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La terra ritrovata: Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento
La terra ritrovata: Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento
La terra ritrovata: Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento
E-book1.952 pagine5 ore

La terra ritrovata: Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento

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La terra ritrovata è un'opera unica nel panorama storiografico italiano: analizza i romanzi novecenteschi dedicati all'identità ebraica partendo da un interrogativo ben preciso: il personaggio ebreo si è «radicato» nell'immaginario collettivo? Se sì, in quali forme? Ripercorrendo i diversi filoni romanzeschi e le maschere di volta in volta assunte dai personaggi ebrei, questo saggio storico getta una luce nuova sul tema dell'integrazione della minoranza ebraica partendo dalla fonte letteraria più importante dell'età moderna: il romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2017
ISBN9788827536346
La terra ritrovata: Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento

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    Anteprima del libro

    La terra ritrovata - Vincenzo Pinto

    Pinto

    Introduzione. Ebreo tra romanzo e storia

    I. Il romanzo come fonte storica: problemi e prospettive

    Il rapporto fra storia (storiografia) e letteratura costituisce un filone di studi relativamente recente¹. Il dibattito sull’utilizzo delle fonti letterarie è entrato a pieno titolo nell’ambito della metodologia della ricerca storica a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, sollevando non poche domande e fornendo – almeno per ora – risposte non del tutto esaustive. La problematicità di tale dibattito non riguarda soltanto lo statuto della letteratura in quanto tale (aristotelicamente dotata di una propria autonomia rispetto alla storia), ma anche quello della storiografia come disciplina accademica. La storia (ovvero la storiografia) ha risentito indiscutibilmente dello spirito dei tempi, caratterizzati, negli ultimi decenni, dalla crisi dei grandi sistemi filosofici ed epistemologici e dall’esigenza di fornire approdi metodologici dotati di una valenza scientifica universale. Il vecchio dibattito sullo statuto epistemologico della storiografia («scienza artistica» oppure «arte scientifica») si è esteso alle forme della scrittura storica e, contemporaneamente, alle fonti della scrittura storiografica². La convergenza tra il bisogno di dare maggiore spazio alla cultura materiale (secondo la lezione degli annalisti francesi) e quello di studiare le forme artistiche in stretta interrelazione con quelle economiche, politiche e sociali (secondo la lezione della storiografia marxista) ha finito per ampliare l’apparato delle fonti a disposizione dello storico, ma ne ha anche messi in discussione l’uso e la validità. Lo spostamento da un lavoro eminentemente filologico (come l’esame accurato dei documenti) a uno di natura archeologica (come l’esame dei manufatti culturali umani) e sociologico (come l’esame dei fruitori del prodotto culturale) ha introdotto una serie d’interrogativi circa l’intenzionalità delle fonti e i veri obiettivi della ricerca storiografica. In altre parole, le fonti letterarie debbono unicamente fornire un quadro d’insieme di un periodo storico? Devono essere rievocative di un’epoca? Oppure possono partecipare attivamente all’elaborazione di un lavoro storico su ampia scala? Il problema è quindi quello del carattere strumentale o meno della fonte letteraria, che suscita inevitabilmente un dibattito sulla differenza tra la letteratura e la storiografia e tra le diverse concezioni del manufatto documentario. Francesca Ottaviani, in un saggio apparso recentemente su «Dimensioni e problemi della ricerca storica», ha fornito questa risposta a questo dibattito:

    L’elemento centrale del rapporto fra storia e letteratura consiste proprio nell’individuare quali siano i campi d’indagine in cui un’opera letteraria permette di accrescere la conoscenza storica. Una visione puramente rappresentativa dell’opera limita il ruolo del romanzo come fonte alla sola rievocazione dell’atmosfera generale di un periodo storico. In effetti, un’analisi dei romanzi fondata su basi più solide costituisce uno strumento valido per l’analisi di temi estremamente importanti: la storia delle mentalità, dell’immaginario, dei valori etici ed estetici, delle idee in genere, ecc. Per quanto riguarda poi i romanzi di largo consumo essi possono arricchire la conoscenza, nello studio della storia delle società, di tutti gli aspetti del vivere quotidiano che spesso sfuggono alla ricostruzione storiografica.

