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Magnificus Liborius
Magnificus Liborius
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E-book477 pagine6 ore

Magnificus Liborius

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Magnificus Liborius racconta una storia vera, che vede protagonisti una comunità di contadini ai confini dell'Abruzzo, che nella metà del Settecento si ribella ai soprusi di un nobile usuraio.

Sembra una storia nota, i poveri (tanti) in rivolta, magari violenta e sconsiderata, contro i ricchi (pochi). Invece ci parla di una lunga causa legale, pacifica, combattuta con le armi della legge e delle astuzie, dai cittadini, dai nobili e dagli avvocati, rappresentanti le due parti, contraenti un prestito effettuato con condizioni vessatorie.

Il racconto ci fa immergere nella vita del Settecento, ed è una occasione per conoscere meglio le condizioni di vita delle persone comuni, sia degli abitanti di piccolissimi e sperduti paesi di montagna sia della metropoli, una delle principali capitali europee, quale era Napoli in quel periodo.

Ma ci fa conoscere anche il sistema giudiziario del Regno di Napoli, molto più sofisticato ed intessuto di condizioni tipiche dello stato di diritto moderno, di quanto si è portati a pensare.
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2020
ISBN9788831685849
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    Anteprima del libro

    Magnificus Liborius - Roberto Tupone

    Palumbo

    Parte I

    1697-1751

    L’antefatto

    Le ragioni originarie

    Nell’ultima decade del 1600 l’Università di Sant’Anatolia ebbe gravi dissidi con quella di Torano. Dalle testimonianze degli uomini del tempo, risulta che la causa coinvolse tutta la cittadinanza e furono tanti i santanatoliesi che vennero reclusi nelle carceri dell’Aquila. Probabilmente la disputa ebbe origine da problemi di confine che spesso, già da secoli, portavano i cittadini di S. Anatolia in lite con quelli di Marano, Spedino e Torano¹. Anticamente la valle del fiume Salto, nel tratto sottostante l’antico castello di Marano, risultava accatastata in parte all’Università di Marano e in parte a quella di Torano ma, per un’antichissima consuetudine, in autunno ed in inverno, in particolare dopo il raccolto, il bestiame di S. Anatolia aveva il diritto di pascolare nella pianura e abbeverarsi al fiume.

    Questa promiscuità aveva dato origine in passato a vari scontri tra i cittadini di Marano e quelli di Sant’Anatolia e, ad aggravare l’incertezza sui confini, c’era il fatto che molti cittadini di Sant’Anatolia possedevano, in qualità di «forastieri», varie terre lungo il fiume, le cosiddette «canapine» o «cannavine», dove veniva principalmente coltivata la canapa, necessaria alla fabbricazione di corde e spaghi, strumenti indispensabili all’allevamento e all’agricoltura. La canapa veniva anche utilizzata per la tessitura di rozzi capi d’abbigliamento, soprattutto da lavoro, stracci, sacchi e robusti calzettoni adatti all’uso delle ciocie. Essa veniva coltivata nei pressi dei fiumi, anche perché aveva bisogno di essere macerata nelle acque e poi essiccata per liberare le fibre, l’elemento maggiormente utilizzato, dalla corteccia. I semi, ricchi di sostanze, venivano abbrustoliti e mangiati.

    Non sappiamo quale fu la reale motivazione della lite, sappiamo però che l’Università di Sant’Anatolia, per poter riportare in libertà i tanti suoi cittadini imprigionati, fu costretta a pagare un importo talmente cospicuo, che dovette chiedere un prestito ad un ricco e nobile signore di Lucoli², il dottor Cristoforo Mosca.

    Nel 1759 Antonio di Gasbarro e Achille Scafati testimonieranno: «una tal somma servita fusse per servizio dell'Università, stante alcune pretenzioni che avea, contro la medesima, la terra di Torano, per le quali molti cittadini furno carcerati dalla Regia Udienza dell'Aquila e, per liberarli dalla loro inquisizione, come cosa, che contenea l'interesse del publico intero, bisognò contrarre e costituire, per mezzo de nomati cittadini, il cenzo suddetto col Reverendo don Cristofaro Mosca»³.

    Il prestito all’Università di S. Anatolia

    Era il 22 ottobre del 1697⁴ quando alcuni cittadini di Sant’Anatolia giunsero nella casa di Bartolomeo Marchi a L’Aquila, «ante ecclesia Domina Conceptionis», dove li attendeva il giudice a contratto Pasquale Antonio del Bianco di Lucoli, il notaio Filippo Magnante⁵ dell’Aquila e don Cristoforo Mosca di Lucoli. Erano inoltre presenti in veste di testimoni Sebastiano Balzaroli, Bartolomeo e Stefano Marchi dell’Aquila, e Giovanni Battista Montecazzo medico. Motivo dell’incontro era la stipula dell’atto di acquisto di un censo⁶, ovvero di un prestito effettuato da don Cristoforo Mosca all’Università di Sant’Anatolia.

