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Trasgressione scarlatta (eLit): eLit
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E-book324 pagine4 ore

Trasgressione scarlatta (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Ma come ho fatto a essere così tonta? Mi sono lasciata fregare lo sposo praticamente sull'altare e, per giunta, dalla mia assistente, una biondina insipida, magra come uno stuzzicadenti, che non ha neppure l'età per bere.
Allora mi sono scolata una bottiglia di champagne e ho buttato nella spazzatura il favoloso abito di satin bianco di Vera Wang. E la mattina dopo sono partita per quello che doveva essere il mio viaggio di nozze a Parigi, nel tentativo di addolcire l'amaro in bocca.
E ora, invece di rotolarmi tra lenzuola di seta con il mio neo marito, mi ritrovo, a posare per un pittore. E dire che ero entrata nel suo atelier per ripararmi dalla pioggia.
Comunque adesso sono qui e, visto che ho bisogno di passare un bel colpo di spugna sul passato, asseconderò i desideri di questo artista, a cominciare dalla sua richiesta di spogliarmi...
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788830511354
Trasgressione scarlatta (eLit): eLit
Autore

Jina Bacarr

Fra le più affermate conoscitrici dell'arte giapponese del sesso sulla quale ha scritto saggi e articoli per riviste. In passato ha lavorato come consulente per il Giappone alla KCBS-TV e alla MSNBC, e aveva un suo programma radiofonico settimanale intitolato Dalla parte della trasgressione: il lato più piccante dei libri. Vive nella California del Sud. "Jina Bacarr sa condensare pillole di saggezza amorosa e tecniche di meditazione erotica in una trama avvincente, senza dimenticare le radici occidentali del lettore." Publishers' Weekly

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    Anteprima del libro

    Trasgressione scarlatta (eLit) - Jina Bacarr

    (1821-1880)

    1

    Parigi, Ventunesimo secolo – Studio di un pittore nel quartiere Marais

    La modella

    «Mi devo togliere la maglietta?»

    «Sì, mademoiselle.»

    «E i pantaloni da yoga?»

    L’uomo annuisce. «Sì, mademoiselle.»

    «Fermatevi per un minuto parigino» protesto e intanto osservo il vecchio artista con una Gauloise che pende dalle labbra. Tira una boccata senza staccare gli occhi dalla maglietta umida che mi sta appiccicata addosso come un post-it. «Sono entrata per ripararmi dalla pioggia, e non per esibirmi in uno spogliarello acrobatico.»

    La voce è roca, strozzata. Non la riconosco. È la mia?

    È una sensazione che ho già provato quando, per colpa del mio ex fidanzato, mi è andata di traverso una caramella. David era convinto che i miei lavoretti di bocca facessero letteralmente schifo e che altre incomprensioni fra noi l’avessero convinto a mandare a monte il matrimonio.

    Bastardo.

    Come se non superare un master in fellatio fosse tra i dieci motivi legalmente riconosciuti per spedirmi in terapia e farmi torturare da mia madre per la luna di miele a Parigi, viaggio prepagato e non rimborsabile.

    Eppure eccomi qui, a vagabondare sotto la pioggia lungo la riva destra, come Jean Valjean, con le Nike fradice. Piantata e disperata.

    E mi chiedo come ho potuto lasciare che David lingua d’argento (oh, il ragazzo sì che sapeva come farmi partire con la lingua) mi convincesse ad addebitare ogni spesa sulla mia carta di credito.

    Finita la scuola avevo lavorato come un mulo per fare carriera rimandando il sogno di aprire una galleria d’arte tutta mia. Adesso mi ritrovo non solo senza marito ma anche ad aver dovuto attingere ai miei risparmi, ben quattrocento-un-mila dollari, per i vestiti delle dodici damigelle corredate di scarpe col tacco a spillo in tinta di Jimmy Vattelappesca, per non parlare del quintale di bistecche di prima scelta. Interessante.

    Dopo aver fatto a pezzi la carta di credito ormai a zero, mi sono scolata l’ultima bottiglia di champagne e ho buttato nella spazzatura il favoloso abito bianco in satin di Vera Wang. La mattina dopo sono partita per il paese d’origine dei cioccolatini Godiva per addolcire l’amaro in bocca.