    L’analisi dell’opera, sia del contenuto che degli elementi formali, deve mirare a conoscere i modelli culturali e i valori sociali in base ai quali l’opera è stata scritta. In questo senso l’arte e la letteratura sono fonti per ricostruire la storia della cultura di una società. Il termine cultura designa in modo molto ampio ogni forma dell’attività umana, individuale e collettiva. La storia della cultura assume così un valore globale, essa funziona da raccordo di tutti i saperi storici specifici e offre la visione complessiva della storia delle società del passato. La concezione della testimonianza storica come monumento, segno dell’attività umana nel tempo, trova la sua piena realizzazione in questa idea della storia della cultura come storia complessiva, che mira a ricostruire le vicende storiche individuali e collettive sotto ogni punto di vista³.

    La storia della cultura può quindi essere costruita attraverso l’utilizzo della fonte letteraria, facendo però attenzione a evitare alcuni scivoloni metodologici: la fonte letteraria non deve apparire solo un «tappabuchi», non deve cioè essere utilizzata unicamente per colmare eventuali lacune documentarie; in secondo luogo, non deve essere considerata in termini contrappositivi rispetto alla fonte storica, come lo spazio della «libertà» di fronte al potere politico (come ha cercato di fare la scuola storiografica polacca), oppure come lo strumento dell’industria culturale (come ha teorizzato la scuola di Francoforte)⁴. A pieno titolo, dunque, la fonte letteraria acquisisce lo statuto di fonte privilegiata per studiare la storia di un determinato periodo storico. Ma quale «storia» ne esce fuori? Il romanzo è un genere letterario difficilmente codificabile e definibile, caratterizzato, però, dall’essere un’opera narrativa in prosa di una certa lunghezza che ha acquistato un carattere «egemonico» a partire dalla seconda metà dell’Ottocento⁵. Nella sua Estetica (1835-38) Hegel lo considerava la raffigurazione della «moderna epopea borghese», differente dall’epica per l’assenza di una visione poetica originaria del mondo⁶. Un secolo dopo, nella sua Teoria del romanzo (1916-20) Lukács lo definiva come un tentativo di «ricostruire la nascosta totalità della vita» in un mondo senza Dio, dove forte è il conflitto tra aspirazioni e realizzazioni umane⁷. In Estetica e romanzo (1975) Bachtin lo considerava il prodotto della polifonia del mondo occidentale moderno⁸. In Teoria del romanzo (2011) Mazzoni lo definisce come l’ingresso della democrazia nella letteratura, come il successo della particolarità occidentale⁹. Il romanzo sarebbe dunque il genere letterario moderno per eccellenza proprio per la sua capacità di rappresentare la dissoluzione dell’unità trascendentale del mondo medievale ponendo al centro della narrazione le coscienze individuali¹⁰. Il protagonista non è più un eroe esemplare ma un uomo «qualunque» calato nelle vicende storiche. La capacità romanzesca di rappresentare la condizione umana nella sua più intima e sordida realtà finisce per sollevare due vecchi interrogativi: il carattere «documentario» della prosaicità dell’esistenza quotidiana e il rapporto tra finzione e verità storica, tra romanzo e verosimiglianza. Se nel corso dell’Ottocento il romanzo storico è riuscito a fornire risposte convincenti a questi dilemmi, nella misura in cui ha ampliato la conoscenza del passato e ha «anticipato» le ricerche storiografiche dedicate al costume e alla mentalit๹, che ne è del rapporto tra verità e finzione nella narrazione storica?

