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120 e Lode
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E-book234 pagine3 ore

120 e Lode

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Info su questo ebook

"Durante i primi anni '70 un allegro gruppo di ragazzi frequenta il CUAMM di Padova per diventare medici. La simpatica brigata si esibisce in avventure picaresche che occupano il tempo non impiegato nello studio. Spensieratezza, irruenza giovanile ed anche qualche perdonabile scappatella; tutto in qualche modo prevedibile in quegli anni ed in quel contesto sociale. E' in questo scenario che un giorno sbuca, in mezzo a questa simpatica combriccola, Bruno, uno studente un po' più vecchio che viene dalla provincia di Mantova. Le strade battute dagli altri ragazzi per affermarsi sono lunghe, tortuose e faticose; fatte di impegno, studio, lavoro ed anche speranza in qualche colpo di fortuna. Lui no. Bruno dribbla tutti i passaggi che per gli altri (come tutti noi) sono necessari ed inevitabili e si costruisce una vita parallela e virtuale, ma non solo falsa e sognata, perché le sue mirabolanti invenzioni non mancano di ricadute concrete e talora anche altamente positive ed altruistiche. E' un imbroglioncello, Bruno, ed anche un bugiardo: ma le sue bugie contengono un tasso talmente alto di creatività da renderle spesso apprezzabili. E quando si laurea Bruno (o meglio, quando finge di laurearsi) non si accontenta del tradizionale e prestigioso 110 e Lode, ma si inventa un fantomatico e paradossale 120 e lode.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2019
ISBN9788831637817
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    Anteprima del libro

    120 e Lode - Alessandro Dall'Oro

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Ve lo ricordate Pavel Ivanovic Cicikov? Era, anzi è, il protagonista de "Le Anime Morte" di Nikolaj Gogol. Fingeva di essere un possidente intestandosi servi, morti tra un censimento e quello successivo, degli altri proprietari terrieri. Viene in mente lui a leggere questo nuovo libro di Alessandro Dall’Oro. È il suo secondo libro. Il primo, "Pane al pane, era un appassionato ricordo del padre che si trascinava dietro anche la memoria autobiografica della sua infanzia. 120 e lode" ne è in qualche misura la prosecuzione temporale in quanto rievoca il tempo della sua vita universitaria, al CUAMM di Padova, per diventare medico. Assieme a lui un’allegra brigata goliardica si esibisce in avventure picaresche che occupano il tempo non impiegato nello studio. Spensieratezza, irruenza giovanile ed anche qualche perdonabile scappatella. Tutto in qualche modo prevedibile in quegli anni: i primi anni ‘70, e in quel contesto sociale.

    Senonchè spunta in mezzo a questa compagnia appunto il Cicikov della Pianura Padana, destinato a diventare il vero protagonista di quello che sarà un vero romanzo e non solo un racconto memorialistico. Si tratta di Bruno, uno studente un po’ più vecchio di loro, che viene da Felonica, un paesetto in provincia di Mantova, ma incuneato tra Veneto ed Emilia Romagna. Bruno, come Cicikov, è uno che non si rassegna alla realtà come si presenta nella vita "normale. Le strade battute dagli altri per affermarsi sono lunghe, tortuose e faticose. Fatte di impegno, studio, lavoro ed anche speranza in qualche colpo di fortuna. Lui no. Interpretando a suo modo il motto homo faber fortunae suae", attribuito ad Appio Claudio Cieco ma poi diventato lo slogan della rivoluzione copernicana, dribbla tutti i passaggi che per gli altri sono necessari ed inevitabili, e si costruisce una vita parallela e virtuale, ma non solo falsa e sognata, perché le sue mirabolanti invenzioni non mancano di ricadute concrete e talora anche largamente positive ed altruistiche. È un imbroglioncello Bruno, ed anche un bugiardo: ma le sue bugie contengono un tasso di creatività da renderle spesso apprezzabili. E senza bugie non avremmo né l’Odissea né l’Orlando Furioso, e neanche la Divina Commedia e tutti gli altri capolavori della letteratura che ne sono letteralmente infarciti. Bruno non si tira indietro di fronte a niente. Un amico non riesce a superare l’esame di fisica? Sa ben lui come fare con una spericolatezza che sfiora e forse oltrepassa i limiti della legalità. C’è da saltare una coda? Si inventa ben lui amicizie altolocate, di quelle che aprono tutte le porte. È il principe del millantato credito. Parla e convince con facilità, come Ulisse. Sa trasformarsi in affidabile professionista pur privo di qualsiasi titolo come Zelig. E tutto spesso senza un vero rendiconto personale. Anzi si presta anche a fare del bene pur di esplicare e sublimare la sua arte camaleontica, pur di dare spettacolo sul palcoscenico della vita. Anche se non tutte le ciambelle riescono col buco... Bruno è un personaggio vero e insieme romanzesco: contiene una dimensione comica ma anche una tragica. Egli vive una vita che non è sua, sempre sulla corda, sempre in bilico, sempre col pericolo dello sbugiardamento che egli riesce spesso miracolosamente ad evitare, al costo di un’ulteriore raffica di bugie. È una presenza a volte leggera e volatile, talora affascinante e misteriosa, alla fine anche commovente e pietosa, ricordata dall’autore con affetto, nostalgia e calore umano. E quando si laurea, Bruno, o meglio: quando finge di laurearsi, non si accontenta del tradizionale e pur prestigioso 110 e lode. Si inventa un iperbolico e paradossale 120 e lode che dà appunto il titolo al libro. Era un autentico personaggio in cerca d’autore e finalmente lo ha trovato.

