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Tracce di germanicità: Julius Langbehn e la nascita del paradigma indiziario
Tracce di germanicità: Julius Langbehn e la nascita del paradigma indiziario
Tracce di germanicità: Julius Langbehn e la nascita del paradigma indiziario
E-book1.150 pagine5 ore

Tracce di germanicità: Julius Langbehn e la nascita del paradigma indiziario

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Info su questo ebook

La germanicità è qualcosa che va scoperto attraverso le tracce del passato. Questo saggio cerca di decifrare gli enigmi intellettuali ed esistenziali di Julius Langbehn (1851-1907) e con lui quelli di ampi settori del mondo culturale, spirituale e politico tedesco di fine Ottocento, intenti a costruire un nuovo archetipo identitario di riferimento.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2017
ISBN9788827536322
Tracce di germanicità: Julius Langbehn e la nascita del paradigma indiziario

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    Anteprima del libro

    Tracce di germanicità - Vincenzo Pinto

    indiziario

    Introduzione. Che cos’è una figura (Gestalt)?

    «Abramo, Abramo!»

    Rispose: «Eccomi»

    Genesi (22,1)

    Lo studio di una vita è sempre problematica. L’analisi di un’opera è una porta aperta sul mondo. Avvicinarsi alla Germania contemporanea fingendo di ignorare il nazismo, oppure facendone una sorta di sempiterno ubi consistam delle battaglie ideologiche fra le parti, è quantomeno discutibile. Lo è nella misura in cui l’ossessiva ricerca di fratture spazio-temporali determina una sorta di isolamento fenomenico, in cui il racconto di una vicenda storica finisce per decadere a evento fine a se stesso su cui si abbatte la scure del giudice o dell’accusatore di turno. Chiedersi che cosa sia tedesco (Deutsch) significa affrontare direttamente tutti i fantasmi che avviluppano ancora oggi la storia dell’Europa contemporanea. Chiedersi che cosa significhi essere europei non può prescindere da un confronto serrato con la cultura prodotta dalla storia delle sue parti.

    La storia culturale della Germania di fine Ottocento è un terreno di studi così affascinante che un sapere enciclopedico non sarebbe in grado di abbracciarne la vastità e la profondità intrinseche. Un esempio, forse, servirà a introdurre il lettore in questo affascinante viaggio:

    […] Al di fuori dell’opera precorritrice di Kant (Critica della capacità di giudizio, 1790), Schelling (Intorno al rapporto delle arti figurative con la natura, 1807), Solger (Erwin. Quattro conversazioni intorno al bello e all’arte, Berl. 1815) ed Hegel (Lezioni di estetica, a cura di Hotho, 1835-1838, 3 voll.), quasi tutti i più rinomati pensatori tedeschi hanno tenuto lezioni cattedratiche di estetica oppure le hanno abbozzate. Vedi Herbart (nella Filosofia pratica generale, Gottinga 1808; Introduzione alla filosofia, quarta ed., Königsberg 1837), Schopenhauer (Il mondo come volontà e come rappresentazione, libro 3, quinta ed., Lipsia 1879); Fries (Manuale di Estetica, Heidelberg 1832), Brause (Compendio di estetica, a cura di Leutbecher, Gottinga 1837), Schleiermacher (Lezioni di estetica, a cura di Lommatzsch, Berlino 1842). Cenni appropriati, specialmente sulla comicità e sulla teoria dell’umorismo, sono presenti nella Scuola materna di estetica di Jean Paul (1804). Rappresentazioni sistematiche di tutta l’estetica, a parte i datati manuali di Bouterwek, Wendt, Weber, Thiersch e altri, sono state fornite dall’hegeliano F.T. Vischer (Estetica, Reutlingen 1846-57, sezione 3; in pesanti paragrafi e geniali annotazioni) nel panteistico semi-hegeliano C.H. Weiße (Sistema di estetica, Lipsia 1830, 2 voll.; dello stesso a cura di R. Seydel, Lipsia 1872), M. Carrière (Estetica, terza edizione, Lipsia 1885, 2 voll.) in senso teoretico, tutti e tre dal punto di vista dell’estetica del contenuto; poi l’herbertiano R. Zimmermann (Estetica generale come scienza della forma, Vienna 1865) e il non-herbartiano C. Köstlin (Estetica, Tubinga 1863-69, e Intorno al concetto di bellezza, Tubinga 1878) e K. Lemcke (Estetica popolare, quinta ed., Lipsia 1879) dal punto di vista dell’estetica formale. Una posizione intermedia è occupata da L’estetica su base realistica di J.H. von Kirchmann (Berlino 1868, 2 voll.), mentre Deutinger, nella sua Dottrina dell’arte (quarta e quinta parte del suo Sistema di filosofia positiva, Ratisbona 1845-1847), e Dursch, nella sua Estetica (Stoccarda 1840), hanno fornito una rappresentazione estetica su basi cristiane. Nella sua Estetica nella storia e come sistema scientifico (Lipsia 1875), C. Hermann è tornato al punto di vista di Baumgarten; Siebeck (L’essenza della visione estetica, Berlino 1875) ha cercato una convergenza con l’estetica del contenuto dal punto di vista herbartiano, mentre Vischer nella sua autocritica (Passi critici, quaderni 5 e 6, Stoccarda 1866) lo ha fatto con l’estetica formale e Fechner, nel suo Contributo all’estetica sperimentale (Lipsia 1871) e nella sua Scuola materna di estetica (Lipsia 1876, 2 voll.), si è addentrato sulla via sperimentale, ma J. Volkelt (Il concetto di simbolo nell’estetica contemporanea, Jena 1876) ha cercato nuovamente di concepire simbolicamente il bello come successe a Solger. La prima storia completa dell’estetica l’ha scritta Robert Zimmermann (Vienna 1858) dal punto di vista herbartiano, una critica l’ha scritta M. Schasler (Berlino 1872) da un punto di vista hegeliano; la sottile e geniale, ma ritenuta soggettiva Storia dell’estetica in Germania di H. Lotze (Monaco 1868) si rifà a Weiße. Intorno alla Storia della teoria dell’arte nell’antichità si è cimentato E. in un’opera eccellente (Berlino 1834-1837, 2 voll.). Contributi alla storia dell’estetica sono presenti negli Studi di storia dell’estetica tedesca a partire da Kant di Neudecker (Würzburg 1878)¹.

