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Roma, Bisanzio, Mosca: Le concezioni di "impero" e di "popolo di Dio" nello sviluppo culturale dell'Europa orientale
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Roma, Bisanzio, Mosca: Le concezioni di "impero" e di "popolo di Dio" nello sviluppo culturale dell'Europa orientale
E-book304 pagine4 ore

Roma, Bisanzio, Mosca: Le concezioni di "impero" e di "popolo di Dio" nello sviluppo culturale dell'Europa orientale

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Info su questo ebook

Gli antichi romani pensavano che, grazie alla qualità ideale del loro ordinamento giuridico, potessero mirare a realizzare una comunità umana universale. Anche i cristiani, avendo ricevuto un mandato da parte di Dio di riunire tutti gli uomini in un solo popolo, si trovavano con una missione universale in questo mondo. Come coordinare queste concorrenti pretese di universalità da parte dell’Impero e della Chiesa?
In questo libro, il bizantinista Endre von Ivánka affronta questa domanda esaminando differenti concezioni di “impero” e di “popolo di Dio” in tre epoche storiche: la prima dall’ascesa dell’imperatore Augusto fino alla caduta dell’Impero d’Occidente nel 476; la seconda dall’affermarsi dell’Impero Bizantino fino alla sua caduta nel 1453. L’ultima considera gli sviluppi all’interno dell’ortodossia russa fino alla Rivoluzione d’ottobre.
Secondo von Ivánka, le importanti differenze tra cattolici e ortodossi nella concezione del rapporto tra Chiesa e Stato sono da ricondurre più a fattori storici che a eventuali influssi culturali sui bizantini, estranei alla tradizione europea. Alcuni importanti eventi storici degli ultimi due secoli potrebbero inoltre accendere la speranza di un riavvicinamento dei due ambiti culturali e religiosi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2022
ISBN9788838252075
Roma, Bisanzio, Mosca: Le concezioni di "impero" e di "popolo di Dio" nello sviluppo culturale dell'Europa orientale

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    Roma, Bisanzio, Mosca - Endre Von Ivanka

    ENDRE VON IVÁNKA

    Roma, Bisanzio, Mosca

    Le concezioni di impero e di popolo di Dio nello sviluppo culturale dell’Europa orientale

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Titolo originale dell’opera

    Endre von Ivánka, Rhomäerreich und Gottesvolk: das Glaubens-, Staats- u. Volksbewußtsein der Byzantiner und seine Auswirkung auf die ostkirchlich-osteuropäische Geisteshaltung © 1968 Karl Alber Verlag part of Verlag Herder GmbH, Freiburg im Breisgau

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN Edizione cartacea 978-88-382-4832-0

    ISBN Edizione digitale 978-88-382-5207-5

    ISBN: 9788838252075

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    1. Vita e opera di Endre von Ivánka

    2. Il rapporto tra Chiesa e Stato in Schmitt, Peterson e Schlier

    3. Il rapporto tra Chiesa e Stato in von Ivánka

    4. Von Ivánka e l’ecumenismo

    5. Per la presente traduzione

    PREFAZIONE

    I. IL PUNTO DI PARTENZA: L’UNIVERSALISMO ROMANO E CRISTIANO

    1. L’eredità romana

    2. L’ideale di Roma nella tarda antichità: interpretazioni e formulazioni

    3. Eusebio di Cesarea e la consacrazione dell’«impero di Roma» a «popolo di Dio»

    II. LA NASCITA E LO SVILUPPO DELLA CULTURA BIZANTINA

    1. Lo sviluppo storico della polarità fra Occidente europeo e Oriente bizantino

    2. Tratti dello sviluppo dell’Occidente e di Bisanzio

    3. Retrospettiva

    4. La caduta di Costantinopoli

    III. GLI SVILUPPI SUCCESSIVI ALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

    1. La Santa Russia

    2. Rajah e Millet

    3. Il Raskol – lo scisma dei Vecchi Credenti

    4. Formazione culturale ed educazione in Europa Orientale dopo la caduta di Bisanzio

    5. L’occidentalizzazione rivoluzionaria e la tradizione religiosa e nazionale

    6. L’ecclesiologia della comunità: «il popolo portatore di Dio»

    7. La situazione attuale

    APPENDICE

    AUTORE

    BIBLIOGRAFIA

    Fonti

    Letteratura critica

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    183.