    La somma, molto considerevole, di ducati 646 e grana 49 e ½, «consistentes in tot bonis monetis de argenti de Regno», venne prestata al tasso di interesse del 6%, una percentuale che, per la legge di allora, non poteva essere applicata agli enti pubblici come le Università, ma solo ai singoli cittadini. Il notaio, su suggerimento di don Cristofaro, decise quindi di non fare cenno nell’atto dell’Università, ma di inserire solamente i nomi di singoli cittadini, quali garanti del prestito effettuato. Gli interessi da pagare annualmente ammontavano a ducati 38 e grana 80 e dovevano essere pagati ogni anno «de semestre in semestre in pecunia». Ma pagando solo gli interessi, non veniva intaccato il capitale iniziale e quindi, finché il capitale non veniva restituito, gli interessi continuavano a decorrere, anche per decenni, e tale credito/debito veniva ereditato dai figli e dai nipoti dei primi soggetti stipulanti. Firmarono l’atto, dando a garanzia alcune loro terre⁷, per l’Università di S. Anatolia, i «magnifici»:

    • Giuseppe e Domenico Antonio Spera

    • Giuseppe Luce

    • Pietr'Antonio Luce¹⁰

    • Michele Placidi¹¹

    • Giuseppe Scafati¹²

    • Giovan Battista Luce¹³

    La restituzione della prima tranche

    Il 21 febbraio dell’anno successivo, 1698¹⁴, proprio per diminuire la percentuale da restituire, comparvero di nuovo dallo stesso notaio i signori Michele Placidi e Pietrantonio Luce, «tam nomine proprio, quam nomine degli altri», i quali restituirono a don Cristoforo Mosca una prima tranche del prestito, consistente in ducati 375 e grana 70. L’atto precedente venne quindi cassato e sostituito dal presente.

    La rendita che i cittadini dovevano corrispondere ai Mosca, nonostante la diminuzione del debito, rimase pari a ducati 16 e grana 20 annuali ed essa continuò a pesare sulle casse delle famiglie per molti anni, circa mezzo secolo.

    Negli anni successivi don Cristoforo continuò a prelevare dall’Università di Sant’Anatolia la quota di interessi sul prestito effettuato. Poi, quando ormai era anziano, si prese la briga di riscuotere il censo, il nipote don Liborio Mosca. Ogni anno, nella stagione del raccolto, si presentava, o di persona o rappresentato da suoi uomini di fiducia, e raccoglieva gli interessi, le cosiddette terze, spesso in natura, consistenti in coppette di grano, d’orzo o denaro.

    Quando i cittadini di S. Anatolia facevano i conti, risultava spesso che i sedici ducati e venti grana annuali, corrispondevano ad una coppa di grano o d’orzo a fuoco. Ogni famiglia doveva quindi portare nel punto di raccolta una coppa di semenza, circa 25 kg., e consegnarla ai mulattieri che lo avrebbero trasportato a Lucoli. Supponendo la presenza di un numero medio di sessanta famiglie, si trattava di circa 15 quintali di sementi all’anno.

    Il ricalcolo del debito nel 1742 e 1744

    Nel 1734, grazie all’ultima spartizione dell’eredità di famiglia, don Liborio Mosca era divenuto proprietario del credito contro l’Università di S. Anatolia. Annualmente quindi vi si recava per riscuotere gli interessi, «le terze» che, come detto sopra, corrispondevano all’incirca ad una tonnellata e mezza di sementi che l’Università di S. Anatolia aveva gravi difficoltà a reperire, e così, nell’arco di quaranta anni, il debito per gli interessi con i Mosca era cresciuto, tanto da superare il capitale iniziale.

    Il 12 agosto del 1742 don Liborio venne a Sant’Anatolia per sistemare le pendenze. Erano presenti all’incontro Michele Placidi, accompagnato dal figlio sacerdote don Agapito Placidi in qualità di testimone, Marc’Antonio Luce, Giuseppe Spera, Angel’Antonio Scafati, Leonardo Luce e i fratelli Bartolomeo e Cesidio Luce. Era presente in qualità di testimone Antonio Federici¹⁵. Don Liborio fece il calcolo di tutte le terze maturate nell’arco di 44 anni, cioè dal 1698 al 1742 che, considerando il dovuto annuale di ducati 16 e grana 20, ammontavano, senza intaccare il capitale iniziale di ducati 270, a ducati 712 e grana 80.

    Poi andò a conteggiare quanto i cittadini avevano già versato e confermò che «detti particolari obligati hanno pagato in più, e diverse volte ducati quattrocento in tanti biglietti, orzo e grano, e denaro». Sottraendo quindi tale importo ai ducati 712 e grana 80 di cui sopra, il debito residuo venne calcolato in ducati 312,80. Don Liborio decise di essere generoso e di abbonare i ducati 12 e 80, «perché li dodici ducati, e grana ottanta, detto signor Abbate Mosca gli l'ha rilasciati gratis gratia, perché così» e i cittadini promisero di «pagare detta somma ad ogni richiesta di detto signor Abbate costituto, e per esso e suoi, in pace, e senza controversia».

