Indiana libera tutti
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Info su questo ebook
Avrebbe voluto giocare a calcio, ma sua madre Lorella Pacini, casalinga, e suo padre Paolo Mannucci, operaio alla fabbrica siderurgica di Piombino, furono irremovibili.
Indiana va, controvoglia agli allenamenti di pallavolo, e vive un anno da ragazzina alle prese con vecchi e nuovi incontri, le estati a Scarlino Scalo che si ripetono fra scoperte e ricordi, i film e il mar Tirreno.
A introdurre ogni capitolo, un disegno “cinematografico” realizzato dall’autrice.
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Anteprima del libro
Indiana libera tutti - Francesca Lenzi
Francesca Lenzi
INDIANA LIBERA TUTTI
Edizioni Il Foglio
NARRATIVA
Direttore: Gordiano Lupi
www.edizioniilfoglio.com
Via Boccioni, 28 – 57025 Piombino (LI)
© Edizioni Il Foglio – 2020
1a Edizione – Giugno 2020
ISBN CARTACEO 9788876068058
Elaborazione grafica e impaginazione | shangrya@libero.it
Realizzazione ebook | lucawriter@libero.it
ISBN: 9788876068065
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
1. Indiana
2. Moralismo
3. Incubi
4. Occhiali
5. Tintin-agers
6. Febbre
7. Natale
8. Pranzo
9. Mario
10. Carnevale
11. Cinema
12. Marcovaldo
13. Amico
14. Lucianino
15. Estate
16. Scarlino
17. Basta
18. Clown
19. Ste
20. Indiana libera tutti
NOTE A MARGINE
Mi hai accompagnata per mano e io non ho avuto paura
Ne sono uscita dopo un po’, e tu eri sempre lì, accanto a me
A Francesca, con amore
Nelle città senza Mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio… forse alla Luna.
Banana Yoshimoto
Il mare che ieri era un torbido fondo di nuvola ai margini del cielo, si fa una striscia d’un cupo sempre più denso ed ora è un grande urlo azzurro al di là d’una balaustra di colline e case.
Italo Calvino
Noi non cresciamo, in assoluto, in sintonia con lo scorrere del tempo. Cresciamo a volte in una dimensione e non in un’altra, in modo discontinuo. Cresciamo in modo parziale. Siamo relativi. Siamo maturi in un ambito, infantili in un altro. Il passato, il presente e il futuro possono mescolarsi e trascinarci indietro, avanti o bloccarci nel presente. Noi siamo composti di strati, di cellule, di costellazioni.
Anaïs Nin
I PREDATORI DELL'ARCA PERDUTA (1981) di Steven Spielberg
1. Indiana
Odiava quei pantaloncini di spugna come nessun’altra cosa al mondo. Erano dei mutandoni informi di colore blu marino che le fasciavano il fondoschiena in maniera insolente, tagliandole – da una parte e dall’altra – la pelle, lasciandole un’impronta profonda. Così tenace da andar via, una volta tolti di dosso gli slip, soltanto dopo moltissimi minuti.
Quei pantaloncini erano un motivo in più per odiare la pallavolo. Erano il motivo principale per odiarla, pensava Indiana Mannucci, nata l’11 luglio del 1982 a Piombino, 30mila anime arroccate nella costa livornese, sull’angolo più vicino al mar Tirreno.
Avrebbe voluto giocare a calcio, Indiana, ma i suoi furono irremovibili.
Sua madre, Lorella Pacini, dopo aver provato a iscriverla a un corso di danza classica, trovò accettabile dirottare le proprie aspirazioni su uno sport più dinamico, ma comunque adeguato alla sua bambina, come la pallavolo. Il calcio era fuori discussione. E il fatto che la squadra femminile avesse sede, e si allenasse tre volte alla settimana, a 30 chilometri di distanza da Piombino, le era sembrato un incentivo ulteriore affinché di pallone, in casa loro, non se ne parlasse più.
Suo marito, Paolo Mannucci, aveva concordato. O meglio, era rimasto in silenzio, com’era solito fare. Non tanto per arrendevolezza nei confronti della moglie, quanto per reale disinteresse riguardo alle faccende della propria famiglia.