    Religione e Società

    ENDRE VON IVÁNKA

    ROMA, BISANZIO, MOSCA

    Le concezioni di impero e di popolo di Dio nello sviluppo culturale dell’Europa orientale

    A cura di Michael Konrad

    Traduzione di Ida Soldini

    Questo ebook è protetto da Watermark e contiene i dati di acquisto del lettore: Nome, Cognome, Id dell'utente, Nome dell'Editore, Nome del Content Supplier che ha inserito l'articolo, Data di vendita dell'articolo, Identificativo univoco dell'articolo. Identificativo univoco della riga d'ordine.

    È vietata e perseguibile a norma di legge l'utilizzazione non prevista dalle norme sui diritti d'autore, in particolare concernente la duplicazione, traduzioni, microfilm, la registrazione e l’elaborazione attraverso sistemi elettronici.

    INTRODUZIONE

    1. Vita e opera di Endre von Ivánka

    Endre von Ivánka nasce il 24 settembre 1902, a Budapest, in una famiglia della nobiltà ungherese. Dopo un anno di studio di teologia a Vienna e uno a Roma, torna a Vienna per dedicarsi allo studio della filologia classica e della storia [1] . Nel 1926 consegue a Vienna un dottorato sulla filosofia pratica di Aristotele con il prof. Hans von Arnim. Nel 1933 infine conclude i suoi studi con una abilitazione nell’ambito della filosofia antica a Budapest.

    Dal 1941 al 1944 insegna Filologia classica all’università di Cluj (oggi Romania). Nel 1945 viene chiamato all’università di Vienna e nel 1947 accetta una cattedra di Filologia classica presso l’università di Graz, dove, a partire dal 1961 e fino al suo pensionamento avvenuto nell’anno 1969, insegnerà Filologia bizantina. Von Ivánka muore il 6 dicembre 1974 a Vienna.

    Durante la sua vita, Endre von Ivánka ha pubblicato numerosissimi articoli su diverse riviste e anche tre monografie importanti: Hellenisches und christliches im frühbyzantinischen Geisesleben, Herder, Wien 1948 [2] ; Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Johannes, Einsiedeln 1964 [3] ; Rhomäerreich und Gottesvolk. Das Glaubens-, Staats- und Volksbewußtsein der Byzantiner und seine Auswirkungen auf die ostkirchlich-osteuropäische Geisteshaltung, Alber, Freiburg 1968. Dopo la sua morte è stata editata una raccolta di suoi saggi sotto il titolo Aufsätze zur byzantinischen Kultur, Hakkert, Amsterdam 1984 [4] .

    Qui si offre la traduzione italiana di Rhomäerreich und Gottesvolk. Das Glaubens-, Staats- und Volksbewußtsein der Byzantiner und seine Auswirkungen auf die ostkirchliche-osteuropäische Geisteshaltung. In questo testo del 1968 von Ivánka analizza lo sviluppo storico dell’idea romana di «impero» e dell’idea di «popolo di Dio». Attraverso la storia di questi due concetti von Ivánka illustra il mutevole rapporto tra Chiesa e Stato durante gli ultimi duemila anni, con particolare riguardo al mondo orientale. Egli suddivide questo periodo in tre epoche: il primo capitolo analizza l’epoca che va dall’imperatore Augusto fino alla fine dell’impero occidentale nel 476, il secondo si concentra sugli sviluppi interni all’impero bizantino fino alla sua caduta nel 1453 e il terzo esamina gli sviluppi all’interno dell’ortodossia russa fino alla Rivoluzione d’ottobre del 1917.

    Von Ivánka sostiene che occidente e oriente partono sostanzialmente da una concezione comune del rapporto tra Chiesa e Stato. Secondo lui, le importanti differenze odierne nella concezione del rapporto tra le due comunità sono da ricondurre più a fattori storici che a eventuali influssi culturali estranei alla tradizione europea sui bizantini.