    L’accordo venne sottoscritto davanti al notaio apostolico don Alessio Innocenzi¹⁶, che redasse l’atto. Nei mesi e anni successivi vennero effettuati altri pagamenti:

    • 1742: «Si sono ricevuti ducati diece per tanto donati da me per la fabrica della chiesa». «Ricevo altri ducati quattro come dalla mia riceuta». «Ricevo altri ducati dodici per un biglietto fatto d'Amico Federico¹⁷ per gl'obbligati».

    • 1743: «A 19 settembre 1743 come per mia riceuta ricevo altri ducati duecento contanti per mani del signor don Leonardo Placidi ¹⁸». «A 28 novembre sudetto anno come per mia riceuta si sono riceuti in due ordini per Napoli altri ducati quaranta».

    • 1744: «Si sono riceuti nel mese di Agosto per mano di Francesc'Antonio Amanzij¹⁹ ducati cinque».

    Il 12 agosto del 1744 don Liborio tornò a Sant’Anatolia e fece un nuovo ricalcolo. Calcolò l’ammontare dei pagamenti effettuati in quegli ultimi due anni di ducati 10, più 4, più 12, più 200, più 40, più 5, per un totale di 271 che sottrasse al debito residuo di 300, portandolo a 29 ducati. Don Liborio fece un ulteriore sconto di 4 ducati e venne sottoscritto che il residuo del debito al 12 agosto 1742 era di ducati 25.

    • 1744: «A 12 agosto 1744 in S. Anatoglia si è venuto a nuovi conti con detti particolari obligati, reso fu conto in forma di scrittura del signor don Alessio Innocenzij firmato anche da me, essendo restata anche in mano a detti obligati il duplicato di detta scrittura, e mi restano debitori di ducati venticinque, per tutto il periodo da oggi addietro, per le terze del cenzo, che dicono pagarmi detti ducati 25 nell'entrante mese di settembre 1745 e sempre l'annualità del cenzo deve ricominciare à correre per l'avvenire da detti 12 agosto 1742».

    A questo importo doveva essere sommato l’importo delle terze maturate dal 1742 al 1744 di ducati 32,40 per un totale di 57,40. Insomma l’Università di Sant’Anatolia, nonostante avesse già pagato alla famiglia Mosca interessi per l’importo totale di 671 ducati, non riusciva a sanare il debito e il capitale di 270 ducati rimaneva immutato. In tutto questo, la beffa era che i cittadini dovevano anche ringraziare don Liborio per la sua generosità, per aver loro scontato 12 ducati e 80 grana nel 1742, per aver ricevuto sempre nel 1742 un dono di 10 ducati per la ricostruzione della chiesa e per aver loro scontato altri 4 ducati nel 1744.

    Un pozzo senza fondo

    Dal 1744 al 1751 i cittadini, con molta fatica, oltre a saldare il pregresso, continuarono a pagare il censo sottoscritto. A volte saltavano delle rate e il debito cresceva. Le volte successive, proprio perché il debito era cresciuto e la richiesta da parte di don Liborio era troppo onerosa, i cittadini erano costretti a convocare il Consiglio dell’Università per chiedere una risoluzione collettiva. Si organizzavano quindi delle collette. I mulattieri di don Liborio davano appuntamento nella piazza di fronte al fontanile e ogni capofamiglia doveva consegnare il sacchetto di 25 kg. di grano o d’orzo. Fu in quel periodo che don Liborio, anche con i soldi versati dall’Università di S. Anatolia, rimise in piedi la chiesa di S. Anastasia di Borgocollefegato che, probabilmente dopo il terremoto del 1703, era andata diroccata. Il lavori di ricostruzione furono conclusi nel 1745²⁰. Qualche anno dopo don Liborio venne registrato nel Catasto Onciario di S. Anatolia in qualità di «forastiero» poichè vi possedeva cinque coppe di terra²¹.

    Nel frattempo il conte Gianmatteo Mosca era stato «destinato già Preside di Salerno e poi di Lucera di Puglia e Soprantendente della Razza de’ Cavalli di Sua Maestà Carlo Borbone» e quindi, insieme a don Liborio, si era trasferito a Lucera in provincia di Foggia²². Nel 1731 ebbe una dedica nel libro di Stefano di Stefano «La ragion pastorale»²³ e sempre lui si ritrova incredibilmente nell’agiografia di San Francesco Antonio Fasani quale attore principale, nella veste di Preside della città di Lucera, in uno dei miracoli del Santo²⁴.

    Gianmatteo nel 1730 ebbe una brutta malattia, che fu curata dal medico chirurgo Gaetano Petrioli, il quale nel 1742 la descrisse nei particolari in un suo testo di anatomia²⁵.