    […] Critica della ragion pratica di Kant; Dottrina dei costumi di Fichte e Schleiermacher; Filosofia pratica di Herbart; Fondamenti di etica di Schopenhauer. Confronta inoltre Chalybäus, Sistema di etica speculativa (Lipsia 1850, 2 voll.); Hartenstein, Concetti fondamentali di scienze etiche (Lipsia 1844); I.H. Fichte, Sistema di etica (Lipsia 1850, 2 voll.); Ziller, Etica filosofica generale (seconda edizione, Langensalza 1886); Steinthal, Etica generale (Berlino 1885); Rothe, Etica teologica (2 edizione, Wittenberg 1867-71, 5 voll.); Dorner, Sistema di dottrina dei costumi cristiana (Berlino 1885). Per la storia dell’etica confronta Stäudlin, Storia della filosofia morale (Hannover 1823); Henning, Principi di etica nello sviluppo storico (Berlino 1824); Janet, Storia della filosofia morale e politica (Parigi 1858); Strümpell, Storia della filosofia pratica dei greci (Lipsia 1861); Ziegler, Storia dell’etica (Bonn 1881, vol. 1); Gaß, Storia dell’etica cristiana (Berlino 1881); Jodl, Storia dell’etica nella filosofia moderna (Stoccarda 1881, vol. 1)²

    Queste due bibliografie furono poste in calce alle voci Ästhetik (Estetica) ed Ethik (Etica) della quarta edizione del Meyers Konversationslexikon, il grande dizionario enciclopedico tedesco pubblicato tra il 1889 e il 1891. Si tratta di una serie di titoli che dimostrano, di primo acchito, la ricchezza del dibattito filosofico nella Germania ottocentesca. Basti solo notare la grande differenza di spazio che intercorre fra le due voci: la prima possiede di gran lunga una bibliografia più esaustiva. Il che può dipendere dalla sensibilità dell’autore, da problemi redazionali, da contingenze varie oppure dal fatto che l’estetica era una disciplina di gran lunga più visibile (accademicamente o pubblicisticamente parlando) rispetto all’etica. Questo l’etica perché era trattata come una disciplina filosofica sganciata dalla religione?