    La commistione tra verità e finzione nella scrittura narrativa riguarda anche la storiografia, ovvero il ricorso a elementi finzionali nel lavoro dello storico¹². Un’opera storiografica non è infatti la semplice riproposizione speculare dei documenti del passato ma una narrazione in prosa volta a raccontare un determinato evento del passato e a interpretarlo secondo le intenzioni e le scelte dell’autore. Lo storico assume dunque una difficile azione mediatrice tra il fatto e la sua interpretazione, elabora letterariamente un evento del passato. Il terreno di questa mediazione – secondo la Ottaviani – è rappresentato dalla categoria della «verosimiglianza», propria tanto della letteratura, quanto della scienza: «Tale impostazione teorica, che pure offre interessanti spunti di riflessione, pare comunque rischiosa almeno nella sua prima parte. Si elimina di fatto ogni diversità tra una narrazione di fatti veri e una narrazione d’invenzione, sulla base di una presunta identità delle funzioni comunicative. Si elimina cioè quella distinzione necessaria e irrinunciabile che sussiste nel fine della narrazione: raccontare cose vere per lo storico, e cose che solo sembrino vere per lo scrittore. Si elimina, inoltre, quella relazione necessaria tra l’opera storica e il sapere storico dei lettori, unica garanzia che consenta di verificare e mettere in discussione la verità dei fatti narrati»¹³. Il rapporto tra storia e letteratura consente di individuare uno statuto più chiaro della fonte letteraria: mentre la critica letteraria fornisce una serie di metodi di analisi e interpretazioni dei testi, tutti fondamentali per comprendere la genesi interna di un testo, una fonte letteraria non rappresenta l’oggetto dell’indagine storica ma il suo strumento. La letteratura (e il romanzo, in questo caso particolare) va considerata come un sistema fornito di documenti, interpretazioni e conoscenze; un sistema permeabile e aperto a elementi extra-letterari, in rapporto sinergetico e continuo con la cultura umana. La storiografia deve interrogarsi sulla fonte letteraria adottando una critica esterna e una interna: da una parte valutare l’opera in relazione alla biografia dell’autore, il suo rapporto con la tradizione letteraria e i meccanismi di fruizione e ricezione del pubblico; dall’altra, analizzare il testo, i contenuti, la forma, le modalità espressive e lo stile¹⁴.

    Il discorso sinora affrontato ci ha permesso di comprendere e di giustificare un lavoro storiografico serio e circostanziato che faccia ricorso alle fonti letterarie, considerandole come strumenti d’indagine privilegiati e non meramente ausiliari. Come abbiamo visto, il romanzo può essere considerato una fonte letteraria privilegiata non solo perché ha raggiunto un successo e una diffusione di massa nel corso degli ultimi due secoli, ma anche per la sua emblematicità, perché è stato capace meglio di altre forme espressive di rappresentare le ansie, le paure e le speranze dell’uomo moderno. Talora il protagonista si trova di fronte a eventi storici particolarmente rilevanti, ma assai spesso è la sua esistenza in tutti gli aspetti anche più prosaici a essere al centro dell’intreccio. Esiste un problema di definizione «orizzontale» e «verticale» del romanzo: da una parte bisogna considerare la validità estetica del testo e la sua diffusione in un determinato contesto; dall’altra, va tenuta in considerazione l’evoluzione storica del genere nel corso del tempo (di qui il problema delle cesure storiche e del rapporto tra «spirito dell’epoca» e forma romanzesca)¹⁵. Elementi qualitativi finiscono per confliggere con altri quantitativi nella selezione delle fonti letterarie: qual è il rapporto tra «letteratura alta» e «letteratura triviale», tra «letteratura di consumo» e «letteratura di massa»?¹⁶ È più importante individuare i sottogeneri d’appartenenza oppure il pubblico di riferimento?¹⁷ È più rilevante la «forma» oppure la «sostanza»?¹⁸ Qual è il confine tra letteratura e paraletteratura?¹⁹ Tutte queste domande sono più che lecite se ci troviamo di fronte a un lavoro storiografico che aspira a fornire un’interpretazione esaustiva di un problema storico ricorrendo a una fonte letteraria. Ma la liceità di tali interrogativi finisce inevitabilmente per non considerare sia l’obiettivo della ricerca, sia il livello e il valore della fonte documentaria utilizzata. Come avremo modo di scoprire, il romanzo italiano novecentesco si è interessato diffusamente dei personaggi ebrei, in alcuni casi ponendoli al centro della sua narrazione, in altri considerandoli gli strumenti della sua visione del mondo. Il romanzo italiano ha raffigurato l’ebreo attraverso determinate categorie letterarie oppure no? La diversa centralità conferita al personaggio è la spia indiziaria di una diversa visione del mondo?