    Chiariamoci bene, non sto parlando di inginocchiarmi per praticare fellatio a preservativi al gusto di lampone. No, penso a qualcosa di eccitante e meraviglioso, che dia il batticuore e renda scoppiettanti di energia.

    Ma chi voglio prendere in giro? Io voglio essere una dea del sesso bella da morire.

    La gioventù e un corpo da favola non sono tutto, lo sai.

    David non la pensa così. Ed è per questo che non sono accoccolata fra le lenzuola accanto a lui nella camera d’albergo di Parigi e mi aggiro per la città come un topo nelle fogne.

    Non sei più giovane, bambina, e non sei tanto magra. Perciò hai perduto David per quella ninfetta, quella biondina insipida, magra come uno stuzzicadenti, che non ha neppure l’età per bere. La tua assistente, per giunta. Come hai fatto a essere così tonta?

    Tonta? Sono stata una stupida, una scema, un’idiota totale a farmi fregare David da quella troia. Mi hanno fottuto.

    Zap! Anche il cielo mi dà ragione, una saetta attraversa l’ampia vetrata e mi colpisce negli occhi come la luce rossa di una telecamera, la penombra e la cortina di fumo nella stanza si diradano.

    Strizzo gli occhi una volta, due volte. Tremo, ho la stessa sensazione di paura che si prova quando si assiste a un film dell’orrore di serie B. Non può andare peggio. Le nuvole oscurano il sole pallido del pomeriggio. Un forte scroscio di pioggia si abbatte contro i vetri delle finestre resi lucidi dall’acqua. I tuoni rombano come un gigantesco stereo portatile con il volume impazzito. Il vecchio edificio trema. Rabbrividisco. Davvero voglio tornare là fuori in mezzo al temporale? No, e quindi non mi ribello quando il vecchio pittore mi spinge verso la piattaforma nel retro dello studio.

    «Veloce, mademoiselle, o perderemo la luce.»

    Il cattivo odore di tabacco rancido mi colpisce le narici.Ma chi è questo scemo? Di sicuro non è Adone,nessuna donna si spoglierebbe soltanto per un suo sorriso. È piccoletto, calvo, ha la pancia e fuma troppo.

    «Guardate le mie mani, signore. Sono un’esperta di karatè.» È un bluff, ma in genere i tipi strambi che incontro ogni giorno per lavoro ci cascano. L’unico esercizio fisico in cui sono esperti è quello che si fa da soli e con una sola mano.

    A proposito, vi siete accorti che il vecchio si è stupito che abbia pronunciato la parola karatè con l’accento sull’ultima? Non sarò un’esperta di pompini, ma in francese vado forte. Posso sciorinare una serie di parolacce così lunga da lasciare allibito anche il più duro dei tassisti, potrei chiamarlo salaud, bastardo, oppure quel casse-couilles, rompicoglioni.

    «Avete commesso un errore, monsieur» continuo, adesso che ho la sua attenzione. «Non avrei l’aspetto fradicio di una lasagna stracotta se avessi avuto un ombrello, che non ho. Nessuno di O.C. lo usa. Rovina l’immagine, per non parlare delle quotazioni.»

    Mi fa una faccia... Sono una sciocca. Non può capire le mie citazioni pop, che del resto non spiegano perché non è il caso che mi veda nuda, e non spiegano neppure il fatto che mi copra di crema abbronzante invece di prendere il sole su una spiaggia della California. Non gli parlo del fatto che la cellulite e io abbiamo un legame molto stretto. E neppure della pancia gonfia per le patate fritte straunte che ho ingurgitato al mercato delle pulci.

    «Allora, mademoiselle, voi non siete una modella?» mi chiede facendo un gesto con le mani come se palpasse due meloni al supermercato.

    Scuoto la testa con forza. «No.»

    «Peccato.» Tossisce, getta la sigaretta in un piattino vuoto e mi spoglia con gli occhi, a cominciare dal berretto rosso degli Angels fino alla maglietta bianca di cotone di Donna Karan e ai fuseaux lilla con la striscia bianca sul lato. «Mi piacerebbe farvi lo stesso il ritratto.»