    Andiamo ancora oltre, questa volta ripescando il lemma Dämonisch (Demonico) dallo stesso dizionario:

    Nell’uso linguistico moderno si chiama demonico ogni influsso spirituale che affronta l’essere umano quale potenza inevitabile, che gli è in tal modo fatale o rischia di diventarlo. Quindi d. possono apparire anche i voleri del fato esteriore, nella misura in cui si manifesta un legame spirituale interiore, non meno che l’influsso spirituale promanato dal semplice aspetto personale o dalle manifestazioni della volontà di un essere umano, così come gli istinti, i desideri, le passioni del proprio cuore e spirito (demonia di uno sguardo, della passione, dello spirito, ecc.). Nell’arte la luce del demonico è stata utilizzata in maniera efficace soprattutto nelle tragedie (Riccardo III, Lady Mcbeth)³.

    Questo libro muove dall’esigenza di rinsaldare costruttivamente il legame tra piano etico e piano estetico nella narrazione storica del passato, tra visione e azione. La scelta del tema non è affatto casuale. La Germania di fine Ottocento fu un laboratorio chimico che sperimentò tutte le possibili soluzioni organiche e inorganiche ai dilemmi sollevati dalla modernità. Con modernità intendiamo riferirci a una particolare situazione di distacco, di scollamento tra il passato e il presente, tra ciò che veicola la memoria e ciò che l’essere umano è in grado di fare per il proprio benessere futuro. Non siamo molto distanti dalla semantica dei tempi storici dello storico tedesco Reinhart Koselleck, che parla specificamente di Erfahrungsraum e Erwartungshorizont (spazio d’esperienza e orizzonte d’aspettativa) per maturare la crisi della coscienza storica in età contemporanea⁴. La nostra ricerca, però, non ha una specifica ambizione sistematica o sistemica, non è una storia concettuale o la storia di un pensiero. È la storia di una serie di eventi, di incontri che si sono consumati intorno a un’idea e un ideale, a un personaggio e un attore storico, in contesti spesso diversi eppure limitrofi, accomunati da un medesimo anelito. È una storia sociale delle idee.

    Una storia sociale delle idee parte da una Gestaltung per poi individuarsi nelle varie Gestalten che ha saputo assumere nel corso del suo percorso storico. In tedesco, Gestaltung designa struttura, creazione, organizzazione. Gestalt rimanda, invece, a una forma, a una figura, a uno sguardo che raccoglie l’universo. Da uno scorrimento anche sommario delle due bibliografie sopra riportate potremmo notare non solo la differenza quantitativa (il lemma Ästhetik è di gran lunga più complesso e articolato rispetto a quello Ethik), ma anche la presenza di Immanuel Kant come terminem a quo. Nel primo caso, infatti, partiamo dalla Critica della capacità di giudizio (1790) e terminiamo con la storia dell’estetica di Georg Neudecker. Nel secondo caso, invece, esordiamo con la Critica della ragion pratica (1788) per approdare alla storia di Friedrich Jodl, presidente del Monistenbund (Unione dei monisti). Alla base di una storia sociale delle idee vi è dunque un nodo etico-estetico irriducibile: ricostruire un immaginario singolare-collettivo che dia voce in capitolo all’aspirazione totalizzante di ogni essere umano all’interno di una Gestaltung ben precisa. Questo problema gnoseologico e semantico introduce una visione della realtà organica: individuare un «demonico» (quale condizione di possibilità di una Gestaltung) per dar voce alla Gestalt di volta in volta modellata per comprenderlo al suo interno⁵.

    Nel 1901 il sociologo tedesco Heinrich Pudor, noto soprattutto quale padre dei Wandervogel (movimento giovanile tedesco) e del cosiddetto «nudismo»⁶, pubblicò uno studio dal titolo Die neue Erziehung. Essays über die Erziehung zur Kunst und zum Leben (La nuova educazione. Saggi intorno all’educazione all’arte e alla vita). Discutendo dell’educazione alla contemplazione artistica (Kunstbetrachtung), Pudor osservava la vera e propria rivoluzione nell’ambito della storia dell’arte compiuta a fine Ottocento dall’opera del critico Ivan Lermolieff (alias Giovanni Morelli): Die Werke italienischer Meister in den Galerien von München, Dresden und Berlin (Le opere dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino, 1880):

    La novità introdotta da Morelli consisteva nell’aver rimarcato come per conoscere i monumenti artistici non dobbiamo far ricerca nelle biblioteche, ma piuttosto vedere [anschauen] direttamente le opere d’arte e che, per poterle comprendere, bisogna studiare soprattutto la dottrina delle forme [Formlehre] artistiche⁷.