    II. L’immagine letteraria dell’ebreo: i «casi nazionali»

    L’immaginario letterario nazionale dell’ebreo è andato assumendo una centralità crescente negli studi culturali degli ultimi decenni. Dopo alcuni lavori precursori apparsi nel periodo interbellico (si pensi al lavoro sociologico di Joshua Kunitz sull’ebreo nella letteratura russa e al lavoro di Frank Montagu Mogger sull’ebreo nella letteratura inglese ottocentesca)²⁰, è nel secondo dopoguerra che vengono pubblicati con una certa regolarità studi dedicati all’analisi della presenza dell’ebreo nei diversi panorami letterari nazionali. Una particolare spinta propulsiva è stata offerta dai paesi anglosassoni, dove sono apparsi numerosi lavori dedicati al panorama letterario autoctono, americano e – in un secondo tempo – europeo (spesso d’autore ebreo emigrato). Il mondo letterario anglosassone è stato scandagliato da Edgar Rosenberg (From Shylock to Svengali, 1961), Leslie A. Fiedler (The Jew in the American novel, 1966), Harold Fisch (The Dual Image, 1971), Louis Harap (The Image of the Jew in American Literature, 1978), Derek Cohen e Deborah Heller (Jewish Presences in English Literature, 1990), e Bryan Chayette (Constructions of the Jew, 1993). Il mondo letterario tedesco, dopo i pionieristici lavori di Albert Marx Friedenberg (The Jew in German literature, 1907) e Ludwig Geiger (Die deutsche Literatur und die Juden, 1910), è stato esplorato solo recentemente da Heydi M. Müller (Die Judendarstellung in deutschsprachiger Erzählprosa, 1984), Frank Margit (Das Bild der Juden in der deutschen Literatur, 1986), Irving Massey (Philo-semitism in nineteenth-century German literature, 2000) Bryan Cheyette e Nadia Valman (The image of the Jew in European liberal culture, 2004), John D. Martin (Representations of Jew, 2004), P. O’Doherty (The Portrayal of Jews in GDR Prose Fiction, 1997; Jews in German literature since 1945, 2009), Ritchie Robertson (The Jewish question in German literature, 1749-1939, 1999), Günther Hartung (Juden und deutsche Literature, 2006), J.M. Hess (Middlebrow Fiction, 2010) e John Ward (Jews in business and their representation in German literature, 2010). L’Europa orientale è stata analizzata da Jakub Blum (The image of the Jew in Soviet Literature, 1984), Harold B. Segel (Images of the Jew in Polish literature, 1996), Gabriella Safran (Rewriting the Jew, 2000), Joanna B. Michlic (The image of the Jew from 1880 to the present, 2006), Gary Rosenshield (The Ridiculous Jew, 2008). Infine, il caso francese è stato scandagliato da Charles Cuno Lehrmann (L’élément juif dans la litterature française, 1960), Moses Debré (The image of the Jew in French literature from 1800 to 1908, 1970). Ellen F. Schiff (From stereotype to metaphor, 1978) e M. Samuels (Inventing the Israelite, 2010).