    Piego la testa di lato, rifletto. Cosa me lo impedisce? Posare in reggiseno e mutandine non è poi così diverso che indossare il bikini per una festa in piscina, giusto? Allora, perché non provarci?

    Annuisco. «D’accordo. Sarà un ricordo divertente da portare a casa.»

    Sorride, poi sgancia la bomba. Mi centra in pieno. «Bon. Bene. Dovete posare nuda.»

    «Siete proprio sicuro che anche Madonna abbia cominciato così?» chiedo ancora con le mutandine addosso. Tiro l’elastico fino a che non scatta e mi colpisce la pelle. Ahi! Mi sono già tolta i vestiti e li ho appesi all’alto paravento nero che sta nell’angolo insieme al marsupio con i soldi e il passaporto.

    «Mademoiselle?»

    «Sì, Madonna, la cantante pop? Like a Virgin?» Agito i fianchi come fa lei. Non so perché, ma l’effetto non è lo stesso. Il vecchio scrolla le spalle.

    «Non mi importa se siete vergine...»

    Non lo sono, ma sorrido.

    «... voglio solo farvi il ritratto e non fare l’amore, mademoiselle.»

    Ecco fatto. Mi ha steso. Avete presente un preservativo usato?

    Bene, che la festa cominci.

    Le mutandine rosa scivolano a terra. Fatto. Sono nuda. Non posso tornare indietro, anche se mi viene in mente che non mi sono depilata.

    Vive la nudité.

    Guardo il vecchio artista che prepara il foglio con uno straccio umido. Adesso cosa devo fare?, dice l’espressione sul mio viso.

    Lui tossisce, si asciuga il sudore dalla fronte e indica i miei piedi. Abbasso lo sguardo. Ho le caviglie coperte di nylon rosa. Sposto il peso da un piede all’altro. Le tavole di legno scricchiolano. Un rumore forte. Devo fare in fretta. D’accordo, d’accordo. Col piede nudo faccio volare le mutandine dalla piattaforma. Sorrido, ormai non ho altro addosso se non gocce di sudore.

    Il vecchio annuisce, prende un carboncino Conté e attende che mi metta in posa. Tengo una mano sopra l’inguine. Che cosa stupida. Devo rilassarmi. Rilassarmi e non perdermi d’animo. Un brivido mi attraversa la nuca, i capezzoli s’irrigidiscono e puntano dritti in avanti. Adesso comprendo come si sentono gli uomini quando hanno un’erezione nel bel mezzo di una riunione infuocata. Ma almeno loro possono nascondersi dietro il gazzettino azionario della settimana. Io? Io sono nuda come un hamburger dietetico servito senza contorno.

    Mi sembra di vedervi, in tuta, seduti comodi che scuotete la testa o vi pizzicate una gamba: non riuscite a credere che a una donna che ha superato i trenta possa venire in mente di togliersi i vestiti davanti a qualcuno che non sia il suo ginecologo. Tenetevi forte. Non è un bello spettacolo, non sono neppure magra.

    Ho un disperato bisogno di avventura, di brividi da poco e se per averli devo sacrificare un paio di mutandine La Perla, ben venga. Non succede mai niente di veramente eccitante in un’agenzia immobiliare, anche se non ho ancora smesso di sperare di incontrare Donald Trump tra un fallimento e l’altro, tra una moglie e l’altra.

    Purtroppo il tempo rema contro le mie speranze. Purtroppo. Ho trentaquattro anni e, da quando David se ne è andato con il mio cuore e la mia forza di volontà infilati nella tasca posteriore, mi è venuta una discreta pancetta. Il fatto di posare nuda suscita in me emozioni di sesso, è irresistibile il fascino del proibito senza correre rischi, senza compromettere la reputazione sul lavoro. È un aspetto singolare del mio carattere che non ho mai osato esplorare.

    Fino a oggi. In questo preciso momento.

    La mia vita è sempre stata così normale, frustrante, prevedibile in ogni momento, che la richiesta del pittore, anche se mi sconvolge, m’intriga oltre misura. Sono fatta così.

    E poi è un modo per dimostrare al mio ex-fidanzato cosa si è perso.