    Pudor ci dice una cosa molto importante: i monumenti vanno visti, prima che capiti. Vanno visti, però, all’interno di una struttura ben precisa. La teoria delle forme artistiche, da mero esercizio teoretico accademico più o meno effettivo si trasforma nella struttura necessaria all’interno della quale ricostruire una figura artistica, uno sguardo capace di raccogliere l’universo.

    Se la centralità accademica dell’arte è andata crescendo nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo, questo è largamente dipeso dal fatto che l’estetica si è in qualche modo emancipata dalla parola scritta per farsi viva figura di riferimento. Non lo è stato per tutti gli addetti ai lavori, beninteso, ma è in qualche modo inevitabile che chiunque affronti quel periodo storico tenga conto della profonda rilevanza assunta dalla «visione» anche e soprattutto nell’evoluzione della realtà etico-politica. La «visione» è andata progressivamente spezzando il proprio legame con il tutto per farsi strumento di una tecnica e semantica del potere politico che ancora oggi – più che mai – dimostra l’abisso ormai esistente con il mondo passato. Fra spazio d’attesa e orizzonte d’aspettativa non vi è più alcuna differenza.

    Chiediamoci a questo punto se la creazione di una Gestalt rappresenti un anelito trasversale nel mondo culturale e politico europeo di fine Ottocento. Stiamo cercando di capire se una storia sociale delle idee possa incardinarsi intorno alla costruzione di un archetipo di riferimento meta-temporale e temporale in pari misura, cioè in un modello di riferimento in forma di storia, storicizzato. Se questo è possibile, allora come possiamo dar vita a una comparazione delle diverse Gestalten che non faccia perdere di vista la peculiarità dei singoli progetti, ma che riesca in qualche modo a tener conto dell’universale anelito umano verso un porto sicuro d’approdo?

    Nella raccolta di saggi letterari intitolata A lélek és a formák (L’anima e le forme, 1910), il giovane impiegato ministeriale ungherese György Lukács testimonia la crisi profonda che travaglia gli uomini di lettere e, più in generale, la propria epoca. L’opera verrà tradotta l’anno successivo in tedesco con il titolo Die Seele und die Formen (Berlino, Fleischel). Discutendo della tragedia neoclassica di Paul Ernst, Lukács faceva questa illuminante osservazione:

    Il centro dell’opera di Paul Ernst è l’etica della poeticità, così come il centro della produzione di Hebbel è la psicologia della poeticità. Poiché per entrambi la forma diventa fine dell’esistenza, imperativo categorico della grandezza e dell’autoperfezione, l’uno viene ritenuto un freddo formalista e l’altro un metafisico della patologia. Ma mentre il destino degli eroi di Hebbel è la lotta tragica impotente di uomini veri per ridurre alla dimensione dell’uomo tutto ciò che nella forma ha vita, ossia ciò che è più profondamente problematico – i momenti supremi dell’esistenza empirica esperiti psicologicamente – Ernst pone questo mondo chiuso, finito, superiore, come un ammonimento e un richiamo, come luminoso punto di riferimento per il cammino degli uomini, senza curarsi della sua realizzazione effettiva. La validità e la forza dell’etica sono indipendenti dal loro essere rispettate. Perciò soltanto la forma purificatasi sino all’eticità – senza per questo divenire cieca e povera – può dimenticare l’esistenza di ogni problematicità e bandirla per sempre dal suo regno⁸.

    Forma purificatasi sino all’eticità: ecco una petizione di principio degna del futuro grande intellettuale comunista. Lukács ci sta dicendo che Ernst ha compiuto il salto nel regno delle forme, ha dunque risolto il problema dell’esistenza purificando la forma da ogni legame con la pratica: il sogno nascosto della ragion pura kantiana si è dunque realizzato.

    Un secondo salto ci catapulta nel saggio Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (Il lavoratore. Dominio e forma, 1932) di Ernst Jünger.  Sono passati oltre vent’anni. Di mezzo c’è stata la Prima guerra mondiale, la crisi politica, sociale ed economica dell’Europa imperiale e, in Germania, l’agonia della traballante repubblica nata a Weimar, nella città dei due classici per eccellenza (Goethe e Schiller). Un giovane e noto scrittore nazional-conservatore si interroga non tanto sul significato del concetto di lavoratore, ma su cosa «veda» il lavoratore stesso. La differenza è fondamentale:

    In via transitoria, si considerino «forma», indipendentemente da quella gerarchia, le grandezze così come esse si offrono ad un occhio il quale intuisca con uno sguardo che il mondo è riassunto da una formula più decisa di quanto non sia la formula di causa ed effetto, senza tuttavia scorgere l’unità sotto il cui segno questo compendio si delinea.