    Ci siamo limitati a fornire alcuni titoli dell’immaginario letterario, perché altrimenti avremmo dovuto citare molti altri lavori, fra cui quelli pionieristici di George L. Mosse²¹ e, negli ultimi anni, di Sander Gilman, dedicati all’elaborazione dell’immagine dell’ebreo nella cultura mitteleuropea otto- e novecentesca²². L’alto numero di lavori dedicati all’immagine letteraria dell’ebreo non deve trarci in inganno: è vero che gli studiosi si sono soffermati su diverse opere letterarie dall’età moderna sino ai nostri giorni (per lo più in prosa), ma lo hanno fatto sempre all’interno dello studio di un’idea e degli stereotipi negativi²³. L’obiettivo di molti di questi lavori (a partire da quelli «assimilazionisti» e «assimilatori» pre-bellici degli ebrei tedeschi e americani) è stato duplice: da un lato indagare la presenza di elementi particolarmente discriminatori nell’elaborazione dell’immagine dell’ebreo (il che è comprensibile, alla luce di ciò che ha determinato la politica persecutoria nazista del secolo scorso); dall’altro, costruire l’immaginario letterario ebraico attraverso un insieme di miti, sogni e archetipi ricorrenti²⁴. Va detto che le prime ricerche sul tema sono state realizzate da autori ebrei, più sensibili degli altri a cogliere le diverse sfumature presenti nel panorama letterario delle singole letterature nazionali e, indirettamente, artefici di una strumentalizzazione politica favorevole alle «vittime». Non è possibile generalizzare un così vasto panorama critico, anche se gli studi sull’immaginario letterario hanno risentito indubbiamente sia delle predilezioni teoriche e politiche degli autori, sia dei particolari momenti storici in cui sono apparsi. Due dei grandi limiti di questi lavori sono l’assenza di una contestualizzazione storica più ampia e a tendenza schematica a voler ridurre l’«elemento ebraico» a un problema nazionale e linguistico privo di un’effettiva «soluzione» (che non sia quella nazionalista-sionista o integrazionista-americana). In altre parole, l’ebreo è stato sussunto sotto categorie idealtipiche indubbiamente valide a livello interpretativo (lo «speculatore», il «deicida», il «complottardo»), ma troppo spesso figlie, a loro volta, della stereotipizzazione politica avversaria. L’obiettivo di dimostrare meccanicisticamente il legame tra lo stereotipo, il mito, la persecuzione e la mancata integrazione è stato raggiunto talora a scapito di una visione più complessa dell’identità ebraica.

    L’idea stessa di immagine e d’immaginario merita alcune brevi considerazioni. Nel corso del Novecento sono apparsi una serie di studi filosofici volti a fare chiarezza su questa facoltà umana (si pensi soprattutto ai primi lavori sartriani degli anni Trenta, permeati dalla fenomenologia husserliana)²⁵. Mentre l’immagine si riferisce alla facoltà immaginativa e all’autore che ne è artefice (di qui l’immagine dell’ebreo in un ambito spazio-temporale ben preciso), l’immaginario si basa sui prodotti dell’immaginazione, che possono essere miti, archetipi e – nel caso specifico – stereotipi (di qui la possibilità di travalicare gli ambiti spazio-temporali)²⁶. L’immagine si riferisce al soggetto, mentre l’immaginario all’oggetto. La prima presuppone una sorta d’intenzionalità originaria da parte dell’autore nel voler esprimere una determinata visione del mondo e della realtà, mentre il secondo esprime l’esito di un intervento preconscio, a-razionale (se non irrazionale), che produce immagini irreali e «rivoluzionarie»²⁷. Uno degli scogli che gli studi sull’immagine dell’ebreo hanno dovuto affrontare non consiste tanto in una forma di determinismo della rappresentazione, quanto proprio nella creazione, elaborazione e uso di questi miti a un livello più ampio²⁸. La dimensione nazionale e linguistica di queste analisi si scontra dunque col problema di dover necessariamente limitare la costruzione dell’immaginario a un contesto ben preciso, anche se, in teoria, l’immaginario sembra rifuggire da costrizioni spaziali e temporali. Il romanzo, che abbiamo visto essere il prodotto letterario di punta di un particolare momento storico (le miserie e le grandezze della borghesia occidentale), si trova a dover contemperare l’azione concreta umana nella vita quotidiana e l’intervento dell’immaginario, ovverosia la soggettività dell’individuo e l’oggettività di forze estranee e fuori dal controllo della sua «ragione». Gli effetti dell’evidente discrasia tra immagine e immaginario non sono stati ancora del tutto chiariti dagli studiosi, poiché, se da una parte è forte la tendenza a «uccidere» l’autore a favore di una sorta d’«inconscio strutturale», d’«industria culturale» oppure di «struttura» economica²⁹, dall’altra si avverte l’esigenza di salvaguardarne la soggettività. La narrazione e il narratore, così come l’immaginario e l’immagine, non trovano sempre un adeguato equilibrio interno³⁰.