    Alessio Alessandrini

    Capitolo I

    Nella confusione e tra gli applausi che accompagnavano l’addio al feretro si fece viva una voce nota e inconfondibile:

    «Fabaaa, che t’ha cunà (chi ti ha cullato)... finalmente ti ho scovato. Ci voleva proprio la morte di don Luigi per stanarti dalla tua Portogruaro».

    «Landru, che t’ha cunà, dovevo immaginare che il vecchio mandrillo veronese non poteva mancare all’appuntamento di oggi. Che bello rivederti dopo tanto tempo». Seguì un abbraccio affettuoso tra i due.

    Poi continuò: «Vieni con me dal lato del Battistero, avrai una gradita sorpresa: ci sono Rusticus, Ameba, Ben Hur e Gino Magna».

    Il festoso incontro dei vecchi amici fece un baccano della miseria e provocò occhiate a dir poco adombrate tra le numerose persone ancora presenti alla triste cerimonia. Landru riprese in breve l’antico ruolo di animatore della compagnia, sboccato e irriverente:

    «Tosi, vi trovo tutti cambiati, mosci e malandati.

    Sembrate delle mummie. Mi sa che tutto in voi si sta spegnendo e qui urge una cura da cavallo! Perché non ci riuniamo spensierati una sera in qualche localino a festeggiare come ai bei tempi la ritrovata compagnia? Sarebbe l’occasione propizia per riattivare la microcircolazione dell’ippocampo e risvegliare sensi perduti e dolci ricordi».

    L’idea, seppure venata dal consueto graffiante sarcasmo, fu accolta di buon grado. Solo un evento straordinario come il funerale del compianto don Luigi, amato e storico direttore del CUAMM, il Collegio Universitario Aspiranti e Medici Missionari, li aveva schiodati dalle incombenze quotidiane e obbligati all’incontro nell’affollato sagrato del Duomo di Padova poco prima del Natale 2015. Il patto di ritrovarsi a cena fu mantenuto, e nel febbraio 2016 sei signori anzianotti, incanutiti, spelacchiati, dal volto pacioso, dai profili debordanti e dal passo un po’ appesantito, si diedero convegno presso un noto ristorante all’uscita autostradale di Padova ovest. Landru, Faba, Ameba, Rusticus, Ben Hur e Gino Magna, vagamente rassomiglianti ai giovani pimpanti di un tempo ma ancora provvisti di una lingua sciolta nel raccontare barzellette e «cazzate» varie, ostentarono quella sera una inaspettata vivacità e una sorprendente sensibilità ai ferormoni! I rapporti fra di loro si erano allentati molto tempo prima per poi interrompersi. Poco prima del 2000, le figlie di Faba e Anna vollero sorprendere i genitori invitando a pranzo per i loro venticinque anni di matrimonio i testimoni di nozze: Landru, Rusticus e la moglie di questi, Amanda. Un incontro inatteso e commovente a Caorle, dove si parlò a lungo e con nostalgia di tutti gli altri amici goliardi che tanto avevano animato la vita dei primi anni universitari all’interno del collegio CUAMM. Fu quella la prima occasione, dopo tanti anni, in cui si scambiarono notizie aggiornate, anche se abbastanza vaghe, sulla vecchia compagnia. Si venne a sapere così che Ameba, rientrato dall’avventura brasiliana senza la compagna carioca, svolgeva la professione di medico di famiglia in uno sperduto paese del Veneto. Lupus, mai più incontrato dopo la laurea, forse lavorava in un borgo di montagna del Friuli. Arnold, il cinese, era stato assunto come anestesista in un ospedale del Veneziano ed era già impelagato in una rogna legale per un incidente in sala operatoria. Ben Hur, dopo la specializzazione in Oculistica, era convolato finalmente a giuste nozze con una delle due fidanzate e svolgeva la libera professione in provincia di Trento. Di Ho Chi Min si erano perse completamente le tracce. Forse non era neppure giunto alla laurea ed era tornato al suo Lago di Como, a lavorare come bibliotecario nel paesino di origine. Gino Magna aveva saggiamente abbandonato gli studi e si era dedicato con fortuna alla ristorazione in un paesone del Padovano.