    [1] Per una breve biografia di Endre von Ivánka cfr. F.F. Schwarz, Endre von Iv á nka †, in «Gnomon» 47, 1975, pp. 430-432; H. Hunger, Endre von Iv á nka, in «Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik», 24, 1975, pp. 337-339; A. Kernbauer, Endre von Ivanka (1947-1969), in W. Höflechner (a cura di), Beiträge und Materialien zur Geschichte der Wissenschaften in Österreich. Klassische Philologie in Graz, Habilitationen an der Grazer Philosophischen Fakultät, Einrichtung der Germanistik-Lehrkanzeln, Briefe Adlers an Meinong, Zur Grazer Studentengeschichte, Akademische Druck-und Verlagsanstalt, Graz 1981, pp. 258-262; E. Peroli, Endre von Iv á nka (1902-1974) e la sua produzione scientifica, in E. von Ivánka, Platonismo cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. XXXI-XLII.

    [2] Trad. it., Bisanzio. Luogo d’incontro tra pensiero greco e fede cristiana , Lateran University Press, Roma 2016.

    [3] Trad. it., Platonismo Cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica , Vita e Pensiero, Milano 1992.

    [4] Una bibliografia completa di von Ivánka si trova in E. Peroli, Endre von Iv á nka (1902-1974) e la sua produzione scientifica , in E. von Ivánka, Platonismo cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica , Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. XXXI-XLII.

    2. Il rapporto tra Chiesa e Stato in Schmitt, Peterson e Schlier

    Il testo di von Ivánka non è soltanto di interesse storico, ma arriva anche a delle preziose conclusioni sistematiche. Esso non offre cioè solo delle informazioni sulla solitamente poco conosciuta storia dell’impero bizantino e russo, ma offre dei giudizi precisi sul complesso rapporto che esiste tra la fede cristiana e la politica in generale.

    Per comprendere l’importanza sistematica e l’originalità del libro di von Ivánka conviene tener conto del contesto prossimo della storia del problema trattato. Il libro si inserisce in una vivace discussione sull’adeguata comprensione del rapporto tra Stato e Chiesa che si sviluppò in Germania negli anni Trenta. Due autori soprattutto furono famosi per le loro tesi contrastanti. Il primo è Carl Schmitt, il cui scritto Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità sembrava offrire una giustificazione teologica del regime autoritario di Hitler [1] . Il secondo è invece Erik Peterson il quale, nel suo scritto Il monoteismo come problema politico, negò categoricamente la possibilità di appellarsi alla fede per poter giustificare qualsiasi tipo di regime politico [2] .

    Carl Schmitt

    Il giurista Carl Schmitt afferma che esiste un nesso molto stretto tra la politica e la teologia. La fede di ogni popolo si rispecchia sempre nella sua modalità di organizzare la società. Nella sua opera Teologia politica, la cui prima edizione vide la luce già nel 1922, sostiene che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» [3] . Il concetto di sovranità si applica così da una parte a Dio che è sovrano perché sta sopra le leggi di natura, e dall’altra anche a quel supremo potere politico che possiede il diritto di prendere delle decisioni in un eventuale stato d’emergenza nel quale le leggi normali non vengono più considerati vincolanti. Rousseau, per fare un altro esempio, applicava al sovrano politico le principali qualità di Dio: egli può fare ciò che vuole, ma non può volere il male; tutto ciò che vuole è automaticamente bene; non si può mai criticare le decisioni di un sovrano.

    Schmitt utilizzò la tesi di uno stretto rapporto tra concetti teologici e politici per criticare la società liberale e tecnocratica: essa parte da un concetto troppo debole di Dio. Nei loro confronti preferisce decisamente impostazioni come quella di Juan Donoso Cortés. Costui ritiene che il liberalismo democratico sia incompatibile con la fede cattolica perché nega, se pensato fino alle sue ultime conseguenze, che la fede in Dio possa giocare un ruolo nella legislazione umana. Egli scrive infatti: «La teoria della sovranità costitutente del popolo è di natura atea, e sta nella scuola liberale soltanto come l’ateismo sta nel deismo, come conseguenza lontana, quantunque inevitabile» [4] . Schmitt condivide pienamente tale impostazione.