    Nella forma è racchiuso il tutto, che comprende più che non la somma delle proprie parti, ed era un obiettivo irraggiungibile per un’epoca atomizzante. Questo è il segno del tempo che viene: in esso, noi vedremo, sentiremo e agiremo di nuovo sotto il dominio delle forme. Il livello qualitativo di un intelletto e il valore di un occhio sono decisi dal grado in cui ad essi si rende visibile l’influenza delle forme. […]

    Dal momento in cui si entra nelle forme e se ne ha esperienza, tutto diviene forma. La forma non è quindi una nuova grandezza che dovrebbe essere scoperta in aggiunta a quelle già note, ma ad un nuovo colpo d’occhio il mondo si manifesta come il teatro delle forme e delle loro reciproche relazioni⁹.

    Pudor si chiedeva in che cosa consistesse la bellezza di un’opera d’arte: chi e che cosa discrimina l’opera d’arte da vedere? In altre parole, come fare in modo che non si perda l’«aura» di irripetibilità nella relazione tra il soggetto guardante e l’oggetto guardato? È ancora possibile parlare di Urteilskraft, di capacità di giudizio?

    La caratteristica [Die Eigenart]. La caratteristica dell’artista, della scuola, del panorama, del paese, dell’epoca e così via è il presupposto [Bedingung] dell’opera d’arte. Se impariamo a conoscere la caratteristica dell’artista, della scuola, del paese eccetera, e se conosciamo quella del paese, della scuola e dell’artista, possiamo comprendere la caratteristica dell’opera d’arte.

    La caratteristica è alla lunga ciò che costituisce l’anima dell’opera d’arte. La caratteristica che rispecchia il mondo è arte, come dice l’autore di Rembrandt come educatore. […]

    Pudor sferrava un duro attacco allo storicismo estetico sostenendo che non bastava trattare la storia dell’arte da un punto di vista evolutivo e/o – hegelianamente parlando – circolare (le triadi del dentro, fuori e dentro-fuori). Non bastava nemmeno trattarla da un punto di vista culturale e relativizzante, come era stato fatto sino a quel momento dai più insigni studiosi (il riferimento era la Cultura del rinascimento di Jacob Burckhardt)¹⁰. Bisognava, piuttosto, prender in considerazione anche il lato individuale, l’individualità dello studioso dell’arte coinvolto nella «visione». Il principio individualistico riusciva così a coniugarsi con quello etico, come insegnava sempre l’anonimo autore (Verfasser) del libro su Rembrandt: «L’onore dell’artista consiste nel fatto di restare sempre fedele a se stesso». La storia dell’arte diventava anzitutto una storia morale dell’arte¹¹.

    Se il contenuto dell’arte è il «Gefühl» (sentimento), l’arte non può essere voluta di per se stessa. Pudor faceva riferimento alla piega estetizzante di un certo decadentismo compiaciuto di sé, ma anche al nudo e crudo naturalismo francese di Zola, che aveva in qualche modo fatto scuola nella letteratura europea di fine Ottocento. L’arte esisteva innanzitutto per gli esseri umani, non per i singoli artisti. «L’artista non crea solo per creare, per rappresentare, ma per vedere». Vedere che cosa? Creare che cosa? Ecco la risposta dell’autore:

    Creare significa anzitutto vivere. Chi non crea, non conosce la vita. La creazione artistica consiste nel porre per così dire l’idea nello spazio e nel tempo, in modo da poterla vedere veduta. La vista [Anschauen] è quindi il fine dell’opera d’arte. Per quali altri motivi dovrebbe vivere e splendere una Venere di Milo nel corso dei secoli? Essa deve essere vista. E non solo da parte dell’artista, che ha creato l’opera, ma anche da chiunque altro¹².

    L’arte è religione, il suo esercizio è un servizio divino¹³. Nella Grecia antica arte, fede e idealismo erano un tutt’uno. «L’arte era la fede e la fede era l’arte ed entrambi erano ideali». Pudor attaccava il barocco e il rococò (Bernini in particolar modo) in quanto latori di stili inorganici, contrapponendovi un’arte charaktervoll, morale. Ogni arte genuina è volksthümlich, cioè nazional-popolare. Per preparare il terreno a quest’arte bisognava strappare l’arte dalle dita fredde e ossute della scienza; bisognava porre l’accento sul contenuto e sul sentimento. Ogni arte popolare doveva essere nazional-popolare, cioè radicarsi in qualcosa di solido e concreto¹⁴.