    Stringo i denti. Soltanto pensare a David mi fa rabbrividire. Avrei dovuto mollarlo quando scoprii che mi aveva usato per ottenere informazioni su un grande progetto edilizio nel Wyoming. Ma il suo discorsetto: Lo faccio per noi due, cara, era stato così convincente che non protestai quando mi abbassò le mutandine e mi mandò in orbita con la sua bocca audace.

    Anche mia madre mi aveva messo in guardia, mi aveva detto che David era a caccia di un corpo disponibile e di un conto in banca altrettanto disponibile. Non l’avevo ascoltata. Eppure lei e il suo specchio parlante, se ne intendevano. Avevano appena divorziato dal terzo marito.

    Oggi non sono in vena di consigli e quindi ho spento il cellulare. Mi fa uscire pazza con i suoi messaggini che assomigliano ai sottotitoli dei notiziari. Non fraintendetemi. Voglio bene alla mamma, anche se colleziona licenze di matrimonio come altre donne raccolgono i punti del supermercato.

    Per vostra informazione, l’ho lasciata in rue Saint Honoré impegnata a far calare, con una mano sola, il debito pubblico della Francia, mentre io vagabondavo nel quartiere Marais alla ricerca di un manifesto o di un quadro da aggiungere alla mia collezione di artisti sconosciuti o, per essere più schietti, che costano poco, quando sono stata colta di sorpresa da un temporale estivo.

    Una pioggia fredda che sferzava da ponente mulinava sopra i tetti di tegole azzurre e rimbalzava sul selciato delle strade. La pioggia cadeva a grappoli come bombe d’acqua. Ero bagnata fradicia. Uno spettacolo non bello a vedersi.

    Mi sono rifugiata nello studio dall’insegna sbiadita: Casa Morand.

    Museo delle cere piuttosto. Cumuli di polvere ovunque, pile di quotidiani ingialliti sulle sedie, una libreria con volumi d’arte vicino a un alto paravento in ebano con intarsi di madreperla. Sopra un tavolino basso c’è un vassoio con delle coppette rosse molto sporche, accanto a vaschette con i pennelli immersi in un liquido che odora di trementina.

    Il vecchio artista si schiarisce la voce. «È pronta, mademoiselle?»

    Annuisco.

    Sento umido fra le cosce, rabbrividisco mentre lo guardo fumare e borbottare fra sé. Mi sta aspettando. Non posso più tirarmi indietro. Un bel respiro. In scena. Inizia l’avventura sulla tela. Sono eccitata, accaldata, sto sudando.

    Mi metto in posa.

    Ma chi poteva immaginare che restare ferma per venti minuti fosse così faticoso? Forse perché ero tutta concentrata sul pulsare forsennato della mia zona pubica. La micina. Sì, non provo nessun imbarazzo ad ammetterlo, posare nuda mi ha eccitato. No, il vecchio artista non c’entra niente. Lui si è comportato in modo professionale.

    Sono io.

    Sono sessualmente frustrata e neppure il collo rigido e la schiena a pezzi m’impediscono di fantasticare (oh, che gioia può dare un pene in erezione!). Il mio corpo che sussulta, il mio amante che mi lecca il clitoride e le labbra della micina, e infila la lingua dentro e poi torna sul clitoride. Avanti e indietro fino a che vibro, là sotto, con un’energia a ondate che non si ferma mai, non si ferma mai...

    Mmh... continua a sognare.

    Pausa. Dietro il paravento rilasso i muscoli e asciugo il sudore dalle gambe. Perché è sudore, vero? Sorrido. Forse no. Emetto un sospiro e afferro un camiciotto sbiadito appeso a un gancio. È grigio, sporco di pittura secca, potrebbe essere lì da secoli, ma è asciutto. I miei vestiti sono ancora bagnati. Cammino in punta di piedi fra le pozzanghere sul pavimento di legno. C’è una perdita sul tetto?

    Guardo in su. In quel punto c’è un lucernario quadrato. In alto, sopra la mia testa, l’acqua picchia sui pannelli inquadrati dal piombo che annullano anche quel poco di luce che potrebbe filtrare nonostante la pioggia. Rabbrividisco. È un posto che mette paura. Chissà cosa nasconde l’artista dietro la tenda di velluto nero che copre il muro. Dorian Gray con i pantaloni al ginocchio?