C’è da dire che la stessa apatia, il Mannucci, la mostrava in qualsiasi argomento, davanti a qualsivoglia individuo, e nel medesimo luogo e tempo. Semplicemente l’unico suo interesse, seppur minimo, verteva sulla sintonizzazione della nuovissima tv digitale che aveva acquistato poche settimane prima. Eppure, quella stessa premura tradiva in realtà la sua natura fondamentalmente sciatta e priva del benché minimo estro.
Il rituale giornaliero, infatti, prevedeva che il Mannucci si alzasse dal letto abbastanza presto per non potersi recare subito alla tavola per pranzo, e altrettanto tardi per sedersi con calma e coscienza a fare colazione con la famiglia. Detto ciò, dopo un paio di minuti dentro al gabinetto per espletare le funzioni fisiologiche, comprensive di raschiata di gola, biascicata indolente di fronte allo specchio e autopalpazione dei testicoli, l’uomo si trascinava sulla poltrona in soggiorno, vi si sistemava con cura e, con la mano destra prendeva il telecomando appoggiato sul mobiletto. Da lì in poi sembrava mettersi in atto un lavoro attento e scrupoloso che consisteva nel girare canale ogni 20 secondi. Senza un concreto stimolo esteriore, né una qualche capacità di discernimento su una trasmissione rispetto a un’altra. Soltanto il Mannucci premeva il suo indice destro sul tasto di avanzamento canali. Con invidiabile perizia ritmica, alla velocità di 20 secondi alla volta.
Sarebbe bello poter dire che un tempo era stato diverso. Sarebbe però una bugia. Paolo Mannucci, nato nel grossetano, a Scarlino Scalo, frazione del paese, in un borgo di qualche centinaio di famiglie, perlopiù impiegate nel lavoro della terra, probabilmente c’era nato con quell’irritante noncuranza, di se stesso e del prossimo. Quando il padre, Sesto Mannucci, si raccomandò al responsabile della produzione della fabbrica siderurgica di Piombino, figlio in carriera di un vicino di campo, perché si prendesse il suo di figliolo a lavorare, Paolo accettò di buon grado. Né felice, né triste, né arrabbiato.
E dentro lo stabilimento, per contrappasso, si guadagnò dopo pochissimo tempo il soprannome di Fatica
. Non che la cosa lo disturbasse particolarmente e quando, dopo quindici anni, quattordici di matrimonio e undici da che si risvegliò padre, lo stabilimento mise il 50% dei lavoratori in cassa integrazione, per lui fu quasi un sollievo. E mentre tutti gli altri – o almeno gran parte degli altri – scioperavano, contestavano e si preoccupavano, il Mannucci aveva trovato nell’ozio la sua perfetta dimensione di estraneo alla vita.
Non si era minimamente interessato neppure al nome da dare a sua figlia. Avesse potuto, avrebbe scelto di chiamarla Bimba
oppure Ehi
per tutto il resto del tempo.
Sua moglie, però, non era d’accordo, e dopo moltissime idee e tantissimi tentativi, decise per un nome neutro, che potesse andar bene sia a un maschietto che a una femminuccia.
Dovete sapere che la signora Lorella Pacini, nell’ottobre del 1981, ancora ragazza, approfittando dell’unico cinema presente a Piombino, era andata con le amiche a vedere Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta. E, perdutamente innamorata di Harrison Ford, quando un mese più tardi si accorse di essere incinta, nonostante la stravaganza del caso, scelse con soddisfazione il nome Indiana.
Lasciando da parte tutte le difficoltà di una bambina della provincia livornese alle prese con il nome di un archeologo avventuroso e un pizzico dongiovanni, Indiana pensava proprio a quanto fossero orrendi quei pantaloncini da pallavolo. Lo pensava quel pomeriggio di novembre dell’anno 1994 mentre, uscendo da casa, si impegnava a percorrere i 300 metri che dividevano la sua abitazione dal palazzetto dello sport dove si svolgevano gli allenamenti. Lo pensava mentre, con la mano destra provava a prendere quei mutandoni di spugna da un lato, sotto la tuta di ciniglia, nel disperato tentativo di toglierseli dal sedere. Lo pensava mentre si domandava se credere o meno a sua madre quando, di fronte alla figlia angosciata per il secondo giorno di mestruazioni, l’aveva rassicurata. No, tranquilla, bambina mia, non si vede il pannolino. Vai serena incontro al tuo allenamento di pallavolo, con i tuoi splendidi mutandoni di spugna color blu marino.