    Struttura, figura, forma, arte, religione: questi cinque gradini ci accompagnano nel percorso di una storia morale. Non siamo molto lontani, in questo viatico, dall’affermazione fatta da Carlo Ginzburg intorno ai pregi e ai difetti di un paradigma indiziario: l’idea di totalità in ambito storiografico può reggere nella misura in cui viene abbandonata la velleità di conoscere direttamente la connessione profonda che spiega fenomeni superficiali¹⁵. A fine Ottocento prendeva il via l’esperimento psicanalitico, con i suoi «giochi linguistici» (Witz e lapsus). Qualche anno prima, un filologo classico sassone poi dipartito dall’umano consesso razionale pubblicava sequele di scritti aforistici formulando giudizi sull’uomo e sulla società sulla base di sintomi, di indizi. Contemporaneamente, un anonimo archeologo classico, cresciuto nel solco del Totalitätsideal romantico (ideale totalizzante), trascorreva la stragrande maggioranza del suo tempo osservando edifici, abitazioni, paesaggi, leggendo libri e quadri, scoprendo il «Charakter» nell’arte omerica, poi nell’arte rembrandtiana, infine nell’arte cattolica. Era alla ricerca di un quid capace di tenere insieme il tutto. Come scrisse in Der Geist des Ganzen (Lo spirito del tutto), Langbehn intendeva dimostrare l’esistenza di Omero (negata energicamente da molti filologi) «sulla base della struttura interiore, rigorosa, compiuta, artistica, per così dire misurata e calcolata, della sua opera»¹⁶.

    Appare chiaro da questa affermazione perentoria di Langbehn che l’obiettivo del nostro lavoro non è di tipo biografico. Non è nemmeno critico-letterario, de-costruttivo, teso a sovrapporre testo e contesto in un hegeliano sopraggiungere dell’indifferenziato¹⁷. Il piano etico e quello estetico, vita e opera, sono inseparabili. Gli studiosi che si sono occupati di Langbehn nei decenni passati hanno vanamente cercato di individuare un filo logico e coerente nelle peregrinazioni di questo strano figuro, lasciandosi spesso prendere da un’eccessiva – e a nostro modo di vedere ingiustificata – vis polemica riferendosi al suo approdo volksthümlich. Alcuni (Fritz Stern e George L. Mosse) lo hanno inserito tra i benemeriti precursori del Terzo Reich, tra una sequela di personaggi oscuri, secondari, afflitti da ressentiment, invidiosi, catatonici; degenerati, in poche parole (Untermensch?)¹⁸. Non sono stati gli unici a de-umanizzare i cosiddetti nazisti in nuce semplicemente diagnosticandone patologiche devianze. Abbiamo anche alcuni psichiatri tedeschi degli anni Trenta (Hans Bürger-Prinz), che, compiendo un’operazione speculare agli ebrei émigrées negli Stati Uniti, lo hanno inserito nella categoria degli irriducibili schizofrenici, degli individui sconfitti dalla vita, dei fanciulli adusi alla sublimazione artistica, che Sigmund Freud definirebbe incapaci – da buoni membri del ceto borghese – di sfuggire all’edipica castrazione del Dio-padre¹⁹.

    Accanto alla strabordante – e non sempre critica – produzione della storiografia ad hominem, che ha fatto professione di fede di un umanesimo quantomeno sospetto, la letteratura langbehniana ha seguito le alterne vicende delle differenti correnti etico-politiche di volta in volta intervenute nel dibattito sull’arte. Abbiamo un filone di studi interessato unicamente al volume su Rembrandt in chiave propedeutica alla cosiddetta Heimatkunstbewegung o al Kunsterziehungbewegung, cioè all’arte quale catartica porta d’accesso al suolo materno o alla educazione creativa²⁰. Abbiamo un filone folcloristico, interessato a riscoprire il gusto dei sapori locali e popolari (pittorici e artistici, in special modo)²¹. Abbiamo un filone di studi più marcatamente macro-politico, che, non sfuggendo del tutto all’aurea legge della casualità storica, dibatte intorno alla forza e alle forme assunte dalle destre antisemite, imperialiste e pangermaniche nel lungo fin secolo tedesco²². Abbiamo un filone storico-artistico, di nuova germinazione, più interessato a comprendere le dimensioni della ricezione dell’opera di un autore (nel caso specifico, Rembrandt)²³. Accanto a novelle querelle tra antichi e moderni, vale a dire intorno alle dimensioni del classico greco e medievale nella creazione di una mitologia germanica, va osservata la quasi totale assenza di un dibattito serio sul cattolicesimo germanico. Molto è stato scritto e detto intorno al carattere strumentale assunto dal cristianesimo in funzione di mitogema arianizzante e de-giudaizzante²⁴. Pochi, a nostra conoscenza, sono i contributi dedicati a un cattolicesimo nietzschiano²⁵.