    Prima di tirare la tenda e scoprirlo mi cade l’occhio su un oggetto che mi intriga. È di ferro battuto, alto circa trenta centimetri, coperto di polvere: si tratta di una statua, in testa ha una corona di piume, in mano un correggiato, attrezzo usato per battere i cereali, e il pene in erezione.

    Ho detto erezione? Come di un pene? Oh, sì, l’ho detto.

    L’oggetto è molto meglio di qualsiasi souvenir dell’albergo. Eccitata, allungo la mano e afferro il pene. Lo stringo. Non so il perché ma non riesco a staccarmi. Sorrido. È da un bel po’ che non ne tengo in mano uno così duro.

    Mi sporgo dal paravento e chiedo al pittore della statua.

    «Sta tenendo in mano la gaule, l’erezione, di Min dio dell’Egitto» mi risponde scrollando il pacchetto delle sigarette. È vuoto.

    «Dovrebbero usare lui per la pubblicità del Viagra» scherzo cercando di alleggerire la tensione. La statua è carina, se apprezzate un egiziano che cammina con la testa piena di punzoni.

    «Min è il dio della fertilità, mademoiselle. Il suo simbolo è il tuono.»

    Si mette a tuonare. Che tempismo.

    Il vecchio artista parla sciolto, come se avesse raccontato la storia un centinaio di volte. «Ha il potere di rendere giovani e sensuali...» S’interrompe e abbassa la voce «... se si è pronti a pagarne il prezzo.»

    «Prezzo, monsieur?»

    «L’anima, mademoiselle.»

    Sollevo un sopracciglio. «Vendere l’anima?»

    «Sì. Sarete giovane e bella...»

    «Ma via!» Secondo voi, sta scherzando?

    «... ma non vi potrete innamorare. Mai.»

    Impossibile che accada. Non dopo David. «E che succede se m’innamoro?» chiedo.

    «Tornerete come eravate.»

    In altre parole, di mezz’età e sovrappeso. Lascio scorrere le dita sul... coso della statua. L’artista dice che è in vendita. È una tentazione. Fine delle preoccupazioni sull’aspetto, sulla pancia piatta e le tette a punta? Ma che bella idea, stuzzicante, la magia nera per il sesso. Puntare sempre al massimo.

    Mmh.. Vale la pena rischiare la perquisizione del bagaglio all’aeroporto? Scuoto la testa.

    Ho ancora ben vivo il ricordo, non proprio piacevole, dei sorrisini e delle pacche quando la mia ex assistente, sì quella che adesso fa coppia con David, ha nascosto un vibratore nel mio bagaglio a mano mentre andavo a San Francisco, il mese scorso. Non voglio affatto ripetere l’esperienza.

    Sorrido e dico al vecchio che ci penserò. Scrolla le spalle e va a cercare le sigarette.

    Mi guardo intorno per vedere che altro c’è. Niente. Vasi sbreccati, vecchi libri, una lampada Tiffany e una coppetta rossa macchiata di carboncino che emana uno strano odore. Non sgradevole, strano. Annuso. Coriandolo, vino, zenzero, forse?

    In pochi secondi la testa mi gira all’impazzata, come se gli spiritelli maligni del vino avessero scelto di radunarsi dentro di me. Sarà forse la bottiglia di pinot noir che ho bevuto per mandar giù le patate fritte? O quella roba nella coppetta? Ho lo stomaco per aria, i succhi gastrici si mescolano all’olio fritto e all’alcol e non mi sento bene. Quale che sia il motivo, le ginocchia mi mollano, ho l’impressione di muovermi al rallentatore. Cerco di aprire gli occhi ma vedo tutto confuso. E se svengo? Se vado in coma? Senza neppure un principe che mi risvegli con un bacio alla francese? Crollo in ginocchio, ma resisto ai folletti del sonno che danzano nella mia testa. Per non cadere cerco di afferrare la tenda di velluto nero e...

    ... swoosh!

    Il pesante velluto mi crolla addosso, mentre le mie mani afferrano l’aria. Mi soffoca. Senza fiato cerco di liberarmi dal gigantesco mantello che mi ricopre tutta, dalla testa ai piedi. Il suono forte di respiri affannati, rumorosi, pieni di paura, mi assorda, mi si rizzano i capelli. Trattengo il fiato. In ascolto. Chi è?

