) necessariamente verso la presa di tale terra, lo si (doveva volere), e poi (era permesso) l’affermare di aver eretto con il proprio volere le automatiche volontà della storia. Senza tale presa di coscienza non ci sarebbero in generale aspirazioni umane». Se l’uomo non era una semplice cifra, uno zero senz’alcuna importanza nel cammino storico¹⁰¹, il popolo ebraico, «geniale paria tra le nazioni», sradicato e corrotto dalla miseria, aveva bisogno solo dell’esistenza autonoma statuita dal diritto pubblico. La chiusa chiaramente ammonitrice¹⁰² sintetizzava il significato dell’intero intervento: il nuovo ebreo doveva far sua la volontà individuale in azione, respingendo lo statico determinismo predicato – a suo parere – dal materialismo storico.

    5. La critica del Parteitum e del Diplomatismus. Il sionismo come Kulturbewegung (1897-1900)

    Il momento particolarmente delicato di Birnbaum politico sionista era ravvisabile rileggendo gli eventi del 1897, l’anno della svolta del Zionismus. Coeditore della rivista berlinese «Zion»¹⁰³, diventò sempre più scettico sulla bontà dell’azione moderata di Herzl, poco propenso a sobbarcarsi sulle proprie spalle rischiose avventure elettorali¹⁰⁴. Indipendentemente da possibili gelosie personali¹⁰⁵, tra i due uomini cominciavano a frapporsi tanti e tali ostacoli (l’uno ricco e affermato giornalista noto nell’ambiente colto dell’epoca; l’altro povero pubblicista costretto a trasferirsi a Berlino per sbarcare il lunario) che ben presto avrebbero condotto verso una rottura insanabile. Ciononostante, nei mesi prima Basilea si costituì a Vienna un comitato direttivo di sionisti, composto da Birnbaum, Herzl e tre ex Kadimahianer (Schalit, Kokesch e Schnirer). Era necessario accantonare temporaneamente tutti i dissidi per creare un movimento nazionalista organizzato e centralizzato, rispondendo alle critiche dei riformati e degli ortodossi, e attirando l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale¹⁰⁶. A tale scopo, si usò con maggior circospezione l’arma della propaganda nella critica di tutti gli affossatori – più o meno volontari – del sionismo, come in occasione delle note vicende dei Protestrabbiner¹⁰⁷ e nei riguardi della colonizzazione di Hibbath Zion¹⁰⁸.

    In occasione del I Congresso di Basilea (29-31 agosto 1897), il segretario generale Birnbaum tenne un importante intervento intitolato Der Zionismus als Kulturbewegung (Il sionismo come movimento civilizzatore), nel quale, meditando sulla sua lunga militanza sionista, espresse la sua visione più matura di sionismo come movimento, innanzi tutto, di rinascita culturale. «(La necessità storica del sionismo) – esordiva – poggia(va) su due presupposti oggettivi: la particolare esistenza economica ebraica e la particolare esistenza nazionale ebraica». L’attuale nazione ebraica, sulla cui esistenza erano pronti a dubitare molti più ebrei che gentili, «si divide(va) in due parti culturalmente diverse, la più piccola, che vive(va) nella civilizzazione occidentale, e la più grossa non europea, che (era) ancora composta dagli ebrei del gergo dell’Europa orientale e dagli ebrei orientali particolari». Si trattava di due anomalie: la seconda parte possedeva «un’individualità nazionale, che si esprime(va) nei costumi e nella lingua, nella letteratura e nell’arte, nella morale e nell’usanza, nella vita religiosa, sociale e della Legge, cioè, (possedeva) una propria civilt໹⁰⁹. Questa, però, non si era più sviluppata da due millenni, con l’eccezione della Jargon-Literatur (letteratura del gergo), del Jargon-Theater (teatro del gergo) e della nuova letteratura ebraica fiorita con alcuni maskilim (seguaci dell’Haskalah). E la Zivilisation del Westjudentum?