    I lavori recenti di storici tedeschi come Stefan Breuer hanno aperto nuovi spiragli di luce intorno alla varietà di paradigmi scientifici elaborati dalle destre in epoca Guglielmina, fornendoci importanti, preziose e nondimeno euristicamente poco utili casistiche della konservative Revolution (rivoluzione conservatrice)²⁶. La tendenza a sovrapporre uomo e (un) libro (Langbehn e Rembrandt come educatore), motivata in base a una pur comprensibile prudenza filologica, ha tuttavia decurtato lo studio dell’uomo del corno archeologico precedente (la tesi di dottorato sulle figure alate nell’arte greca) e di quello cattolico successivo (la raccolta aforistica del «tedesco Rembrandt» e il postumo Spirito del tutto). Langbehn e Nietzsche si incontrarono personalmente solo nel 1889, quando il filologo classico si trovava ricoverato nella clinica psichiatrica jenense. È forse possibile parlare di una sorta di passaggio di consegna tra i due uomini? Se la risposta può essere positiva, come spiegare gli sforzi operati dal discepolo di Langbehn, il monaco benedettino Momme Nissen, durante gli anni Venti (esattamente dopo il 1925, anno di morte del vescovo Wilhelm von Keppler, strenuo avversario del modernismo cattolico), per recuperare integralmente la figura (Gestalt) del suo maestro attraverso la pubblicazione di un lavoro biografico e del suo opus cattolico? Come spiegare la veemente reazione mondo evangelico tedesco riflessa in una serie di studi biografici dedicati al tedesco-Rembrandt? Che ne è della comprensione mostrata dalla rivista «Zwischen den Zeiten», vicina alla teologia della «Parola di Dio»? Che cosa vi è di eretico nel ravvisare il carattere decisamente iper-moderno di un cristianesimo ctonio?²⁷

    Abbiamo deciso di intitolare il libro Apoteosi della germanicità, per sottolineare come l’epopea langbehniana testimoni il momento culminante di un processo storico e culturale tedesco. Il sottotitolo indica il carattere (e provenienza) europeo – e non unicamente tedesco – delle vicende personali e intellettuali di questo critico della cultura. Da una parte abbiamo voluto rimarcare la «continuità» discontinua che connota la vita e l’opera di Langbehn. Dall’altra, abbiamo segnalato il carattere più propriamente occidentale delle sue inquietudini, dei suoi viaggi e delle sue risposte esistenziali²⁸. Le fonti utilizzate sono per lo più scritti editi, articoli di giornali e di rivista, con un ampio ricorso alle pubblicazioni secondarie di carattere storiografico, letterario, antropologico, sociologico e filosofico. Non è stato possibile lavorare sui materiali d’archivio, se non marginalmente. Le carte di Langbehn depositate all’Università Carl von Ossietzsky di Amburgo sono frammentarie, illeggibili e pressoché inutilizzabili. Le altre corrispondenze reperite in altri fondi archivistici qua e là per la Germania ci testimoniano unicamente l’esistenza di rapporti con uomini del mondo culturale e politico tedesco, peraltro già segnalati da Momme Nissen nella sua biografia del 1927. Un unico grande rammarico che ci resta è quello di non essere riusciti a lavorare adeguatamente sul materiale iconografico, seguendo gli spunti di Giovanni Morelli e inseguendo i riferimenti langbehniani alle opere di Rembrandt presenti nel libro del 1890 e altrove.