    Respiro. Dannazione, sono io, io che respiro come una porno star che finge l’orgasmo virtuale.

    Bene, adesso posso rilassarmi. Non sono intrappolata qua sotto con qualche creatura della notte che emette gemiti spaventosi, ma comunque ancora non riesco a liberarmi. Se tiro da una parte, il velluto si sposta dall’altra. Ho nausea. Devo reagire. Respiro ed espiro. Due volte, tre volte. Non mangerò mai più patate fritte e vino rosso. Lo giuro. Poi...

    ... un altro rumore si aggiunge al mio respiro accelerato. Una risata. Risata? Il vecchio è tornato e si diverte come un matto a osservare la scena mentre si soffoca con la sigaretta senza filtro. Appena mi libero gli do una bella lezione, ma...

    ... un attimo, non è mica lui. La risata è profonda e sexi e molto vicina al mio orecchio. Un brivido mi corre lungo la schiena e le vertebre si scontrano come mattoncini di Lego che non combaciano. Ho paura. I seni sono bagnati di sudore. Grosse gocce scivolano sul corpo e cadono sulle cosce. Non smetto di tirare e spingere il velluto. Non riesco a liberarmi. Ho il respiro sempre più corto. La nuca fradicia. Alla fine riesco a scoprire il viso e... lo vedo. Mi sta fissando. I suoi occhi azzurri mi affascinano.

    Un ritratto a grandezza naturale di un uomo alto oltre un metro e ottanta.

    Sorrido, la tensione svanisce. Adesso so cosa nasconde la tenda. Un figo della madonna. Ha le braccia incrociate, le gambe allargate e indossa dei pantaloni strettissimi che delineano il suo gigantesco arnese e sta...

    Ridendo?

    Le braccia nude si coprono di pelle d’oca. Più penso a quello che ho sentito e più mi convinco di averlo immaginato. La risata sexi dell’uomo ha risvegliato in me il desiderio e non riesco più a distinguere cosa è reale e cosa è frutto della mia mente.

    Ma a guardarlo bene, non si vede che è un quadro? Provo a toccarlo sulla mano. Fredda. Non è vivo. Devo ricompormi e scappare. No, non posso.Sono nuda.

    Problemi, amica mia? T anto lui non ti vede.

    Sorrido. Già.

    Allora perché non divertirsi un po’ e amoreggiare con lui?

    Con gli occhi fissi sull’uomo del quadro, mi accarezzo i seni e li prendo fra le mani. Strofino i capezzoli, duri, scuri e dritti, mi lecco le labbra, poi, visto che il gioco mi piace, lascio scendere una mano sulla pancia, poi fra le gambe. Mi muovo con grazia, con classe. Con arte.

    Arte? Ma via, una vita intera passata a leggere Cosmopolitan mi ha insegnato che si tratta solo e soltanto di sesso. Sono bagnata e pronta. Sento i passi del vecchio.

    È tornato.

    Sfrega un fiammifero. Di certo si è acceso un’altra tozza Gauloise. Una spirale di fumo supera ondeggiando il paravento. Non disturba l’uomo del quadro che continua a sorridere.

    Io? Tossisco.

    «Qui c’è un quadro che mi piace» dico da dietro il paravento, senza staccare gli occhi dalla versione maschile di una pin up, con un tono di voce che mi auguro suoni semplicemente di curiosità.

    «Mademoiselle?»

    «Il bell’uomo dai pantaloni stretti nascosto dietro il velluto nero.» Mi umetto le labbra. Oh-la-la.

    «Avete trovato Paul Borquet.»

    «Chi?»

    «Era considerato un genio del suo tempo,mademoiselle. Il quadro è un autoritratto che ha fatto nel suo studio di Montmartre.»

    «Non l’ho mai sentito nominare.»

    «Dopo la sua misteriosa scomparsa nel 1889, il mondo dell’arte si è scordato di lui. L’ho coperto anni fa.»

    «Coperto? E perché?» Mi avvicino al dipinto. Ho un brivido. Possiede un carisma che supera il tridimensionale. O sono io che sono una ninfetta?

    «Le modelle passavano troppo tempo a guardarlo...» Ride. «... e a masturbarsi.»