    Rimaneva l’enigma Bruno. Le notizie pervenute su di lui erano decisamente tristi. Sembrava certo che avesse lasciato questo mondo a cavallo tra gli anni ottanta e Novanta, in condizioni pietose, abbandonato da tutti gli amici, nella sua poco amata Felonica. Dopo l’incontro festoso di Caorle si profilò un altro lungo silenzio interrotto solo dal funerale dell’amico Arnold avvenuto nei primi anni del Duemila: una devastante epatite, causata da una puntura d’ago infetto in un banale incidente di lavoro, lo aveva inesorabilmente stroncato!

    Ora, il manipolo di vecchi goliardi, rinfrancati dall’aperitivo a base di prosecco, era pronto ad iniziare la caciara. Sentirono il dovere di evocare dapprima l’indimenticabile figura di don Luigi. Chi era rimasto legato al CUAMM e aveva fatto esperienza in terra di missione non poteva non ricordare le sue celebri telefonate notturne alla disperata ricerca di un medico volontario disponibile a partire in pochi giorni per una nuova «emergenza». Faba, o meglio, la moglie Anna, fu l’ultima in ordine di tempo a ricevere una simile chiamata. All’inizio di maggio del 2015, pochi mesi prima della morte, Il Don telefonò a tarda sera alla frastornata e incredula donna chiedendole di lasciar partire il marito, già in pensione, per la Sierra Leone come chirurgo di rincalzo nell’ospedale di Lunsar, dove ancora imperversava l’ebola, in sostituzione di un collega che doveva rientrare in Italia:

    «Si tratta di una missione breve, di soli due mesi... stai tranquilla... non corre alcun serio pericolo... vedrai che se la caverà bene». Sapeva, il volpone, che il vero ostacolo da superare era lei.

    La prima risposta fu un secco «no». Ma don Luigi non era tipo da demordere, non perdeva mai la speranza e le sue preghiere, inoltre, avevano un grande potere. Anna non ci stava a rimanere a casa sola nel terrore che il marito potesse contrarre il letale virus ancora attivo in quella zona d’Africa. Ci volle tutta la santa ostinazione del Don per convincere ambedue ad accettare. Faba partì alla volta della Sierra Leone imbottito di vaccini come un cavallo dopato. Fu una missione breve, intensa, rischiosa, sofferta, con un susseguirsi di emergenze spesso raccapriccianti, in un contesto allucinante, difficile da gestire, e anche da comprendere per chi non l’abbia vissuto. Per fortuna tanto disagio fu compensato anche da esperienze umane di indimenticabile tenerezza, che furono di sollievo. Al suo rientro, Faba trovò don Luigi molto malato. Le cure non sembravano più capaci di frenare l’inesorabile e fatale evoluzione della malattia. L’unica speranza era riposta nella sua forte fibra, che tante volte in passato gli aveva permesso di superare momenti difficili a dispetto di prognosi severe. Il Don fece intuire con serenità che questa volta la candela era davvero alla fine. Prima della morte, Faba ebbe il privilegio di assisterlo per qualche ora durante l’agonia.