    III. .. e il «caso italiano»

    Il «caso italiano» sembrerebbe più semplice e meno problematico degli altri, partendo dalla semplice constatazione della relativa esiguità della comunità ebraica locale e della forte tendenza all’assimilazione presente – quanto meno – sino all’avvento del fascismo. Invero, proprio la tesi della relativa integrazione degli ebrei nel tessuto connettivo nazionale ottocentesco è stata più volte criticata nel secondo dopoguerra, sulla scorta – come vedremo – della «memorializzazione della Shoah» e della nascita dello stato d’Israele. Il primo lavoro organico dedicato all’immagine dell’ebreo nella letteratura italiana porta la firma dello studioso italo-americano Andrew Canepa. Il saggio, apparso sulla «Rassegna mensile d’Israel» nel 1978, si concentra sul rapporto tra antisemitismo politico e immagine dell’ebreo nella cultura «alta» e popolare nell’Italia liberale. Una volta appurato che i «migliori letterati del periodo postrisorgimentale hanno trascurato nell’insieme argomenti e personaggi ebrei», Canepa si sposta sulla letteratura popolare veicolata dal romanzo d’appendice. L’elemento strutturale che caratterizzerebbe queste opere è la «degiudaizzazione finale dei protagonisti ebrei, che si compie, o attraverso la conversione, o attraverso la rivelazione che in realtà non erano stati mai ebrei»³¹. Una volta stabilito – sulla scorta di Umberto Eco – che la paraletteratura europea dell’epoca aveva fondamentalmente un ruolo politico e sociale conservatore, Canepa conclude che nell’Italia liberale l’élite e la cultura popolare presentavano «una concezione del giudaismo e del carattere ebraico essenzialmente derogatoria». Tale immagine negativa, insieme a un antisemitismo esplicito «relativamente debole» e limitato alle frange cattoliche, avrebbe contribuito alle pressioni assimilatorie verso la minoranza ebraica: «alcuni hanno interiorizzato completamente l’immagine negativa e si sono serviti della scappatoia indicata dai personaggi ebrei dei romanzi, ma anche tra quelli che non si sono convertiti il diffuso sentimento di spregio per il giudaismo ha intaccato l’atteggiamento religioso e ha condizionato l’immagine di sé di molti ebrei italiani»³².

    La tesi di Canepa che l’immaginario letterario avrebbe favorito l’assimilazione ben più dell’antisemitismo politico non trova particolare riscontro nel lavoro di Giorgio Romano, un ebreo italiano emigrato in Israele e autore di una raccolta di saggi dedicati agli ebrei nella letteratura italiana (1979)³³. Il lavoro di Romano, prettamente didascalico e quantitativo, offre un quadro abbastanza esaustivo delle opere letterarie d’argomento ebraico pubblicate in Italia nel corso del XX secolo, limitandosi a fungere d’apparato bibliografico per nuove ricerche dedicate – come in altri paesi – all’«elemento ebraico» nella letteratura nazionale³⁴. La prospettiva nazional-sionista offerta da Romano è stata indirettamente sposata da Henry Stuart Hughes nel suo studio Prisoners of hope (1983). Stuart Hughes, contrariamente al «dilettantistico» Romano, è stato uno studioso noto e apprezzato in tutto il mondo accademico anglosassone, politicamente attivo nei movimenti pacifisti degli anni Sessanta e Settanta, particolarmente sensibile all’applicazione della psicanalisi alla storia delle idee³⁵. Il titolo del suo lavoro riassume appieno la tesi sostenuta dall’autore: gli ebrei italiani, studiati attraverso la produzione letteraria e autobiografica dei «maggiori» (Svevo, Moravia, Bassani, Carlo e Primo Levi, Natalia Ginzburg) dell’età argentea (1924-1974), sarebbero stati «prigionieri della speranza» di poter diffondere una mentalità «ecumenico-umanistico-progressista» nel mondo culturale e politico italiano novecentesco. Stuart Hughes cerca di capovolgere la critica «gentile» verso il «particolarismo ebraico» (fomentatrice dell’odio antisemita), individuando tre peculiarità «ebraiche» nel dopoguerra: la crisi della senilità nella generazione dell’Olocausto; l’«atrocità» del sentimento di esclusione d’ascendenza esilica; la famiglia intesa come base morale e non come unità economica³⁶. Tali caratteristiche, però, finiscono per confermare la vacua «speranza» dell’immaginazione ebraica: l’universalismo di Nello Rosselli citato nella chiusa sembra quasi certificare il fallimento di un sentimento velleitario e la persistenza in Italia, anche dopo la fine della guerra, di un sentimento d’intolleranza e d’estraneità verso la minoranza ebraica³⁷.