    «Come pure di rimarco, ciò che osservai in persona del Sig. Conte Gio: Matteo Mosca l'Anno 1730, al quale trà li vasi sanguiferi, che vedessimo d'intorno il collo della vesica scorrevano molti dotti aquosi, come vermetti bianchi, e contorti, in congiontura di un ascesso profondo, che egli avea, lateralmente all'Ano, aperto da me, già per qualche giorno suppurato, che con altre operazioni chirurgiche fatte in seguela, si arrivò a vedere il collo della detta vesica, ove li prescritti canaletti in parte recisi gettavano visibilmente delle gocciole di acqua, la quale per poco spazio di tempo bagnava ciò che si poneva accosto le di loro lacerazioni, senza odore ne sapore di urina, e senza poter vedere di donde egli venissero, anzi che passati pochi giorni svanirono, con il noto getto, poiché di già la natura andava sopra dei medesimi rivestendo la parte carnosa; onde per la mirabile, ed intricata struttura, con cui siamo organizzati, non facile a concepirsi tutto ciò che vediamo ci conviene confessare con Plinio, che ignota nobis sunt per quae vivimus».

    Gianmatteo morì tra il 1734 e il 1751. Dei suoi due figli maschi, Bernardo ereditò il titolo di Conte, Gian Catarino prese i voti e si avviò alla vita sacerdotale.

    Dal 1698, anno in cui il prestito era stato ridotto a 270 ducati, al 1751, erano passati 53 anni ed erano stati pagati interessi per quasi 874 ducati, più di tre volte il capitale iniziale. La cosa allucinante era che, nonostante tale esborso, il debito con i signori Mosca rimaneva invariato. Nel frattempo poi, tutti coloro che avevano costituito il censo, il signor Cristoforo Mosca e i cittadini che si erano posti a garanti per l’Università di S. Anatolia, erano defunti e i loro figli, se sopravvissuti, avevano quasi tutti raggiunto la sessantina. L’ultimo versamento che l’Università di S. Anatolia fece ai Mosca avvenne il 2 ottobre del 1751, «E più se li discaricano docati sedici, e grana venti pagati all'abbate Mosca per frutti di cenzo sotto li 2 ottobre 1751»²⁶ e si riferiva al pagamento dovuto il 12 agosto dello stesso anno. Dopo di chè la goccia fece traboccare il vaso e giunse il giorno della ribellione.

    ___________________

    1 S.Anatolia, Spedino e Torano sono frazioni del comune di Borgorose già Borgocollefegato in provincia di Rieti. Fino al 1927 facevano parte della provincia dell’Aquila in Abruzzo e prima dell’accorpamento degli antichi comuni, effettuato nel periodo napoleonico, erano comuni indipendenti, chiamati università, facenti parte del Regno di Napoli. Marano è una frazione di Magliani dei Marsi, comune in provincia dell’Aquila in Abruzzo.

    2 Lucoli è una frazione del comune dell’Aquila in Abruzzo. Sembra incredibile ma, nonostante che per raggiungerlo da S. Anatolia si debbano percorrere circa 55 chilometri in auto, il suo territorio nel versante montano confina quello S. Anatolia.

    3 Il documento principale da cui è stato tratto il romanzo si trova in: Archivio di Stato di Napoli, Regia Camera della Sommaria, processi-attuari diversi, stanza 116, busta n. 313, segnatura 13728, estremi cronologici 1697-1770. Acquisito in archivio il 29.06.2018.

    4 Nel fascicolo è presente la copia trascritta nel 1752 dal notaio Dominicus Antonius Zampetti di Staffoli. Il documento è riportato in Appendice II, 1. Notizie degli Archivi di Stato a cura del Ministero dell'Interno. Anno IX. Roma Gennaio-Dicembre 1949 - N. 1-2-3 - Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria 1949, pag.91 e segg. Salvatore Piacentino, I Notari Aquilani e l’Archivio Notarile, pag. 109: «418 - Dominicus Antonius Zampettus (de Aquila) (E’ originario di Staffoli) - voll.53 - 1709-1753». Staffoli è una frazione del comune di Petrella Salto nel Cicolano, in provincia di Rieti. Prima del 1927 faceva parte della provincia dell’Aquila in Abruzzo.

    5 Notizie degli Archivi di Stato a cura del Ministero dell'Interno. Anno IX. Roma Gennaio- Dicembre 1949 - N. 1-2-3 - Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria 1949, pag.91 e segg. Salvatore Piacentino, I Notari Aquilani e l’Archivio Notarile, pag. 107: «325 - Philippus Magnante (de Aquila) - voll.25 - 1664-1703».