    In secondo luogo, Birnbaum sottolineava come l’idea di un’individualità comune a tutte le nazioni occidentali fosse un’illusione¹¹⁰. Gli stessi europäisierte Juden (ebrei europeizzati) erano un’anomalia, perché, pur ritenendosi integrati in mezzo ad altri popoli, non ne accettavano né la nazionalità né la cultura, conducendo un’esistenza particolare, mancante di una propria impronta e fondata su un ideale astratto (il cosmopolitismo illuminista) in cui non credeva più nessuno¹¹¹.  Questa convinzione si riverberava in tre posizioni. Alcuni «(immaginavano) l’europeismo come una cittadinanza del mondo senza nazione, mentre era in realtà solo in loro senza nazionalità». Altri «(erano) quei poveri e ricchi ebrei il cui Dio (era) il denaro». Altri ancora erano membri di «quel movimento che imboccò una strada sbagliata per animare l’europeismo, l’assimilazione (…) che (aveva) condotto l’ebraicità occidentale verso una lacerazione del carattere che (era) ancora peggiore dell’eccesso di fantasia cosmopolita e del calcolo mammonistico». Esistevano due Judenfragen con due soluzioni differenti:

    La nostra (sionista) preoccupazione deve essere di restituire al progresso gli ebrei orientali e di rianimare negli occidentali il loro morto europeismo. Ma questo è possibile solo con la via sionista, attraverso la risollevazione della nazione ebraica a popolo di stato¹¹².

    Il Zionismus, sorto dalla «nostalgia di una vita culturale nazionale e progressiva», era l’unica possibilità di riscatto del modernismo ebraico. Lungi dal relegare l’ebraismo in un angolo sperduto del globo, intendeva offrire agli uni la possibilità di rendere fecondo lo sterile europeismo, agli altri di rimettere in moto la ruota del progresso. Solo in un territorio sovrano si sarebbero superate le due anomalie nazionali (protezione agli indigenti e un punto di riferimento spirituale ai ricchi), restituendo alla civilizzazione europea «un nuovo e certamente vecchio, orgoglioso popolo». Come movimento ebraico-nazionalista che propugnava la perfetta sintesi tra «Israele, che (aveva) pubblicizzato per quattro millenni un ineguagliabile sentimento di giustizia sociale, e la civilizzazione europea, che aveva pubblicizzato il senso della potenza statale e della bellezza della vita (…) (possedeva) in sé, come ogni grande movimento, qualcosa di profetico»¹¹³. La Palestina non era una missione della Zivilisation o della Kultur: Eretz Israel sarebbe diventata il giusto mezzo tra gli elementi social-etici e politico-estetici dell’europeismo¹¹⁴, tra l’Oriente depresso e l’Occidente evoluto¹¹⁵. La terra atavica, anche per ragioni storiche inconfutabili, non era un sogno impossibile: bastava agire, credere nell’impresa¹¹⁶.  Pur in presenza di problemi oggettivi (bassa percentuale della popolazione ebraica; l’odio pregiudiziale di molti), l’ebraismo era dotato di proverbiali qualità (intelligenza e ostinazione insuperabili), ribadite nella chiusa:

    Facciamo il nostro dovere, formuliamo le nostre volontà, proclamiamo le nostre esigenze, appelliamoci all’interesse e all’idealismo dei nostri concittadini europei, tutto il resto si troverà – la nostra Sion risorgerà, alla martoriata e umiliata Israele un luogo di redenzione e di risollevazione, alla più nobilitata civiltà europea, una nuova patria produttiva¹¹⁷.

    Dopo questo discorso, che rappresentò l’apoteosi-crepuscolo di Birnbaum come politico sionista di spicco, i nodi vennero al pettine. Una mozione presentata da Schalit, che chiedeva per il segretario generale un voto e un seggio nel comitato esecutivo, fu respinta. Eletto nell’Engeres Aktionskomitee (Comitato esecutivo ristretto)¹¹⁸, ne dovette rassegnare le dimissioni perché copriva contemporaneamente due cariche che – secondo alcuni – rischiavano di assegnargli una posizione di forza incontrastabile. Vane furono le proteste di alcuni (vedi Malz), sensibili alle necessità economiche di Birnbaum (sull’orlo dell’indigenza, sperava di ottenere un posto remunerato nel movimento). Dietro questi dissidi non si nascondevano solo screzi personali, ma anche fondati timori che il suo umore mutevole potesse compromettere l’immagine della neonata organizzazione. Oltretutto, la chiara impossibilità di aspirare a posizioni di potere al suo interno l’avrebbe portato lentamente verso una posizione d’aperta critica all’operato degli assimilati del direttivo, ignari delle reali esigenze dell’ebraismo.