    Mentre il lavoro di Canepa riguardava l’immaginario culturale italiano e quello di Stuart Hughes l’immaginazione ebraica, Lynn M. Gunzberg sposta la sua attenzione sull’immaginazione letteraria italiana «gentile». Il dottorato della studiosa americana, pubblicato nel 1992 e mai tradotto in italiano³⁸, ripercorre la costruzione dell’immaginazione letteraria a partire dall’emancipazione ebraica ottocentesca, per giungere sino all’«estraniamento» perpetrato dalle leggi razziali fasciste. Lo fa analizzando alcune opere sintomatiche della letteratura popolare: L’ebreo di Verona di Bresciani, I sonetti romaneschi di Belli, la feuilletonistica di fine Ottocento e il passaggio dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo fascista nei romanzi di alcuni scrittori degli anni Trenta. La tesi della Gunzberg è che, malgrado l’assimilazione religiosa e culturale ebraica italiana, o proprio in conseguenza di essa, la rappresentazione letteraria del mondo ebraico non fece sostanziali progressi dal 1830 al 1930. Riprendendo in parte i lavori di Mosse sulla nazionalizzazione culturale delle masse, la studiosa americana ritiene che la minoranza ebraica non si sia mai «integrata» nel discorso culturale italiano: «i cuori e le masse delle masse degli italiani» furono il terreno fertile in cui crebbero e si svilupparono la legislazione razziale fascista³⁹. Il determinismo della Gunzberg è stato in parte attenuato dal lavoro di Vincenzo Fasano sull’immagine dell’ebreo nel feuilleton italiano di fine Ottocento, apparso alcuni anni fa in francese presso un editore leccese. Lo storico pugliese parte sostenendo la tesi di Canepa sul legame tra emancipazione ebraica e antigiudaismo cattolico, particolarmente visibile nella letteratura popolare dell’epoca. Gli stereotipi di questa produzione romanzesca sarebbero «l’esito d’una storia d’oppressione sociale e della condanna religiosa, ma anche le armi d’una battaglia ideologica e politiche senza tregua»⁴⁰. Attribuendo all’ebreo le caratteristiche dello straniero, si riconosce in lui «il nemico dell’identità nazionale», in quanto deicida, omicida rituale e complottardo. «Le rappresentazioni finzionali – conclude – […] hanno aiutato a preparare il terreno agli orientamenti ideologici che hanno tragicamente insanguinato il XX secolo»⁴¹.

    L’ultimo lavoro dedicato all’immaginario (o immaginazione) letterario ebraico è la raccolta di saggi postuma di Riccardo Bonavita, intitolata emblematicamente Spettri dell’altro (2009). Lo studioso bolognese, morto prematuramente nel 2005, analizza la circolazione di pregiudizi, credenze e atteggiamenti razzistici nella produzione letteraria italiana tra Otto- e Novecento, cercando di delineare una «grammatica dell’alterità» d’ispirazione critica francofortese. L’autore dimostra non solo la «fortuna» di «mediocri pennivendoli» nel periodo interbellico, ma anche la continua strumentalizzazione ai fini politici della cultura e dei suoi «funzionari»⁴². Ciò che accomuna il lavoro di Bonavita agli altri sinora citati è proprio la tendenza a ricostruire la presenza letteraria dell’ebreo come storia della progressiva emarginazione dalla vita nazionale di una minoranza integrata. Questo processo irreversibile sarebbe iniziato in concomitanza con l’emancipazione giuridica: lo sviluppo di un filone letterario non necessario, ma consapevole avrebbe prodotto il radicamento di una serie di stereotipi e di miti che avrebbero indubbiamente favorito e «giustificato» la legislazione razziale fascista. Proprio la persecuzione antiebraica rappresenterebbe il culmine di un processo culturale, oltre che politico, intrapreso più o meno scientemente da alcune voci del panorama politico italiano a partire dall’Ottocento: dapprima la stampa cattolica, poi quella nazionalista, infine quella fascista. La letteratura (e il romanzo, in particolare) ha veicolato l’immagine dell’ebreo nemico del corpo sociale, «meritevole» di un disprezzo morale trasformatosi poi in disprezzo politico e in persecuzione razziale. Inevitabilmente, gli studiosi che si sono occupati d’immaginario letterario ebraico italiano hanno tenuto conto degli sviluppi storici e politici successivi, chiosando all’unisono sul fallimento sostanziale dell’«integrazione ebraica» e sulla persistenza di un immaginario gretto, popolare e stereotipizzante. Non solo, gli studiosi del «caso italiano» hanno sottolineato l’influenza esercitata dalla letteratura popolare come veicolo di progetti politici conservatori e reazionari, avallando la tesi di Eco sul rapporto tra retorica e ideologia, ma anche finendo per sminuire il suo ruolo: al «superuomo» gentile si contrapporrebbe il «sotto-uomo» ebreo⁴³.