    Come il liberalismo, in ogni occasione politica, discute e transige, così esso potrebbe risolvere in una discussione anche la verità metafisica. La sua essenza consiste nel trattare, cioè in una irresolutezza fondata sull’attesa, con la speranza che la contrapposizione definitiva possa essere trasformata in un dibattito parlamentare e possa così venire sospesa per mezzo di una discussione eterna. La dittatura è l’opposto della discussione. È proprio del decisionismo dello spirito di Cortés di fare riferimento sempre al caso estremo, di attendere l’ultimo tribunale [5] .

    Nel 1933 Carl Schmitt aderisce al partito nazionalsocialista e diventa presidente dell’Unione dei giuristi nazionalsocialisti. Quando nel 1934 pubblica nuovamente la Teologia politica le sue tesi vengono interpretate come una giustificazione del regime autoritario di Hitler su base teologiche.

    Erik Peterson

    In risposta al giurista Schmitt il teologo Erik Peterson ripubblica nel 1935 due contributi, già precedentemente apparsi, ormai riuniti in un unico volume dal titolo Il monoteismo come problema politico. In questo testo nega la possibilità di una teologia politica nell’ambito del cristianesimo. Peterson esemplifica le sue idee con il pensiero dei padri della Chiesa, criticando in particolare quelli che videro nell’impero Romano una provvidenziale corrispondenza con la fede cristiana. Molti padri vedevano infatti nel superamento della divisione tra le nazioni da parte dell’impero Romano a partire da Augusto uno sviluppo provvidenziale per la diffusione del cristianesimo. Peterson accusa il vescovo Eusebio di Cesarea di essere all’origine dell’idea patristica che Dio possa entrare nella storia pagana ed usarla per i suoi fini. Per Eusebio di Cesarea il connubio tra storia romana e cristianesimo trova il suo culmine nella figura dell’imperatore Costantino, che assume lui stesso la fede cristiana. Secondo Eusebio, il principale ideologo dei cesaropapisti, Costantino stesso avrebbe imitato «... attraverso la sua monarchia, la monarchia divina. All’unico re sulla terra corrisponde l’unico re in cielo e l’unico nómos e Lógos sovrano» [6] .

    Per Peterson tale identificazione della fede cristiana con una precisa costellazione politica riposa però su una teologia riduttiva, più precisamente sull’eresia ariana, che, rifiutandosi di riconoscere al Figlio la natura divina, vede nel cristianesimo solo una forma di monoteismo. Gli ariani si servono dell’idea di un unico Dio per giustificare l’idea di un unico imperatore.

    Si comprende così, come fosse un urgente interesse politico a spingere in un primo momento gli imperatori dalla parte degli ariani, e come, d’altro canto, gli ariani dovessero diventare i teologi della corte bizantina. La dottrina ortodossa della Trinità minacciava seriamente la teologia politica dell’Impero romano [7] .

    Peterson considera pertanto più ortodossa la posizione di Gregorio di Nazianzo. Costui sottolinea che la monarchia divina nel cristianesimo è una monarchia trinitaria, che non possa trovare una precisa corrispondenza su livello politico. Non si dà una «teologia politica» cristiana.

    Soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere qualcosa come una teologia politica. Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana. Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui il quale è più alto di ogni ragione [8] .

    Con tale tesi Peterson è un avvocato di una decisa de-politicizzazione della Chiesa, sottolineando in modo luterano la necessità di una radicale separazione della Chiesa dallo Stato.

    Se in Schmitt si trova la tendenza a identificare politica e fede, riducendo cioè da una parte la politica a un epifenomeno della fede e rischiando dall’altra di usare la fede per giustificare delle posizioni politiche, in Peterson si riscontra il rischio opposto, cioè di non voler vedere nessun nesso tra fede e politica. Nella sua impostazione la fede non ha nessun titolo per giustificare, ma neanche per criticare l’operato del potere mondano – o meglio, non si può distinguere tra una politica buona e una politica cattiva. Tutto l’operato politico è cattivo. Se Dio non può entrare nella storia mondana, non ha senso criticare la politica dal punto di vista della fede.