    Pochi mesi dopo, Birnbaum tenne un discorso a Vienna in cui criticò i due cardini del nuovo sionismo: il Parteitum (partitocrazia) e il Diplomatismus (scienza diplomatica). Se la storia era fatta dagli uomini e non dai rapporti di produzione, la politica e la diplomazia dovevano mantenersi impersonali, estranee ad ogni distorta mania di protagonismo. «La tattica (serviva) a dipanare le resistenze delle masse (…) (mentre) la diplomazia a superare le difficoltà che s’incontra(va)no nelle personalità (altolocate)»¹¹⁹. Non esisteva una pura teoria politica da inculcare nelle masse, ma solo un programma economico concreto e realista, non fondato su una terminologia astratta e astrusa. Il sionismo, in quanto progetto di rigenerazione totale («non potrà mai arrivare il momento in cui scaccerà fanaticamente dal suo tempio la scienza»¹²⁰, affermava orgogliosamente), non era un semplice partito politico, né un pezzo di terra colonizzato. Era il tentativo di salvare una nazione morente ergendo un nuovo ebreo redento e redentore. Tre erano le necessità improrogabili: maggiori informazioni sulla Palestina, uomini che conoscessero a fondo la miseria socioeconomica che attanagliava tre quarti dell’ebraismo europeo e, last but not least, un capo-scienziato che guardasse al mondo come un’artista¹²¹, estraneo alle degenerazioni soggettive e dotato del giusto carisma¹²².

    Abbandonata la carica di segretario generale (1898), Birnbaum si stava allontanando anche dall’idea di sionismo come politische Partei che nei primi anni Novanta aveva sostenuto con tanto ardore. Proprio nel momento in cui si realizzava, sembrava aver perso d’ogni importanza. Riprendendo i moniti lanciati in Die Jüdische Moderne, si tuffava nella scoperta di quella Kultur ebraica precedentemente sottovalutata (soprattutto le espressioni yiddish). Il volgere del secolo segnò il suo ritorno ad una forma meditata di nazionalismo: quella che avrebbe chiamato Alljudentum (Panebraismo¹²³). Si trattava di un Nazionalismo non-Sionista che non era, però, antisionista, ma solo contrario alla «diplomazia della carta dei diritti (herzliana)»¹²⁴. Ispirandosi ad altri pensatori ebrei (i russi Dubnow, Zhitlovsky e gli austriaci Renner e Bauer), proponeva l’idea di un centro accanto all’altro, ossia di una perfetta simbiosi tra diaspora e Palestina. Nella prima sarebbero rimasti gli assimilati animati dal vivo europeismo e tutti coloro che non correvano rischi fisici immediati; nella seconda sarebbero immigrate le eccedenze. Nella prima l’ebraismo avrebbe cercato di costruirsi una propria autonomia nazionale; nella seconda una statale. Nella prima si sarebbero rivalutate le genuine forme culturali prodotte dopo il secondo Tempio; nella seconda si sarebbe cercato di ricreare una lingua ebraica scritta e parlata. Il fine: assicurare la sopravvivenza della nazione ebraica, minata da pericoli spirituali (nichilismo assimilazionista) e materiali (odio per gli ebrei) derivanti dalla sua anomala posizione nel concerto delle potenze mondiali.

    6. «Israel geht vor Zion». Il concetto di jüdische Renaissance-Bewegung (1902-1907)

    Al volgere del secolo Birnbaum si convinse della possibilità che «i fattori demografici, socioeconomici, culturali e politici che avevano provocato la disgregazione dell’identità ebraica in Occidente non opera(ssero) nei confronti degli Ostjuden»¹²⁵. Pur estranei alla Zivilisation e sottoposti a continue discriminazioni, conservavano una forte coscienza nazionale e le loro tradizioni, prima fra tutte la letteratura yiddish. In sostanza, la loro sopravvivenza prescindeva da ogni recrudescenza dell’odio per gli ebrei. Se un tempo era stato giudicato con una certa benevolenza¹²⁶, adesso non andava più ritenuto il deus ex machina del nazionalismo ebraico, opinione di molti occidentali¹²⁷. Se la sua forza non andava sottovalutata, non era nemmeno necessario sopravvalutarne l’importanza con cause metastoriche (il principio della razza). Per queste ragioni, al posto del vecchio e consunto Zionismus (ormai solo un partito avversario degli antisemiti), era necessario una jüdische Renaissance-Bewegung (movimento ebraico di Rinascimento)¹²⁸. La meta: rivalutare «la corrente della cultura attuale ebraica, dell’idea attuale ebraica (presente negli Ostjuden) (…) (che) scorrerà ancora se l’attuale baccano sarà da tempo passato e se condurrà il popolo ebraico alle sue mete insieme con la grossa corrente dello sviluppo generale dell’umanità – senza essere guidato sull’acquitrino sionista o sul ruscelletto antisemita»¹²⁹.