    Alcune considerazioni le meritano gli studi dedicati alla letteratura ebraica italiana contemporanea. Ci troviamo di fronte a studi letterari intenti, da una parte, a declinare la produzione di autori ebrei italiani e, dall’altra, a cercare le «peculiarità» della scrittura ebraica italiana. Come avremo modo di vedere nel corso della tesi, questi lavori hanno l’indubbio merito di occuparsi della produzione di alcuni scrittori ebrei italiani, ma hanno il limite di soffermarsi quasi esclusivamente su alcuni «maggiori» e su alcune tematiche ben precise. I maggiori sono fondamentalmente tre: Primo Levi, Giorgio Bassani e Natalia Ginzburg. Accanto agli scrittori ebrei che hanno concesso spazio all’identità ebraica vi sono quelli che l’hanno soltanto sfiorata oppure non si sono affatto interessati della loro identità etnico-religiosa (come Italo Svevo e Alberto Moravia), emblematici a loro volta del grado d’integrazione e d’assimilazione degli ebrei nel tessuto connettivo italiano. Il tema dell’identità ebraica è stato contrapposto a quello della «questione ebraica», ovvero è stato privilegiato il soggettivismo degli autori a scapito di un contesto storico e letterario percepito o descritto come «alieno», «ostile» o «discriminante». Il soggettivismo intimistico di questi autori ebrei è stato pesantemente «disturbato» da eventi storici come la persecuzione antisemita, che ha significato la fine della parità giuridica, mentre le vicende relative alla costruzione dello stato d’Israele (quindi, a un’identità ebraica nazionale, se non nazionalista) hanno avuto scarsa eco. La persecuzione antisemita ha anche rafforzato il senso della memoria ebraica, rendendo molte opere dei «maggiori» non il frutto di una finzione letteraria, ma quello delle proprie tragiche e dolorose esperienze individuali. La letteratura ebraica italiana finisce per essere una sorta di diario intimo del fallimento della propria integrazione nazionale e la descrizione del processo di laicizzazione del martirologio ebraico⁴⁴. Questo spiega anche l’eccessiva – e tuttavia comprensibile – piega della storiografia italiana, anch’essa intenta a ricostruire la storia di un fallimento politico e umano. Ma spiega altresì la profonda differenza tra scrittura ebraica e scrittura non ebraica d’argomento ebraico (lacuna che questo lavoro tenta di colmare): a fronte di «maggiori» e «minori» devoti all’introspezione soggettiva oppure alfieri delle grandi correnti europee vi sono autori poco celebrati, «dilettanti» della letteratura oppure frequentatori «occasionali» del genere romanzesco che hanno contribuito a riempire lo spazio del mercato editoriale italiano e, di converso, quello dell’immaginario collettivo⁴⁵.

    IV. Il romanzo come specchio (deformato) di un problema storico, etico e politico: il rapporto tra ebreo e nazione nell’Italia novecentesca

    Gli studi dedicati all’immaginario letterario ebraico in Italia e all’estero sono accomunati dalla tendenza a considerare gli ebrei come una «minoranza»

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