    Heinrich Schlier

    Meno conosciuto di Schmitt e Peterson, ma forse più equilibrato nelle sue tesi, è l’esegeta Heinrich Schlier, che scrisse negli stessi anni un breve articolo dal titolo Lo Stato nel Nuovo Testamento [9] . Schlier esprime il rapporto tra Chiesa e Stato con tre affermazioni che sembrano paradossali, ma che offrono il quadro adeguato per comprendere la situazione del cristiano nel mondo.

    La prima tesi sottolinea che il cristiano in questa terra è uno straniero, un pellegrino, la cui vera patria è altrove. Con san Paolo ripete: «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20). Questa tesi anti-utopica implica una certa svalutazione o relativizzazione dell’appartenenza nazionale. Il cristiano non può sperare che la politica gli procuri la felicità o la salvezza.

    Schlier sostiene in secondo luogo che il cristiano, anche se non pone la sua speranza nella politica, obbedisce comunque alle autorità civili non solo per motivi di convenienza, ma per motivi di coscienza. Obbedendo all’autorità politica si obbedisce a Dio. «Non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13,1). Dio vuole che il cristiano collabori al bene della comunità civile. L’obbedienza nei confronti dell’autorità politica è in tal senso espressione della fede nella bontà di Dio Padre. Il cristiano accetta generalmente la situazione del mondo così come la ritrova, perché sa che creatore e reggitore del mondo è ultimamente Dio.

    In terzo luogo, Schlier rileva che il cristiano è però anche consapevole che l’autorità politica talvolta si oppone alla volontà di Dio. Anche l’anticristo opera nel mondo. L’obbedienza del cristiano non si ferma perciò nell’ascolto dell’autorità terrena, ma egli cerca sempre di fare la volontà di Dio. L’obbedienza nei confronti dei politici è dunque sempre un’obbedienza critica, che tiene conto del primato della coscienza personale come luogo primario dove può riconoscere la volontà di Dio.

    Per Schlier, il rapporto tra Chiesa e Stato si rivela pertanto in una certa complessità. Proprio in nome della sua fede, il cristiano è chiamato a impegnarsi per il bene comune della sua nazione, a lottare per una società più giusta, ma nel contempo egli deve sempre rimanere cosciente del fatto che nell’ambito politico non si trova la parola definitiva sulla giustizia e che in questa terra non si può realizzare il Paradiso.


    [1] C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München 1922 (trad. it., Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86).

    [2] E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Hegner, Leipzig 1935 (riedito in Theologische Traktate , Kösel, München 1951, pp. 45-147; trad. it., Il monoteismo come problema politico , Queriniana, Brescia 1983)

    [3] C. Schmitt, Teologia politica , cit . , p. 61.

    [4] J. Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo , Il Cerchio, Rimini 2007, p. 176.

    [5] C. Schmitt, Teologia politica , cit., p. 83.

    [6] E. Peterson, Il monoteismo , cit., p. 60.

    [7] Ibid ., p. 70.

    [8] Ibid ., p. 72.

    [9] H. Schlier, Die Beurteilung des Staates in Neuen Testament , in «Zwischen den Zeiten», 10, 1932, pp. 312-330 (riedito in Die Zeit der Kirche. Exegetische Aufs ätze und Vorträge , Herder, Feiburg 1955, pp. 1-16; trad. it., Lo Stato nel Nuovo Testamento , in Il tempo della Chiesa , Il Mulino, Bologna 1965, pp. 3-26).

    3. Il rapporto tra Chiesa e Stato in von Ivánka

    Il testo di von Ivánka offre, come già detto, anzitutto un percorso storico che indaga lo sviluppo dell’idea d’impero e quella di popolo di Dio lungo i secoli. Egli cerca la sintesi, indaga cioè i nessi tra i diversi avvenimenti, tra i diversi tipi di pensiero, per inserirli e giudicarli in un contesto più grande. È forse proprio questo il punto di maggior interesse del presente libro. Testimonia Franz Ferdinand Schwarz, un suo collega all’Università di Graz:

    Già dagli inizi della sua attività scientifica erano fissati i tre temi con i quali usava confrontarsi in futuro: Filologia, Storia della filosofia e delle idee, Bizantinistica. Non era mai intenzione di Ivánka di insistere sui confini tra questi ambiti, ma – in contrario – egli ci teneva particolarmente a fare vedere i legami tra di loro [1] .

