Gli ultimi frutti dell'estate
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Info su questo ebook
Parole e pagine forti, ad alto peso specifico. Sullo sfondo la disastrosa alluvione del 1994 in Piemonte e le ombre cupe e grevi di tangentopoli.
La narrazione prosegue con una discesa nella terra natia, per la malattia e la morte del padre, a ripercorrere e ritrovare simbolicamente il passato e il tempo perduto, scoprire alcune radici, rievocando il conflitto tra generazioni e quello tra padri e figli, e le riflessioni, i vagheggiamenti sui grandi temi dell’uomo: i sentimenti, il dolore, la religiosità, la malattia, la morte, che ci riportano al tema sempre drammaticamente attuale della “Ospedalizzazione della vita”.
Infine, altre riflessioni e dialoghi dai quali si intravede il contesto politico e sociale di un Paese sempre alle prese con i sempiterni vizi e mali, che non riesce mai a fare i conti con la storia. Il libro e questa storia nascono per contribuire a dare memoria al futuro, in un’epoca in cui la memoria scarseggia o è assente e la società sembra condannata a un eterno e confuso presente.
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Anteprima del libro
Gli ultimi frutti dell'estate - Salvatore Vullo
3
Salvatore Vullo
Gli ultimi frutti
dell’estate
ROMANZO
Nerosubianco
ISBN EDIZIONE DIGITALE 9788832035100
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Grafica di copertina:
Sabrina Ferrero
© Nerosubianco edizioni 2020
Via Torino, 29 bis - 12100 Cuneo
Tel. (+39) 0171 411921
www.nerosubianco-cn.com
Tutti i diritti riservati
Il presente romanzo va considerato un prodotto della fantasia dell’autore.
Ogni riferimento a persone, luoghi, avvenimenti,
fatti storici presenti o passati, sono da attribuire al caso.
A mia moglie
A mio figlio, in una ideale continuità
per contribuire a dare memoria al futuro
Capitolo 1
In quell’autunno del 1994 anche il clima era preda di furori.
Pioveva ininterrottamente da parecchi giorni. Tutto il nord ovest era imprigionato da nuvole nere, profonde, persistenti, sempre gravide di pioggia che mandavano giù fitta, intensa, costante, senza tregua.
Vagavo, come ormai facevo da tempo, ogni giorno, per la grande città che ora, con quel clima, quella pioggia, sembrava ancor più triste e cupa. E ora il mio vagare per la città si era fatto più intenso, spasmodico, come per un desiderio inconscio di voler affogare in essa, annientarsi; vagheggiavo forme di consunzione, spossato e annichilito com’ero dall’altro più devastante furore che imperversava da quasi tre anni sull’intero Paese e che aveva creato un clima di paura, o meglio di vero e proprio terrore, quello che si crea durante le rivoluzioni, promosse e alimentate da una cosiddetta opinione pubblica che vigila, aizza, tiene alta la tensione, redige liste di proscrizione, lancia modelli comportamentali etici, eccita l’azione dei comitati di salute pubblica.
Un furore iconoclastico che stava seppellendo la Repubblica, e con essa partiti, idee, fatti, istituzioni, la politica, la storia, e soprattutto migliaia di uomini e donne, colpiti e annientati nel fisico e nell’onore, prima ancora di processi e sentenze, stritolati da quel nuovo e micidiale ingranaggio mediatico giudiziario, dove ero finito anch’io.
Vagavo da ore senza meta, almanaccando dolente su questo male: male fisico e male morale che ingenerano in noi, come ci insegnano le antiche tragedie greche, inquietudine e angoscia. A un tratto smisi di almanaccare; ebbi la sensazione che l’acqua piovana mi fosse giunta al cervello; la pioggia infatti trapanava anche l’ombrello che tenevo aperto, ed ero tutto bagnato, specialmente i piedi che, camminando, pacioccavano nelle scarpe inzuppate.
Guardai il cielo, ma si vedeva solo la pioggia, e guardai per terra il torrente d’acqua che scorreva e dove sbattevano spruzzanti e assorbenti i miei passi.