    6 «Il censo è una forma di credito, col quale si presta una somma in denaro (principal) a un certo interesse (7%, 5% o 3%, secondo i secoli), garantito da un'ipoteca su una o più proprietà di beni mobili o immobili. Questa formula è chiamata censo consignativo o al quitar (rimuovere, togliere), perché il debito viene ripagato quando viene rimosso l'importo del prestito originario (principal)». Da Wikipedia, voce: Censive. Sottovoce: «Credito»

    7 L’elenco delle terre si trova in Appendice I, 2

    8 Giuseppe e Domenico Antonio Spera erano fratelli. Nel 1718 insieme a Lino ed a Francesco Spera, ereditarono il beneficio dell'altare di S. Giovanni nella chiesa di San Nicola a S. Anatolia che decisero di dare in gestione a don Luigi Spera, loro stretto parente. Giuseppe non ebbe figli mentre Domenico Antonio ne ebbe cinque: Pietro (1697), Francesco (1702-1782), Nicola (1706), Concetta (1716) e Giovanni (1720). Nel 1752 Giovanni verrà chiamato in causa da don Liborio Mosca quale erede del debito del padre.

    9 Giuseppe Luce, nacque attorno al 1650 e morì il 15 gennaio 1717 a S. Anatolia. Ebbe quattro figli: Domenico (†1743), don Francesco (1675-1758), Pietro Paolo (ca 1680-1744) e Marco Antonio (ca 1687-1743). Domenico non ebbe figli. Don Francesco era sacerdote. Pietropaolo da Berardina Scafati (1701) ebbe cinque figli: Lorenzo, Degnamerita, Innocenza, Ortensia e Maurizio. Marcantonio da Maria Gaetana Corvi ebbe sette figli: don Gennaro, Giammaria, Nicola, Giustino, Rosina, Giuseppe e Berardino. Di tutti questi, nella causa del 1752 don Liborio sceglierà Giammaria, o Giammarino, quale riferimento per il suo avo.

    10 Pietr'Antonio Luce nacque a S. Anatolia intorno al 1667. Ebbe sei figli: Bartolomeo (1692), Angela (1697), don Pietro (1699-1769), Giovanni Biagio (1701), Francesco (1712) e Caterina (1715). Di tutti questi l’unico che risulta che abbia avuto discendenze è Giovan Biagio che da Caterina Scafati (1720) ebbe sette figli: Pietro Antonio (1738-1797), Maria (1739), Giovanna Antonia (1742), Vincenzo (1744-1819), Mattia Antonio (1747), Felice Antonio (1749) e Romualdo (1752). Nella causa del 1752 don Liborio sceglierà Bartolomeo, quale erede del debito di suo padre.

    11 Michele Placidi, nel documento Michele d'Agapito, era nato a S. Anatolia attorno al 1670 ed era figlio di Agapito Placidi. Aveva un fratello di nome Bartolomeo. Suo padre Agapito era figlio di Battista Placidi. Battista aveva un fratello sacerdote don Domenico Antonio nato attorno al 1615. Battista oltre ad Agapito aveva altri tre figli: Camilla Placidi (†ca 1698), Pietro Placidi (ca 1670) e Don Leonardo Placidi (1677-1772). Pietro viene rappresentato nello stemma di casa Placidi con due P. incise su pietra vicino l’ingresso. Michele d’Agapito ebbe quattro figli: Domenico Antonio (1695), Placido, don Agapito (1699) e Francesco (1702). Nella causa del 1752 don Liborio sceglierà Domenicantonio e Placido, quali riferimenti per il loro defunto genitore.

    12 Giuseppe Scafati o Scafato, nacque a S. Anatolia intorno al 1667. Ebbe due figli: Angelo Antonio (1692) e Pietro Paolo (1707). Angelantonio ebbe quattro figli: Domenico (1721), Domenica (1724), Concetta (1727) e Giustino (1728-1793). Di questi l’unico che ebbe figli maschi fu Giustino dal quale nacque Carlo. Pietro Paolo morì senza eredi ed infatti nel 1786 fece testamento al pronipote Carlo. Nella causa del 1752 don Liborio sceglierà Angelantonio e Pietropaolo, quali principali eredi del debito del loro defunto genitore.

    13 Giovan Battista Luce nacque a S. Anatolia intorno al 1658. Ebbe tre figli: Leonardo (1683), Cesidio (1701) e Antonia (1703). Cesidio, nell’atto registrato con il nome Cesidio, Cesile o Eusebio, sposò Antonia ma non ebbe figli, mentre Leonardo ne ebbe due: Gaetano (1709) e Liberato (1717). Nella causa del 1752 don Liborio sceglierà Leonardo e Cesidio, quali riferimenti per il loro genitore.

    14 Nel fascicolo è presente l’attestazione di conferma dell’esistenza dell’atto fatta nel 1752 dal notaio Dominicus Antonius Zampetti di Staffoli. l’attestazione è riportata integralmente in Appendici II, 2.

    15 I fratelli Antonio e Domenico di Federico o Federici nacquero a S. Anatolia intorno al 1683. In un atto notarile del 1726 Giovan Battista Amanzi concesse ai due fratelli un prestito di ducati 40. Nel Catasto Onciario di S.Anatolia del 1753, risulta iscritto in qualità di capofamiglia «Felippo di Domenico di Federico» con i fratelli Carlo, Berardino e Rosina. Il padre di Filippo era quindi Domenico Federici. In un atto notarile del 1791 risulta invece che i fratelli Filippo, Bernardino e Rosa fosse figli di Antonio. E’ possibile che Filippo e i fratelli fossero figli di Domenico ma poi, morto lui, vennero adottati dallo zio Antonio.

