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Intesa d'Amore: Libro Due della Serie Fairfields, #2
Intesa d'Amore: Libro Due della Serie Fairfields, #2
Intesa d'Amore: Libro Due della Serie Fairfields, #2
E-book252 pagine3 ore

Intesa d'Amore: Libro Due della Serie Fairfields, #2

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Info su questo ebook

Completo elegante, sorriso mozzafiato e una timidezza che trovo sexy, sono gli ingredienti perfetti per una notte bollente.

Traduzione: è impossibile non desiderare Levi Fairfield.

È anche stato ferito in passato. Non che mi importi, non cerco una relazione. Io sono più il tipo da avventura di una sola notte e i ragazzi con i cuori spezzati sono perfetti.

Una notte. È sempre abbastanza per me.

All’improvviso, la mia vita è sconvolta da un paio di cose che non avevo considerato. Per esempio quanto sia difficile smettere di pensare a Levi o la notte speciale che ho passato con lui.

Quella stessa notte, perdo tutto e il nostro accordo si trasforma in qualcosa di più. Qualcosa di reale. Posso gestirlo, però. Devo farlo.

Perché, anche se credessi in una cosa del genere, Levi e io non siamo anime gemelle.

Siamo coinquilini.



* * *

Giacca di pelle, lingua tagliente e la capacità di farmi innervosire anche se mi fa esplodere di desiderio.

Ci sono molti modi in cui potrei descrivere Mara.

Quando si presenta alla mia porta dopo aver perso tutto, non posso cacciarla. Dovrei farlo, ma la verità è che ha bisogno di me.

La verità ancora più gande?

Io ho bisogno di lei.

LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2020
ISBN9781071574379
Intesa d'Amore: Libro Due della Serie Fairfields, #2

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    Anteprima del libro

    Intesa d'Amore - Piper Lennox

    Per tutte le ragazze che hanno delle cicatrici.

    Capitolo 1

    Mara

    Se essere un rimpiazzo fosse una professione, io sarei già stata l’impiegata del mese per cinquanta volte di fila.

    «Non andare.» Questo tipo mi palpa mentre ci troviamo nello scantinato della madre, al buio. Non ricordo il suo nome. Non ricordo la maggior parte dei nomi, ma non ha molta importanza.

    Il letto è singolo. La sua roba è ancora dentro le scatole, impilate contro la parete. Questi sono i segni tipici di un uomo che è appena uscito da una relazione. Una relazione seria, dato che viveva con la ragazza in questione. La notte scorsa, quando lo avevo scelto tra il suo gruppo di amici, non mi era sembrato un tipo appiccicoso. Aveva riso e giocato a biliardo. Dopo, aveva ordinato un altro shot alla cannella.

    «Ha un sapore di merda,» gli avevo detto, mettendo un po’ di panna montata nel bicchiere e facendo un brindisi. Il suo sorriso non mi era sembrato triste. Quando gli avevo afferrato la mano per controllare l’orologio, scoprendo che mancassero ancora sette minuti alla fine del mio turno, lui mi aveva fissato prima di piegare la testa all’indietro e mordersi il labbro.

    «Sei single?» aveva chiesto.

    «Sempre.» Gli avevo sfiorato la mano.  «Tu?»

    «Assolutamente sì.»

    Ecco perché avevo pensato che fosse alla ricerca di un rimpiazzo ma che avesse superato la rottura abbastanza da non affezionarsi, che si trovasse in quella zona di mezzo tra Penso ancora alla ragazza numero uno e Cerco la ragazza numero due.

    Suppongo che questo mi renda la ragazza 1,5.

    Adesso, con le sue dita attorno al mio polso, mentre cerca di spingermi di nuovo verso il letto, chiudo gli occhi e mi rendo conto di essermi sbagliata.

    «Che ore sono?» Indosso i jeans attillati, che odorano ancora di frittura e birra, e cerco il reggiseno e la maglietta sotto le coperte.

    Funziona e lascia andare la presa per controllare l’orologio sul comodino, che consiste in un distributore dell’acqua senza bottiglia. «Sono passate da poco le quattro.»

    Cristo. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui mi sono svegliata ancora ubriaca e non con i sintomi del post sbornia. Non appena mi alzo, mi gira la testa.

    «Non andare,» ripete, sedendosi sulle ginocchia. Mi volto per salutarlo ma lo vedo massaggiarsi l’erezione, come se mi stesse mostrando la chiave per Atlantide. «Potremmo fare un altro giro.»