L’acqua ristagnava e saliva nelle strade asfaltate. Ma grondava anche laddove c’era il terreno, nei giardini, tra le alberate. La terra era ormai satura d’acqua, non riusciva più ad assorbirla, creando una vera e propria sommersione.
E figuriamoci come poteva essere in aperta campagna. Infatti, si parlava già di alluvione; un’alluvione che stava devastando l’intera regione.
I giornali, i mezzi di informazione e tutta la compagnia di giro, pur mantenendo caldo il fronte del furore contro la politica, con il peana di cronache e inchieste su indagini, arresti, impietosi ritratti degli inquisiti, agiografie degli inquisitori, recensioni e celebrazioni di fiction, libri sulla corruzione politica, da qualche giorno, con il consueto cinismo, a tratti edulcorato da dosi di leziosità e moralismo, si erano letteralmente tuffati nel ghiotto evento alluvionale. I giornali facevano, in progressione con i tempi, quello che avevano sempre fatto, ovvero dare riflesso e amplificazione a quel cinismo, da secoli stratificato nella nostra società.
Del resto, anche l’alluvione offriva spunti interessanti per il ‘Manipulitismo’ imperante; e dunque, giornali e mezzi di informazione, assieme alle cronache sui disastri, sui danni, sulle vittime, cominciavano a parlare di colpe, responsabilità, accuse.
E con l’alluvione in corso, con le notizie ancora precarie e incerte, cominciavano comunque a saltare le prime teste, partivano inchieste giudiziarie e piovevano, appunto, avvisi di garanzia, si aprivano nuovi fascicoli.
E se va sempre bene il detto: Piove, governo ladro! Figuriamoci in questo caso e in questa situazione.
Ma l’evento alluvionale era veramente grave. Giornali e televisioni sfornavano dati e notizie: sul livello storico dei millimetri d’acqua caduti, sul livello di fiumi, torrenti, rii, tutti straripanti, la cui acqua, con forza possente, abbatteva sponde e argini e dilagava violenta per campagne e paesi. Sparivano ponti, strade, ferrovie, case. Le acque dei fiumi rioccupavano i loro antichi alvei naturali, in larga parte urbanizzati o coltivati. Alla fine ci sarebbe stato anche lavoro per l’aggiornamento topografico di mappe e di carte.
E forse proprio qui stava l’incaglio: l’urbanizzazione sempre più spinta, aggressiva; migliaia e migliaia di ettari di terreno che diventavano case, palazzi, villette a schiera, viali, capannoni, aree industriali, strade, autostrade, ferrovie, aeroporti; si imbrigliavano e cementificavano sponde e letti di fiumi e torrenti. Un sistema moderno e avanzato, ma fragile, vulnerabile, devastabile anche da una pioggia intensa e da altri simili eventi calamitosi.
Le acque, nel loro vortice mortale, trascinavano strutture e cose e animali: nelle campagne sommerse, assieme a balle di fieno e suppellettili varie, galleggiavano carcasse di vacche, pecore, galline, cani; e inghiottivano anche uomini; si contavano già venti persone morte e tantissime disperse. Un dato impressionante, anche perché erano tante le città e i paesi attraversati da quei fiumi, le cui acque avevano sommerso interi quartieri.
I fatti più gravi si erano verificati lungo il percorso del fiume Tanaro, le cui acque avevano assunto una portata mai registrata nella storia; discendendo impetuoso da Ceva nell’alta Val Tanaro in giù e ingrossato più a valle, all’altezza di Cherasco, dall’affluente Stura di Demonte, il Tanaro, in sequenza e con impeto crescente, aveva alluvionato la città di Alba, quindi Asti e infine Alessandria; un percorso letale che le acque del Tanaro avevano compiuto in diverse ore, ma in questo lungo intervallo di tempo non era scattato nessun allarme per le città più a valle; quantomeno sarebbe servito a salvare qualche vita umana.
Altro torrente nefasto si era rivelato il Belbo, i cui danni a uomini e cose erano ancor più gravi se paragonati alla sua breve lunghezza; infatti, prima di andare a ingrossare il Tanaro dove confluisce