    Il progressivo riflusso sionista si era tradotto, da un lato, in un impegno politico più serrato nell’attualità diasporica, dall’altro nella messa sotto accusa dei fondamenti del partito herzliano. Sul primo punto, «Birnbaum si era convinto che, per gli Ostjuden, la possibilità di ottenere l’autonomia culturale-nazionale era aumentata per effetto della crisi politica che scuoteva la struttura multinazionale dell’impero russo e di quello asburgico»¹³⁰. La soluzione federalista poteva salvare l’integrità di entrambi: nei programmi elettorali di alcuni partiti politici ebraici e di altre minoranze dei due imperi fu inserita l’idea dell’autonomia nazionale. In occasione delle elezioni politiche del 1907, i tre candidati sionisti galiziani sarebbero stati eletti grazie ad accordi stipulati con gli ucraini di Romanchuk, anch’essi convinti sostenitori della teoria autonomista¹³¹. Questo successo dimostrava anche come buona parte degli ebrei orientali avesse respinto le lusinghe del materialismo socialdemocratico, riconoscendosi come un gruppo etnico separato non disposto ad accettare supinamente l’assimilazionismo occidentale e il nazionalismo dialettico del Bund¹³².

    Assunte le vesti di osservatore neutrale, Birnbaum intraprese una lunga crociata contro i fondamenti ideologici dei sionismi (politico, spirituale e pratico). La vera soluzione della Judenfrage non risiedeva nel denaro dei borghesi assimilazionisti («ebrei che non vogliono più esserlo»), né tantomeno negli accordi diplomatici dei politicanti («assimilati che cercano di eliminare la Galuth»). Tre diventavano le strade percorribili: «la lotta per lo sviluppo economico e politico dell’umanit໹³³, la comprensione dei reali bisogni delle masse e la Gegenwartsarbeit. Il nuovo ebreo necessitava di un movimento nazionalista che ne salvaguardasse e valorizzasse tutte le espressioni della Kultur, non dimenticando di reintrodurne l’unico portatore (l’Ostjudentum) nel cammino del progresso occidentale (Zivilisation). La necessità di conciliare Wiedergeburt (rinascita) e Renaissance (Rinascimento) era ribadita in Die jüdische Renaissance-Bewegung (Il movimento ebraico di Rinascimento, 1902). Alla vecchia idea di Neue Cours subentrava quella di Neue Entwicklung (nuovo sviluppo). Rivalutando le parti vive della cultura popolare, come la lingua («base della forza della bellezza, della particolarità e dello spirito»)¹³⁴, la letteratura e un sentimento patriottico genuino, il movimento nazionalista diventava qualcosa di più che un semplice schieramento politico. Era una vera e propria Weltanschauung, rottura non necessariamente materiale con il passato, e ideale in cui credere e per cui profondere tutte le proprie energie¹³⁵.

    In occasione del pogrom di Kishinev (aprile 1903), il cinico Birnbaum intervenne nella polemica tra i territorialisti e i palestinocentristi¹³⁶ riaffermando il suo progetto di rinascita, innanzi tutto, spirituale. In Die jüdische Bewegung (Il movimento ebraico, 1903) criticò la posizione del russo Achad Ha’am, imperniata sulle idee di centro spirituale in Eretz Israel, e d’educazione e morale nazionali¹³⁷. Pur concordando sulla priorità di un jüdische Staat (stato ebraico) su un herzliano Judenstaat (stato degli ebrei), non era affatto convinto che la diaspora fosse un processo unitario (vedi i due ebraismi), né che fosse da condannare e disprezzare in toto (vedi i rilevanti prodotti della cultura yiddish). La jüdische Renaissance-Bewegung, che «non si radica(va) nell’idea di Golus, ma in una forza operante nell’anima del popolo ebraico che non si ritira(va) dalla scena del mondo»¹³⁸, intendeva proclamare l’Auferstehung (risurrezione) del Volkstum ebraico con l’idea di un centro accanto all’altro. Solo con la collaborazione tra due queste diverse e sinergetiche realtà era possibile assicurare l’esistenza materiale dei più martoriati e offrire un punto di riferimento spirituale ai ricchi assimilabili. All’esautorato partito sionista, doveva subentrare un movimento capace di operare con la stessa determinazione hier und dort (qui e là), in Europa come in Palestina, in ambito spirituale come in ambito socioeconomico¹³⁹:

    Il movimento ebraico (die jüdische Bewegung) è un’organizzazione naturale che dal basso verso l’alto, senza sbalzi, senza piani poco ragionevoli, edifica (…) (che richiede) nessuna parata, ma lavoro! Nessun gioco di partito, ma il popolo – con le armi della sua forza e dello spirito¹⁴⁰.

    Riallacciandosi a considerazioni fatte all’epoca dei Protestrabbiner (1897), Birnbaum attaccò in modo spietato la colonizzazione della fazione pratica. In Methodisches zur Palästinafrage (Metodica per la questione palestinese, 1903) criticò le infiltrazioni dei sionisti russi, incapaci di attirare il consenso dei loro connazionali e delle potenze internazionali¹⁴¹. Questa «farsa comica» impediva la realizzazione del centro ebraico in Palestina, attirandosi solo il dissenso dei filantropi e aumentando le ostilità turche. Era necessario affidarsi ad esperti agronomi, geologi e geografi che analizzassero i territori da colonizzare. In Palästinaarbeit (Lavoro palestinese, 1903) e Palästinawerk (Opera palestinese, 1906) ribadiva la necessità della programmazione e il rigetto di ottimistiche previsioni capaci solo di invogliare una nuova attesa ex caelo. Il denaro e le reminiscenze romantiche non erano sufficienti a garantire il successo dell’impresa¹⁴². Bisognava sensibilizzare le autorità competenti e le masse, che continuavano a preferire l’America, con un’oculata propaganda. Inoltre, era necessario aprire in loco un ufficio che si occupasse di smistare i coloni, impedendo concentrazioni come quelle di Haifa e di Gerusalemme, che coordinasse l’acquisto dei terreni e degli immobili, e che promuovesse iniziative culturali.

    Sugli sterili negoziati intavolati da Herzl e dai politici, Birnbaum non perdeva occasione di manifestare il suo dissenso. In Zum letzten Zionskongress (Per l’ultimo congresso sionista, 1903) mise in risalto il rifiuto dello schema Uganda da parte dei delegati russi che, pur colpiti in prima persona dai pogrom, non si accontentavano di un Nachtasyl (asilo per la notte)¹⁴³, ma attendevano il focolare in Palestina. I principi del Parteitum e del Diplomatismus, affermati anche da Mizrahi¹⁴⁴, non rappresentavano due sviluppi positivi per un movimento che, per sua stessa ammissione, si professava idealistico. Già in Methodisches zur Palästinafrage non aveva mancato di sottolineare tutta la sua delusione e la sua miopia di fronte alla politica, in cui ammetteva di aver compiuto errori imperdonabili¹⁴⁵.

    Questa critica sistematica dei sionismi fu sintetizzata nell’opuscolo Zur Kritik des politischen und kulturellen Zionismus (Per la critica del sionismo politico e culturale, 1905). Opponendosi alla visione negativa con cui entrambi condannavano la Galuth¹⁴⁶, Birnbaum riaffermò la necessità che l’esilio fosse accettato come una realtà definitiva, e che il principio della Gegenwartsarbeit fosse anteposto ad astratti progetti di stato politico e centro culturale. La fazione politica, affidandosi alla Zivilisation, riteneva possibile una Palestina con più di tre quarti dell’ebraismo mondiale, affidandosi ad alcuna sistemazione economica e urbanistica. La fazione culturale pensava che solo un centro in Eretz Israel fosse garante di una cultura viva¹⁴⁷. «Ma la storia – si chiedeva – non (aveva) dimostrato che il centro non (era) necessario? Non dimostra(va) che la molteplicità delle culture (era) meglio dell’uniformità?». Gli unici modi per risolvere le antinomie della modernità erano una posizione politica pienamente riconosciuta e neutrale, che rendesse la vita di tutti gli indigenti più sopportabile, e una giusta valorizzazione degli ideali culturali. Queste richieste di morigeratezza facevano d’anticamera alla chiusa, indiscutibilmente una delle frasi più emblematiche del suo pensiero:

    Israele viene prima di Sion (Israel geht vor Zion). Sion stessa non può, senza quest’ammissione, essere raggiunta. Questo punto dovrebbe essere preso in considerazione prima che Israele affondi nel fanatismo solenne e senza meta dei suoi figli, che Sion diventi un’impotente e grande compagna della sua illusione!¹⁴⁸

    Il riflusso sionista era proseguito di pari passo con la scoperta dei Schacherjuden (Ostjuden dediti al commercio al minuto e ambulante stereotipati dall’iconografia dell’epoca). Poveri, dimenticati dalla Zivilisation e ferventemente attaccati alle tradizioni religiose e allo yiddish, incarnavano il Volksgeist e la vera Kultur ebraici. La conversione di Birnbaum coincideva con la crisi del Zionismus: l’Organizzazione, come già quelle studentesche viennesi, era stata cooptata dagli assimilati Westjuden, estranei, per lo stessa detta, all’ebraismo. In Das Westjüdische Kulturproblem (Il problema culturale ebraico occidentale, 1904) il pubblicista criticava pesantemente il tentativo occidentale di introdurre gli orientali nella Zivilisation, chiedendone in cambio la rimozione del loro retaggio. I Westjuden erano convinti dell’inesistenza di caratteristiche spirituali a priori e della forza illuminante della ragione. Ignoravano quelle differenze etniche e culturali con le popolazioni ospitanti dimostrate dall’esperienza¹⁴⁹. «Non (era) possibile – si chiedeva – che l’emancipazione e l’assimilazione (venissero) in aiuto dell’ostinazione del particolare? (…) Il nazionalismo politico (poteva) riportare il Westjudentum alla Judenheit?»¹⁵⁰. Il Rinascimento ebraico esigeva una collaborazione tra gli ebraismi dei diversi paesi. Gli occidentali dovevano conoscere realmente gli orientali del Jargon, onde evitare d’alimentare uno sterile nazionalismo¹⁵¹.

    Il dilemma tra Weltbürgertum e Volkstum, tra Zivilisation e Kultur, era superabile solo con una sintesi finale. Fondamentale era il supporto dei reali custodi dell’anima ebraica, piattaforma di lancio per ogni progetto di rinascita. In una conferenza tenuta a Czernowitz nel 1905, Birnbaum ribadiva come i Westjuden, che «dell’ebraismo non (avevano) nient’altro che il legame storico e qualcosa di razziale, oltre ad una piccola peculiarità dello spirito e del temperamento»¹⁵², potessero essere aiutati dagli Ostjuden, «che conserva(va)no una stessa lingua, interessi culturali, modi di vita, letteratura e scrittori»¹⁵³. I primi avrebbero rianimato il loro morto europeismo, mentre i secondi, incamminati sulla via del progresso, necessitavano solo di un’organizzazione politica rappresentativa. Le due lingue ebraiche dovevano diventare le sole della Galuth: la prima, lingua dell’antichità, presentava interessanti sviluppi in Palestina, dove si potevano costruire scuole e centri culturali capaci di rieducare gli immigrati ex diaspora. La seconda, gergo medievale, rappresentava il passato ed il futuro dell’ebraismo disperso, l’avrebbe condotto verso un punto di svolta del destino nazionale, una seconda più concreta emancipazione. «Nel suo sviluppo si nasconde(va) lo sviluppo organico del futuro, non la sua costruzione meccanica: lo yiddish (jüdisch) non (seguiva) nessun sentiero intricato di un sogno, ma la via della vita! Una vita! Andiamo a lei!».¹⁵⁴

    Dopo aver riproposto i temi dell’alienazione occidentale in Zum westjüdischen Kulturproblem (Per il problema culturale ebraico occidentale, 1904), Birnbaum concludeva questi scritti sulla Judenfrage con Etwas über Ost- und Westjudentum (Qualcosa sull’ebraismo orientale e occidentale, 1904-1905). «Da un lato (c’erano) gli ebrei con sviluppo civilizzato e decadenza ebraica culturale dall’età della cosiddetta emancipazione. Dall’altro quelli che dimostrava(no) una vita culturale stagnante e ancora in progresso, e un desiderio di civilizzazione europea da poco penetrata. Gli uni (erano) caratterizzati dall’uso delle lingue occidentali e mitteleuropee, gli altri dall’idioma yiddish»¹⁵⁵. Il rapporto Kultur-Zivilisation (l’una più angusta e profonda, l’altra più generale;

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