Secondo Indiana si vedeva benissimo l’assorbente. Era impossibile non notarlo in quei pantaloncini strettissimi. E per quanto la riguardava, le sembrava altrettanto improbabile che lo stesso non facesse di tanto in tanto capolino dagli slip durante la seduta di allenamento.
Però credeva a sua madre. E, dopo aver avuto la vita rovinata a soli 11 anni dal primo ciclo, pensava di potersi meritare almeno una gioia. E in mezzo ai crampi e al dolore alla pancia, fra il mal di testa e il sangue che le scendeva fra le gambe una settimana al mese, fare una figuraccia con le compagne di squadra e con la mister, non rientrava esattamente nello spiraglio di gioia che credeva di meritarsi.
Per questo quando entrò in palestra, e poi nello spogliatoio, non si preoccupò più tanto dei mutandoni e del pannolino chiuso dentro di essi. Per un attimo immaginò anche di divertirsi a uno sport che odiava, vestita come una cretina egocentrica. Ma durò poco. Dopo una manciata di minuti l’allenatrice la chiamò, le si avvicinò e, chinandosi su di lei, le disse a bassa voce: «Indiana, hai le mestruazioni?».
Indiana sussultò come se avesse preso un pugno. Guardò la mister come un ladro costretto dalla fame al primo furto, e non disse nulla.
«Credo che tu ti sia sporcata», riprese la donna, con uno sguardo di materno dispiacere.
Indiana la guardò per altri cinque secondi, poi girò la testa e se stessa per un altro tempo indefinibile, abitato dai sorrisetti cattivi delle compagne e dal loro chiacchiericcio infantile. Quindi, corse e si infilò nello spogliatoio e, ancora, dentro il gabinetto dello spogliatoio. Si sfilò slip e pantaloncini senza togliersi le scarpe e, oltre a vedere il gonfiore dell’assorbente all’interno dei mutandoni di spugna, guardò con colpevole vergogna le macchie scure che li avevano bagnati ai lati. Il blu marino in quei due punti era diventato un miscuglio schifoso di cobalto e rosso Borgogna che partiva dall’altezza della sua vagina per scorrere fino a metà sedere.
Buttò tutto nella borsa, si mise un altro slip pulito, la tuta di ciniglia e in meno di un minuto era fuori dallo spogliatoio e dalla palestra. E mentre percorreva a ritroso quei 300 metri di strada dal palazzetto a casa sua, ancora carica di un peccato originale del tutto nuovo, feroce ed eterno, giurò a se stessa che non avrebbe più indossato quei mutandoni di spugna blu marino, diventati un miscuglio schifoso di cobalto e rosso Borgogna.
Non fu così, e Indiana tornò ad allenarsi. Riuscì soltanto a convincere sua madre ad aspettare la fine delle mestruazioni. E dopo una settimana si ripresentò al palazzetto, con la solita tuta di ciniglia e, sotto, i pantaloncini di spugna smacchiati a dovere. Forse smacchiati anche troppo. O forse era soltanto un’impressione, ma Indiana ogni volta che se li infilava, o se li toglieva, vedeva ai lati il blu marino diventato più chiaro, quasi un ceruleo legato indissolubilmente alla sua colpa.
CARRIE SGUARDO DI SATANA (1976) di Brian De Palma
2. Moralismo
Si può serenamente affermare che Indiana avesse due grandi passioni nella vita. Una un po’ più grande rispetto all’altra. Le piaceva molto leggere, e amava visceralmente il cinema. Spesso le due cose erano dipendenti, come nel caso di Carrie White, protagonista del romanzo di Stephen King, trasferita sul