    Mi tenta. Da quello che ricordo, la scorsa notte è andata bene. Questo tipo mi ha sculacciato, ha saputo toccarmi i capezzoli e ha persino detto il mio nome quando è venuto sulla mia schiena.

    Eppure, è proprio questo il problema. È andata bene.

    Io non voglio una relazione, perché le cose si complicano, le persone diventano gelose e si smette di essere un individuo unico. Non mi credete? Chiedetelo a uno dei miei colleghi fidanzati o sposati. Non potete farlo, però, perché dovreste scavare nel sedere dei loro compagni per trovarli.

    A me piacciono le storie senza impegni e i ragazzi i cui cuori appartengono ancora a qualcuno altro.

    Inoltre, non c’è niente di meglio che fare sesso per vendetta. Se si vuole essere scopati con più violenza e forza del solito, bisogna scegliere un ragazzo che vuole fare incazzare la propria ex.

    «Più tardi devo andare a un matrimonio,» dico, abbassandomi per scuotere i capelli. Grave errore. Allunga una mano e mi afferra tra le gambe.

    «Hai bisogno di un accompagnatore? Perché io sono libero»

    Oh, tesoro. Certo che lo sei.

    Mi dispiace sempre per questi tipi. Quelli che vorrebbero andare avanti, ma non ci riescono. La maggior parte delle volte è così perché la relazione è finita senza un motivo preciso.

    «Resta soltanto un altro po’.» Sbadiglia e si sdraia, continuando a massaggiarsi. «Voglio vedere se riesco a farti tremare di nuovo le gambe.»

    Non può. Ieri sera le mie gambe hanno tremato perché morivo di fame e avevo fatto un doppio turno, andando avanti soltanto grazie a una barretta proteica.

    Guardo il suo uccello e penso alle banane che ho comprato. Non appena tornerò a casa, mangerò il panino con banana e burro d’arachidi più grande della storia. Si capisce che non c’è chimica quando l’unica cosa cui si riesce a pensare è il prossimo pasto che si mangerà.

    Eppure, mi dispiace per lui.

    Continua a massaggiarsi e scivolo sul letto per baciarlo. Dopo, metto la mano sotto la sua e mi muovo al suo posto. «Cazzo, sì,» sussurra e sento il suo alito di merda. Probabilmente anche il mio fa pena. Ho lasciato le gomme da masticare al bar.

    «Oh, merda, piccola.» Solleva i fianchi. «Togliti i vestiti, lasciami...»

    Aumento il ritmo e lo bacio di nuovo per zittirlo. Gli ci vuole soltanto qualche altro minuto per pulsare e venire sulle mie dita.

    Rimane sdraiato lì, con il respiro affannoso, mentre mi guarda scendere le scale come se non fossi reale. Probabilmente è meglio così, perché tra dieci minuti invierà un messaggio alla ragazza che gli ha spezzato il cuore. Potrebbe mandarla a fanculo o dirle che gli dispiace, non lo so e non mi importa.

    * * *

    Le strade sono ancora deserte. Questa è la versione della città che conosco meglio. L’aria è fredda, non importa quale stagione sia, e vedo le luci accese di quasi tutte le finestre. Le persone stanno per cominciare la loro giornata mentre io ho appena terminato la mia.

    C’è silenzio. Le auto viaggiano sulla strada ma nessuno suona il clacson. Probabilmente è troppo strano farlo quando il sole non è ancora sorto.

    Vedo il mio riflesso su una vetrina di un negozio di giocattoli. Capelli scombinati, jeans neri e giacca nera. Eyeliner sbavato. Scommetto di averlo lasciato anche sul suo cuscino e che sua madre non sarà felice di vederlo quando farà il bucato di suo figlio.

    Oltre al mio riflesso vedo uno stand di bambole.

    Pageant Girls. Riconosco subito Olive, Cora, e Kiki. Sono le più vendute del brand dagli anni novanta. L’unica cosa che cambia nel corso del tempo sono gli accessori e i vestiti. Cora adesso ha leggings floreali e Kiki uno smartphone.

    Quelle che avevo io erano un’edizione limitata. Kiki, la mia preferita, aveva una salopette jeans su cui si poteva disegnare e si poteva persino lavare per rifarlo da capo. Ricordo ancora l’odore dei colori rosa e viola sulle dita.