    16 Don Alessio Innocenzi nel 1712 era sacerdote e notaio apostolico. Risulta che rogò, oltre all’atto del 1742 e 1744, almeno tre atti nel 1713, uno nel 1716, uno nel 1717 ed uno 1725. Nel 1713-1716-1717: «Cenzi della Suddetta Compagnia della Santissima Pietà. Un cenzo in sorte di ducati sette d'annuo frutto grana quaranta nove con Giacomo di Gasbaro creato l'anno 1713 rogato dà d'Alessio Innocentij, (ducati) 49; Cenzo in sorte di ducati nove d'anno frutto carlini sei, e grana tre contro Prò, e fretti di Gioseppe creato l'anno 1713 rogato dal notaro suddetto, (ducati) 63; Cenzo contro Marco Fragasso in sorte di ducati tredici, e grana cinquanta d'annuo frutto di carlini nove, e grana quattro creato l'anno suddetto, e notaro suddetto, (ducati) 94; Cenzo in sorte di scudi quattordici d'annuo frutto di carlini nove, e grana otto con Francesco Lanciotto creato l'anno 1716 da suddetto notaro, (ducati) 98; Cenzo in sorte di scudi quindici, e carlini due d'annuo frutto carlini diece, e grana sette con Gioseppe Scafati creato sotto l'anno 1717 dal suddetto notaro, (ducati) 1-07» (Fonte: Archivio della diocesi di Rieti, visite pastorali, cartella n. 17). Nel 1725: «… un istrumento di ricompra di vari, e diversi corpi di terreno, quali sotto il dì 10 settembre 1725, per gli atti del Notaio Apostolico Don Alessio Innocenzj di S. Natoglia, dal quondam Luzio Cardillo delle Forme, furono venduti col patto di ricompra semper a favore del venerabile Colleggio delle Scuole Pie di Massa Inferiore per il prezzo di docati ottanta» (Archivio di Stato dell'Aquila, Archivio Notarile Distrettuale di Avezzano, Notar Scipioni Francesco Antonio, Magliano 1797-1802, Faldone 267 Vol.2-1798, Foglio allegato).

    17 Amico di Federico fu uno dei capostipiti della famiglia De Amicis di S. Anatolia. Figlio di Federico potrebbe essere fratello di Antonio e Domenico Federici e se così fosse, il cognome Federici e De Amicis si sarebbe biforcato con loro, ma non essendoci prove certe rimane per ora solamente una ipotesi. Il nonno omonimo, Amico, nel 1648 fondò insieme ad altri fedeli di S.Anatolia la Confraternita della Santissima Pietà. Prima del 1649 Federico Colonna gli donò una casa in S. Anatolia. Nel 1712 il vescovo Guinigi annotava: «Amico Di Federico e Beatrice Luce solamente non si sono comunicati fin hora» (fonte: Archivio della diocesi di Rieti, Bullarium 1644-1652, pag.155-156, Visita Pastorale del Vescovo Guinigi del 1712)

    18 Don Leonardo Placidi (1677-1772) era un sacerdote. Nel 1698 venne concesso a Claudio Cherubini di S.Anatolia lo jus patronato della Cappella della Madonna del Carmelo e ne venne nominato rettore don Leonardo. Nel 1712 Leonardo era canonico e godeva del «beneficio dell'altare della Madonna del Loreto» (fonte: Archivio della diocesi di Rieti, Visita Pastorale del Vescovo Guinigi del 1712). Il 7 agosto del 1769 scrisse il proprio testamento e nominò, suo erede universale, il nipote don Agapito Placidi. Nel testamento inserì alcune clausole relativa a come comportarsi dopo la sua morte e a come gestire i beni ereditati. Nel testamento, tra l'altro, concesse del denaro ai pronipoti don Filippo, don Giovanni, Antonio, Concezia e Caterina Placidi, e alla venerabile Confraternita del Santissimo Sacramento di S. Anatolia (fonte: Archivio di Stato dell'Aquila, Archivio Notarile Distrettuale di Avezzano, Notaio Remigio Panei, Magliano 1757- 1797, Faldone 151-A Vol.12-1769, Fogli n. 13 e segg.).