    All’elenco degli ambiti del sapere approfonditi bisogna senz’altro aggiungere l’interesse di von Ivánka per la teologia con la quale aveva cominciato il suo cursus studiorum. Nel testo che stiamo presentando è infatti sempre viva la domanda: qual è il senso cristiano degli eventi storici affrontati?

    Von Ivánka non è un pensatore fondamentalista, un pensatore cioè che tenderebbe a ridurre tutta la ricchezza della storia a un unico fattore. Egli riesce invece a cogliere i nessi tra le varie dimensioni della vita. Nel presente testo mostra che fede, cultura e storia s’influenzano e si purificano a vicenda. Leggendo il suo scritto, si rimane colpiti dai giudizi sostanzialmente equilibrati.

    Impero Romano

    La prima parte del presente libro è dedicata al pensiero politico dell’epoca che va dall’imperatore Augusto alla caduta dell’impero Romano orientale. Von Ivánka vede l’originalità del pensiero politico dei romani soprattutto nella loro pretesa di realizzare lo Stato ideale, perfetto e definitivo. Roma si sente chiamata a imporre il suo ordine e il suo diritto a tutta l’umanità. Se i greci erano i primi a riflettere teoreticamente sullo stato ideale, i romani erano i primi ad avanzare, all’epoca dell’imperatore Augusto, la pretesa di avere realizzato tale regime nella prassi, regime che sembrava perciò poter a giusto titolo pretendere l’universalità. Il popolo romano ha maturato la convinzione di essere nella successione degli imperi del mondo la perfezione ultima e definitiva, che sola corrisponde ai principi morali e all’armonia dell’anima.

    Ai tempi delle persecuzioni, i cristiani non potevano condividere l’autocoscienza dei romani di essere il popolo eletto. Ma quando ai tempi di Costantino l’imperatore stesso diventò cristiano e promosse la causa cristiana, il vescovo Eusebio di Cesarea vide in lui colui che riuniva il «nuovo popolo di Dio» annunciato dai profeti nella Sacra Scrittura. Per Eusebio l’impero romano fa parte della storia di salvezza. Se il cristianesimo porta al pagano impero Romano la sacralità, l’impero permette al cristianesimo la sua universalità. L’«impero cristiano» costituisce un «popolo nuovo», il «terzo popolo» composto da ebrei e pagani, popolo che racchiude in sé tutta l’umanità. Identificando il popolo di Dio con un impero storicamente determinato, in Eusebio si manifesta comunque il rischio di subordinare l’ordine religioso ed ecclesiastico alla dimensione imperiale e statale. Commentando queste tesi di Eusebio, von Ivánka osserva:

    Che una comunità umana storica, uno stato realmente esistente – fosse anche l’impero romano universale – sia identificato per antonomasia con il «popolo di Dio» e rivestito dell’aureola veterotestamentaria del popolo prescelto da Dio, è un’affermazione molto arrischiata [2] .

    Contro Erik Peterson, che vede in Eusebio un cesaropapista le cui posizioni sono motivate più da motivi politici che da motivi teologici, von Ivánka fa notare che la visione di Eusebio ha delle solide basi scritturistiche e fu condivisa anche da altri Padri della Chiesa che non erano legati alla corte imperiale, come ad esempio Clemente Alessandrino. La visione di Eusebio contiene infatti una verità importante: tutti i cristiani devono desiderare che gli uomini di tutte le nazioni siano unite in un unico popolo, il popolo di Cristo. La Chiesa stessa prega ancora oggi ogni anno nella notte di Pasqua: «Concedi che l’umanità intera sia accolta tra i figli di Abramo e partecipi alla dignità del popolo eletto».

    Se i cristiani sono tenuti a desiderare che tutti gli uomini entrino a fare parte del Corpo di Cristo, essi non avranno comunque mai il diritto di identificare la propria comunità civile – fosse anche universale – con tale Corpo.

    Tale verità fu elaborata soprattutto da sant’Agostino. La città di Roma, ormai governata dai cristiani, viene nell’anno 410 saccheggiata dai Visigoti. Questo fatto fa

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