    Anche se la luce è poca riesco a capire il perché. L’uomo ha un’aria romantica e pericolosa e una carica di sensualità che fa immaginare locali in vicoli bui, liquori forti e notti intere di passione. Un eroe erotico.

    I miei occhi scendono al rigonfiamento fra le gambe, che conferma i miei sospetti. Senza dubbio si sente un superuomo. È bello, ha tratti fini ma irregolari, che gli conferiscono un aspetto strafottente. È in piedi, con le gambe allargate, i riccioli neri che si appoggiano sul colletto aperto formano un bel contrasto con i muscoli che si intravedono sotto la camicia bianca pieghettata.

    Lo guardo e mi sento bruciare dentro, proprio sotto la linea della finta abbronzatura. Mi fa fremere. Ricordo a me stessa che è soltanto un quadro. Poi un pensiero strisciante s’insinua nella mente. Come sarebbe far l’amore con lui?

    Perché no? Da quando David mi ha dato il benservito, è giusto che sfrutti ogni occasione anche se si tratta di un uomo a due dimensioni e con i pantaloni stretti.

    Con un gesto provocante mi avvolgo nel velluto nero che lascio scivolare a scoprire la schiena mentre ancheggio. Fantastico di accarezzargli il torace, di toccare la sua pelle calda, di afferrare la sciarpa viola che gli cinge il collo e attirarlo a me. Vicino, così vicino che posso sentire il suo odore muschiato, immagino di poggiare il viso contro la seta morbida del mantello che porta su una spalla. Ho la sensazione che tutte le mie inibizioni vengano risucchiate come da un lungo bacio profondo. Un bacio alla francese. Non riesco a smettere di desiderare di essere baciata da lui.

    Ma che cosa sto facendo? L’amore con un artista morto da più di un secolo? Forse sto impazzendo. Dovrei fuggire e lasciare che la pioggia mi schiarisca le idee.

    Un lampo si riflette contro la superficie lucida del paravento. Sobbalzo e volto la schiena al dipinto. Non lo guarderò. No. Il rumore di un tuono mi rimbomba nelle orecchie come se Paul Borquet mi sfidasse a farlo.

    «Era un impressionista?» chiedo.

    «Paul Borquet era fra i migliori, mademoiselle» risponde il vecchio. «Monet, Renoir, tutti ammiravano il suo lavoro. E la sua audacia.»

    Piego la testa e sbircio Paul Borquet, so che non dovrei, ma è più forte di me.

    «Audacia?» chiedo. Così era un tipo duro. Interessante. Molto interessante e proprio ciò di cui non ho bisogno, un altro stallone che manda giù steroidi come fossero M&M’s rosse.

    «È morto in un incendio, mademoiselle, cercando di portare in salvo la donna che amava.»

    Bel gesto, ma di superuomini ne ho già avuto abbastanza. Allora perché non riesco a smettere di guardarlo? Ve lo dico io perché. La penombra non c’entra niente. Mi intendo di arte. Il suo lavoro possiede energia. Vibrazioni. Sa come usare i colori, sa come farli diventare un mezzo per trasmettere la percezione della luce. Sembra sospeso, splendente, vivo dentro la cornice. Il quadro sembra una foto d’autore, è così attuale e spontaneo come se fosse qui, adesso, di fronte a me, vivo.

    «Paul Borquet» ripeto fra me mentre mi succhio il pollice chiedendomi se era bravo a letto tanto quanto lo era con i pennelli. Il desiderio di sesso si riaccende, allungo una mano, in basso, lì.

    Mi lecco le labbra e lo penso nudo. Passo le mani febbricitanti sulle cosce e cerco di immaginarlo nel momento dell’orgasmo. Mi godo l’istante. Le pennellate e le linee decise mi fanno pensare che l’uomo possieda un’aggressività che mi eccita. Che mi fa rabbrividire, che m’infiamma. Tanto.

    Con gli occhi fissi sul dipinto comincio a ondeggiare i fianchi, sogno che il suo pennello tracci il contorno del mio ventre e che poi scenda fra le gambe e che le morbide setole mi solletichino con piccoli colpetti. Le sue mani che mi esplorano il corpo, soffermandosi qui e là, lentamente. Poi comincia con

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