    19 Francescantonio Amanzi (S.Anatolia 1697) era figlio di Giovan Battista e Maddalena. Sua moglie era Caterina Pozzi (1704), dalla quale non ebbe figli. Nella causa con don Liborio Mosca, il 7 luglio del 1753, verrà chiamato a testimoniare. Aveva 58 anni. Quindi sarebbe nato nel 1695, più o meno la stessa età che risulta avere nel Catasto Onciario (Archivio di Stato di Napoli, Catasto Onciario di S. Anatolia del 1753, pag. 42)

    20 Sotto il rosone della chiesa c’è lo stemma dello Stato Pontificio posto al di sopra di una piccola epigrafe con su scritto: «SACROS. LATERAN. ECCLES. LIBORIUS ABBAS MOSCA. POSUIT ANNO DOMINI 1745» (Santissima Chiesa Lateranense. L’Abate Liborio Mosca pose nell’anno del Signore 1745)

    21 Archivio di Stato di Napoli, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio, Catasti Onciari, Registro 2805, foglio 164b. «Don Libborio Abbate Mosca di Lucoli: Terra alle fossata con arbori, confino Pietro Spera, il Santissimo Sacramento, e la via - Coppe cinque, quinte 2, stimata grana sessantasei - C05 quinte 2 - 2#06»

    22 Pietro-Antonio Corsignani, Reggia Marsicana, etc., Napoli 1737, pag. 400

    23 Stefano di Stefano, La Ragion Pastorale etc., Napoli 1731, Tomo II, pagine introduttive n. 6

    24 Padre Mario Villani O.F.M., Padre Francesco Antonio Fasani o.f.m. Piccolo florilegio dalla sua vita, Convento di San Matteo, 27.09.1982.

    25 Gaetano Petrioli, Corso anatomico osia universal commento nelle tavole del celebre Bartolomeo Eustachio di S.Severino della Marca, Roma 1742, p.104

    26 Estratto dal «Libro della rendizione de conti de Massari». Si trova alla pagina 189 e segg. del documento. Riportato integralmente in Appendici II, 52.

    Parte II

    1752-1754

    Inizia la Causa

    L’attuario Liborio Russo

    Sabato, 15 luglio 1752

    Polvere e inchiostro...

    Polvere, inchiostro e calamaio... Polvere, inchiostro, penna e calamaio...

    Polvere, inchiostro, penna, carta e calamaio...

    Zzz zzz zzz...

    Zzz zzz zzz...

    «Liborio, Liborio ! Dottor Liborio dovete svegliarvi, c’è una persone che chiede di voi !»

    L’impiegato del Tribunale della Regia Camera della Sommaria lo aveva svegliato, senza alzare la voce, ma lui, che aveva raggiunto il sonno profondo, si era svegliato di soprassalto e aveva imprecato. «Mannaggia Masaniello, m’aggiu addormut!». Poi si era ricomposto. Faceva caldo e in quell’ufficio non c’era un filo d’aria. Con quel caldo solo i più resistenti riuscivano a non cadere tra le braccia di Morfeo. Gli occhiali, con il peso della sua testa, si erano piegati. Li raddrizzò e li strinse sul naso. Si era addormentato sopra un mucchio di registri che avevano la copertina di cuoio nuovo, ancora morbido. Erano come cuscini. Un rivolo di bava era scivolato sulla copertina del registro su cui si era addormentato e lui si affrettò ad asciugarlo. La penna d’oca, rimasta tra le sue dita, aveva rilasciato un po’ di inchiostro che aveva macchiato il foglio su cui stava lavorando. Per fortuna niente di importante.

    «Mamma d'o carmene» aveva dormito solo qualche minuto ma che disastro!

    Don Liborio Russo era un uomo di 32 anni²⁷. Era nato nel quartiere Avvocata a Napoli. Da bambino aveva studiato presso un insegnante gesuita e poi si era iscritto all’Università, al palazzo dei Regi Studi di Napoli, laureandosi in Diritto. Si era mantenuto agli studi facendo lo scrivano, al servizio dei tanti signorotti che non sapevano leggere e scrivere e poi, dopo la laurea, era stato assunto nella Regia Camera della Sommaria²⁸. Con il passar del tempo aveva fatto carriera e da scrivano era diventato attuario²⁹.

    Aveva al suo servizio tre scrivani che dirigeva e di cui era responsabile. Il lavoro consisteva in una sorta di cancellierato o ufficio notarile pubblico. In pratica raccoglieva, autenticava e archiviava le pratiche e gli atti giudiziari pubblici e privati. Era un lavoro invidiabile, ben pagato, che gli permetteva di vivere da signore.

    Il 1752 era un anno buono. Il nuovo Re, don Carlo di Borbone, si era insediato quando Liborio era un bambino di nove anni. Prima del Re Carlo, Napoli era stata dominata dagli spagnoli e poi dagli austriaci. Il nonno parlava spesso della grande impresa di Masaniello e di come un giovane pescatore, seppur per breve tempo, era riuscito a mettere sotto scacco i potenti. Poi però quel ragazzo era stato ucciso e i francesi avevano cercato di usurpare il trono agli spagnoli e infine erano arrivati gli austriaci che avevano portato nella sua città una crisi così profonda che solo il Vesuvio, la peste e il terremoto erano stati peggiori. Queste infatti erano le tre cose che facevano più paura a Liborio e che lo accomunava a quasi tutti i napoletani. Lui, fin da bambino, aveva ascoltato terrorizzato i racconti del nonno il quale, a sua volta, li aveva ascoltati dal suo di nonno e, nei vari passaggi, i racconti erano diventati contorti e sbiaditi.