    Ricordato il Maestro e Benefattore, ognuno, tra battute scherzose e simpatiche, fece un breve compendio della propria vita nel periodo postuniversitario. Tutti erano sposati, chi anche divorziato, con figli e nipoti, lutti, grane in famiglia e pure magagne di salute. La gran parte aveva raggiunto l’età pensionabile. Qualcuno continuava la libera professione compreso Ben Hur con lo studio oculistico.

    Rusticus si stava riprendendo da un delicato intervento neurochirurgico alla spina dorsale che lo aveva ridotto quasi alla paraplegia. Ora stava recuperando gradualmente la sensibilità agli arti inferiori sotto l’amorevole cura della moglie Amanda, fisioterapista di professione. Storie diverse, importanti, non sempre felici, che alimentarono la conversazione, la curiosità, tanti ricordi e un senso piacevole di solidarietà. Landru, con alle spalle un matrimonio fallito, rimaneva ancora l’indiavolato goliardo spaccone che si vantava di un’attività sessuale più che rispettabile, seppure millantata. Fece della serata uno spettacolo alla sua maniera.

    Tra i tanti episodi e personaggi del passato non potevano mancare divertenti riferimenti alle lunghe e talora feroci controversie ideologiche con Lupus e Ho Chi Min, i compagni marxisti duri e puri, di cui nessuno ora aveva notizia. Ma chi tenne banco fu senza dubbio Bruno. Furono rievocate, con grandi risate e anche profondo rimpianto, le sue storie clamorose e incredibili. Sapevano della morte avvenuta forse nei primi anni Novanta ma non di come e dove avesse trascorso gli ultimi anni di vita, della fine della famiglia, del luogo di sepoltura.

    Al termine della cena la compagnia si congedò con l’impegno di riunirsi l’anno successivo, portando possibilmente notizie più aggiornate sulla sorte degli amici assenti e in particolare dell’ineffabile e dimenticato Bruno. Faba aveva da tempo progettato di fare delle ricerche su di lui. Un carissimo amico romagnolo, chiamato Giannazza, lo stimolava spesso a realizzare questo proposito. Giannazza aveva sentito parlare più volte di Bruno nei loro frequenti incontri conviviali. Era stato affascinato dalle sue straordinarie doti, dalle vicende rocambolesche, dalle fantasiose bugie che gli richiamavano alla memoria analoghi personaggi, stravaganti e popolari, conosciuti da giovane nella sua bella, focosa e immaginifica terra di Romagna.

    Decise perciò un giorno di telefonare alla parrocchia di Felonica, cittadina natale di Bruno, per contattare il parroco. Una voce registrata rispose che il parroco non aveva più sede stabile a Felonica e se si volevano ulteriori informazioni bisognava rivolgersi alla parrocchia di Sermide. Qui il giovane parroco cadde dalle nuvole e Faba capì che avrebbe perso tempo. Il passo successivo fu chiamare l’Ufficio anagrafe del Comune di Felonica. Ancora una volta cilecca. Uno svogliato e sbrigativo impiegato rispose che non c’era traccia di tal Magrini Bruno. Faba non si diede per vinto e richiamò il giorno seguente lo stesso ufficio. Al telefono rispose questa volta una signora gentile e paziente, esperta di computer. L’insolita insistenza e caparbietà dell’interlocutore nel tentare di ottenere notizie di un amico scomparso da anni e dalla storia così intrigante incuriosirono la signora e la stimolarono a dedicarsi alla ricerca con zelo e puntiglio. Senza badare al tempo speso, controllò tutti i cognomi e i nomi dei morti del Comune degli ultimi quarant’anni. Affiorarono così i nomi di Cesira, Bruno ed Emilio: lei, la mamma, morta nel 1984, Bruno deceduto nell’aprile del 1993, il fratello Emilio morto un anno dopo, nel 1994, tutti sepolti nel cimitero di Felonica. Non si fermò qui lo zelo della gentile impiegata, che seppe aggiungere una informazione molto importante: il piccolo podere di famiglia era passato in eredità a una cugina, ancora viva. Tenne al cellulare Faba per un’altra mezz’ora e alla fine rintracciò il numero telefonico di una certa Teresa Magrini.