    Il primo capitolo è dedicato al lavoro dottorale sulle figure alate (Flügelgestalten) nell’arte greca arcaica. Abbiamo deciso di fornire un breve quadro biografico del giovane Langbehn, per poi sospingerci sulla Gestaltung dell’archeologia classica ottocentesca (nel caso specifico, Heinrich Brunn, il maestro winckelmanniano del nostro personaggio). Dopo un’analisi dell’opera dottorale, abbiamo cercato di misurare le argomentazioni di Langbehn attraverso un confronto con altre pubblicazioni dell’epoca (il dizionario enciclopedico di mitologia greco-romana curato da Roscher). Ci siamo infine sospinti sull’ottava tesi avanzata dal candidato durante la difesa della sua dissertazione: che un’estetica sia concepibile solo come risultato finale di una storia dell’arte comparata.

    Il secondo capitolo è dedicato all’accantonamento della carriera universitaria e alla formazione della bassa-germanicità (Niederdeutschtum). Siamo partiti dal fitto scambio epistolare (l’unico, a dire il vero, utilizzabile) con il docente ginnasiale Johannes Muhl per mettere in evidenzia la netta contrapposizione tra filologia (parola) e umanesimo insorta in Langbehn dopo la fine della sua carriera universitaria. Abbiamo poi esaminato le sue peregrinazioni in lungo e in largo per la Germania che lo avrebbero condotto alla redazione di un lavoro preparatorio al libro su Rembrandt: Niederdetuschtum, un contributo di psicologia dei popoli. Dopo un’adeguata contestualizzazione di questo scritto, abbiamo ricostruito i rapporti intrattenuti con Paul de Lagarde e Friedrich Nietzsche. Che cosa avvicinò l’archeologo di Hadersleben all’orientalista autore dei Deutschen Schriften (Scritti tedeschi, 1878) e al filologo sassone distruttori degli idoli a colpi di martello? Che cosa li rendeva diversi l’uno dall’altro?

    Il terzo capitolo è dedicato al libro su Rembrandt. Abbiamo inquadrato brevemente il problema del tratto pittorico allo specchio della nazional-popolarità tedesca di fine Ottocento, cioè della validità dell’arte per una cultura viva e popolare. Dopo una breve digressione sullo scritto nietzschiano Schopenhauer als Erzieher (Schopenhauer come educatore, 1874), abbiamo ricostruito una sorta di genealogia della Gestalt rembrandtiana nel mondo europeo e tedesco di fine Ottocento. Dalla Farbenlehre (Dottrina dei colori, 1810) di Goethe siamo approdati sulle lezioni di estetica hegeliane, giungendo poi a un saggio di Jacob Burckhardt su Rembrandt e agli studi di Wilhelm von Bode, futuro direttore dei musei berlinesi. Abbiamo poi inseguito Langbehn nei meandri del suo opus magnus dedicato a Rembrandt (ventiquattresima edizione). Siamo infine approdati sul grande dilemma tra visione e parola che attanaglia non solo questo libro, ma anche il rapporto tra etica ed estetica novecentesco.

    Il quarto capitolo è dedicato alla prima ricezione del libro su Rembrandt. Siamo partiti dal dilemma langbehniano (e tipicamente europeo) tra cultura e civilizzazione (spirito e materia, anima e corpo, eccetera), con l’obiettivo di analizzare la penetrazione del suo estetismo vitalistico nel mondo tedesco di fine Ottocento. Abbiamo privilegiato la pamphlettistica e le recensioni apparsi su giornali e riviste, proprio per carpire la profondità e la capillarità della diagnostica langbehniana. Abbiamo poi scorso la raccolta di Quaranta Lieder edita nel 1891 e subito ritirata dal commercio a seguito dell’accusa di contenuto «unsittlich» di alcuni. Siamo infine approdati sulla raccolta aforistica che crea il mito del «tedesco Rembrandt» (Rembrandtdeutsche), ponendo in un certo senso fine all’esperienza direttamente rembrandtiana di Langbehn.

    Il quinto e ultimo capitolo inizia dalla conversione di Langbehn al cattolicesimo. Siamo partiti dal percorso convulso e tutt’altro che lineare seguito da Rembrandt come educatore, che, ormai sganciatosi dall’autore, ha attraversato una poliedrica ricezione nella Germania di fine Ottocento e inizio Novecento. Siamo poi approdati sulle vicende personali del tedesco-Rembrandt, inseguendo le tappe del suo avvicinamento alla Santa Madre Romana Chiesa. Abbiamo constatato il profondo dialogo intessuto con il vescovo württemberghese Wilhelm von Keppler. Ci siamo soffermati sugli ultimi scritti editi da Langbehn (in collaborazione con Momme Nissen). Abbiamo infine dedicato un paragrafo alla ricezione dell’opera

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