    Era il 1631 l’anno in cui il Vesuvio aveva eruttato. Erano passati più di centoventi anni ma nessuno poteva dimenticare. Napoli era stata completamente ricoperta da un palmo di cenere, aveva subito delle forti scosse sismiche e soprattutto, era stata invasa da quasi 50 mila immigrati, scampati dai paesi posti sotto il vulcano. Questa forte immigrazione l’aveva resa invivibile e ingestibile e poi, solamente trentacinque anni dopo, quando ormai la città sembrava essersi risollevata, era arrivata la peste. La malattia aveva ridotto la popolazione da 400 a 160 mila abitanti e anche la famiglia del nonno aveva subito molti lutti³⁰. Napoli, prima del 1656, era seconda solo a Parigi e, incredibile ma vero, Londra aveva cinquantamila abitanti in meno della sua città³¹. Certo, pensò Liborio, se non ci fosse stata la peste, le cose sarebbero andate diversamente.

    Liborio si era fatto prendere dal vortice dei ricordi ma poi, all’ennesimo sollecito del suo scrivano, tornò in sé, si tolse gli occhiali, si strofinò gli occhi e borbottò: «aspiettate, aspiettate, mi debbo svegliare... portatemi dell’acqua e un buon caffè».

    Il caffè, che bella invenzione. Molti della sua città non l’avevano mai neanche assaggiato. Dato il suo prezzo e la difficoltà di reperirlo, si era diffuso in ambienti ristretti, più ricchi, in particolare era apprezzato da quei napoletani che svolgevano lavori particolarmente noiosi e che, proprio per questo, facevano fatica a rimanere svegli. Non tutti poi avevano la capacità di apprezzare una bevanda dal gusto, a primo impatto, così amaro e disgustoso.

    Liborio aveva sentito dire che la conoscenza del caffè nella sua città aveva avuto origine dalle pene d’amore di un musicologo romano, Pietro della Valle, nei primi anni del seicento. Questi aveva lasciato la Città Eterna per una delusione d’amore e si era stabilito a Napoli. Poi, la sua frenesia di viaggiare e di conoscere, lo aveva portato in Terra Santa dove aveva conosciuto una donna di cui si era follemente innamorato. Era rimasto con lei per dodici anni e durante quegli anni aveva conosciuto questa bevanda, il kahve (o caffè), che veniva servita calda, in piccole scodelle di porcellana e bevuta durante le conversazioni che seguivano il pasto. In seguito, intorno al 1625, quando stava tornando a Roma, Pietro era ripassato a Napoli, dove aveva fatto conoscere ai suoi amici quel metodo così particolare di gustare il caffè³².

    «Don Liborio, ecco il suo caffè ! Bevete prima l’acqua però, così lo gustate meglio. Non volete metterci un po’ di zucchero ? E’ più buono… no, voi lo volete amaro. E vabbè !». Liborio, finalmente sveglio, chiese allo scrivano chi era la persona che lo stava cercando. Lo scrivano rispose che era un procuratore, di nome Nicola Busci, il quale veniva dall’Aquila, per conto di un’Università posta in Abruzzo. «Quale Abruzzo ?» Chiese Liborio. «L’Abruzzo Ulteriore Secondo, quello, appunto, con il capoluogo nella città dell’Aquila». Liborio chiese quindi il nome dell’Università e lo scrivano rispose: «Santa Natoglia».

    Il procuratore Nicola Busci

    Sabato, 15 luglio 1752

    Nicola Busci era un uomo basso e tarchiato. Aveva una grande mantella sulle spalle e sotto si intravedeva una camicia bianca, sudata e stropicciata. Aveva fatto un lungo viaggio di quasi centotrenta miglia³³ e, guardandolo, si poteva desumere che avesse dormito molto poco quella notte. Per fare un viaggio del genere, con una carrozza veloce, ci volevano quasi quattro giorni con almeno tre soste notturne. Nicola aveva dormito a Capistrello, a Cassino e a Capua. Da Capua aveva fatto un’unica tirata fino a Napoli. Liborio invitò il procuratore a sedersi ed a raccontargli il motivo della sua visita. Gli offrì dell’acqua e gli chiese se aveva voglia di un caffè. Lui accettò solo l’acqua in quanto il caffè, quando lo aveva assaggiato, qualche tempo prima a Napoli, lo aveva disgustato.

    Ogni volta che aveva un impegno, che lo costringeva a raggiungere la capitale, Nicola aveva bisogno di prepararsi mentalmente. Abituato a vivere in una città così tranquilla, Napoli per lui era una giungla spaventosa. Eppure vi era stato più volte per lavoro, ma non riusciva ad abituarsi. La città era frenetica e pericolosa. Non poteva camminare tranquillo, doveva

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