    Non fu facile comunicare con lei. Dopo vari tentativi falliti, Faba sentì finalmente al telefono una voce femminile dal chiaro accento emiliano, un po’ sorda. Non ebbe dubbio che si trattasse della persona che stava cercando, perché le notizie sulla famiglia di Bruno, fornite in quel simpatico dialetto, collimavano alla perfezione con i suoi ricordi. Concordarono in breve una visita di Faba per vedere alcune fotografie di Bruno e degli amici di università in possesso della donna, e per conoscere più a fondo la storia e la triste fine della famiglia.

    In un caldo e assolato pomeriggio di primavera, Faba inforcò la gagliarda Moto Guzzi Stelvio e raggiunse Felonica, un pigro paesotto di campagna, immutato nel tempo, confinante con tre regioni lungo l’argine destro del Po, tra Mantova e Ferrara. Aveva dimenticato l’ubicazione della casa di Bruno che aveva visitato tanti anni prima. La gente del centro della cittadina, per quanto cordiale, sembrava avesse scordato il suo cognome e quello della cugina. Solo un contadino alla guida di un trattore alla periferia del paese seppe suggerire delle indicazioni utili. Faba rintracciò la via e riconobbe la vecchia abitazione di Bruno, ridotta a un rudere con il tetto imploso, e seminascosta tra arbusti di fichi selvatici. L’unica stanza rimasta agibile, in cui un tempo si trovava la cucina con il focolare, era adesso adibita a pollaio. Accanto era sorta una piccola villetta a due piani dove abitava la cugina Teresa. Un breve tratto di strada bianca conduceva al cancello lasciato semiaperto per consentire l’ingresso.

    Faba preferì parcheggiare la potente bicilindrica all’esterno del cancello dove il terreno sembrava più solido e adatto a sostenere il peso della moto appoggiata sul cavalletto laterale. Senza togliersi la tuta e il casco da motociclista entrò nel piccolo cortile ghiaioso per salutare Teresa che stava in quel momento scendendo le poche scale della veranda per venire incontro all’ospite aiutandosi con una stampella. Il suo sguardo apparve subito un po’ accigliato. Faceva intuire la propria perplessità nel vedere un tizio vestito da palombaro e non riconoscibile. Quando il casco fu rimosso e si manifestò il volto di Faba con la vistosa pelata, Teresa cambiò atteggiamento e dispensò un sorriso di benvenuto. Era una donna anziana, abbastanza alta, di circa ottant’anni, dai lineamenti ancora piacevoli e una carnagione chiara con pochi capelli colorati di rosso. Aveva uno sguardo curioso e sfuggente che ricordava quello di Bruno. Zoppicava per un recente intervento ortopedico di protesi d’anca. Fu abbastanza contenuta e guardinga nei convenevoli. Sussisteva in lei quella diffidenza di fondo tipica della gente di campagna di altri tempi. Con velata circospezione fece accomodare l’ospite nel tinello di casa dove aveva già predisposto sul tavolino una scatola metallica aperta e ricolma di foto di famiglia. Non c’era null’altro sul tavolo, nemmeno un bicchiere d’acqua. Faba prese posto su una poltroncina avvicinandosi al tavolino in silenzio. Appoggiò a terra il casco. Trasse la scatola piena di foto sulle ginocchia e cominciò a sbirciare con trepidazione quelle che affioravano in superficie. La prima che gli capitò tra le mani era una piccola foto in bianco e nero della fine degli anni Sessanta in cui lui, giovane e con folti capelli, teneva affettuosamente un braccio sulla spalla di Bruno con lo sguardo da Mr. Magoo dietro il banco del grande bar dell’Hotel Astoria di Lavarone. Venne poi alla mano un’altra piccola foto a colori con Landru e Bruno in pantaloncini corti al loro primo incontro in Val Fiscalina con alle spalle il rifugio Comici e la cima Toni... poi un’altra, sempre a colori, con tutto il gruppo storico degli amici universitari compreso Volpato: erano ritratti fra le statue di Prato della Valle ancora abbellito da altissimi platani e ammantato di neve nel freddo inverno del 1970.

    Poi ancora una foto formato cartolina in bianco e nero in

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