    Ogni volta che mio padre tornava da un viaggio, mi stringeva le mani e mi prendeva in giro, come se la sua pelle non sembrasse peggiore della mia. Le vene avevano un colorito giallo e nero e c’erano dei rigonfiamenti rossi simili a morsi di ragno. Ogni volta pensavo di deriderlo, man non lo facevo mai.

    «Mi scusi.» Un tipo con un completo elegante mi supera e vedo il semaforo dei pedoni diventare verde. Prima di attraversare, guardo le bambole.

    Sullo stand c’è scritto Un Mondo per Ragazze. Lo slogan non è cambiato nel corso degli anni e per una persona cinica come me significa che le ragazze hanno ancora bisogno di fingere. Troviamo il nostro mondo e ci nascondiamo dentro. Dopo insegnammo alle generazioni future come fare lo stesso. Dio sa che è più facile sognare nel mondo delle bambole piuttosto che in quello reale.

    A questo proposito, quando ero piccola, volevo essere un’artista. Disegnavo sempre sulla salopette di Kiki e supplicavo mia madre di comprarmi il set da pittura delle Pageant Girls.  Ero persino riuscita a entrare alla scuola d’arte della città vicina ma mia madre mi aveva confessato di non poterselo permettere. Eppure avevo continuato a credere in quel sogno per molto tempo. Tutto per una bambola.

    Una volta nel mio loft, crollo sul letto e mi copro. Non sono ancora abituata a stare sola. Da quando la mia prima coinquilina era andata via, non avevo tolto il divisorio che separava le nostre stanze. Dopo quel momento c’erano state due coinquiline ma entrambe erano durate meno di sei mesi.

    Ho ancora addosso l’odore dello scantinato del ragazzo: lenzuola vecchie e cemento bagnato. L’alcol mi fa battere più velocemente il cuore e sento i miei vicini litigare per chi dovrebbe passeggiare il cane, che non smette mai di abbaiare quando deve uscire. Proprio come in questo momento.

    Eppure, riesco ad addormentarmi.

    Dannate bambole. I miei sogni sono pieni di pubblicità di Pageant Girls con le loro biciclette e i set da cucina. Poco dopo, non riesco nemmeno a vedere i bambini che le muovono. Le bambole ci pensano da sole.

    La mia sveglia suona alle tre del pomeriggio. Ah, ecco il posto sbornia.

    Faccio partire laplaylist Matsui ed entro nella doccia. L’acqua mi brucia la schiena. Il ragazzo mi ha lasciato dei graffi. Non posso biasimarlo. Gli ho detto di essere violento.

    Suppongo di non poter indossare il vestito nero con la schiena scoperta.

    Scelgo l’abito meno provocante che ho. È rosso acceso, senza spalline e con un lungo spacco. Juliet lo chiamava sempre il mio vestito Jessica Rabbit, soprattutto perché mette in mostra un paio di cosette.

    Mi trucco, metto gli orecchini e sistemo i capelli in onde morbide. Manca solo il profumo.

    Oltre ai jeans skinny, è l’unica cosa che non riesco a smettere di comprare. Al momento ne ho venti flaconi e li faccio tintinnare ogni volta che apro un cassetto. Scelgo Prom. Sembra troppo femminile e dolce, e la confezione rosa non aiuta, ma l’odore è leggero. Vaniglia e un accenno di rose. È perfetto per un matrimonio in una location meravigliosa, con una band e, se sono fortunata, un testimone carino.

    Prima di andare via, mi guardo allo specchio. La borsa nera stona, quindi la sostituisco con quella argentata. Sistemo i capelli un’ultima volta e faccio un respiro profondo.

    Alla fine, sono pronta.

    Chiudo la porta. Probabilmente non tornerò questa sera.

    Levi

    I matrimoni sono depressivi quando sei divorziato.

    Sapevo che oggi sarebbe stato un giorno difficile. Qualsiasi matrimonio lo sarebbe ma, dato che oggi a sposarsi è mio fratello, la situazione si complica ancora di più. Sono felice per lui ma, oltre che aiutare con l’organizzazione, sono anche un invitato e mi ricorda per l’ennesima volta che sono single.

    Non sono soltanto single. Si dice che dopo il matrimonio non si possa tornare mai più a esserlo. Divorziato è la parola giusta.

    «Stai bene?» chiede Cohen mentre siamo radunati per le foto. «Sembri... non lo so, distratto.»

    Gli sistemo la cravatta. «Sono soltanto stanco. Ieri sera non ho dormito bene.» Nemmeno quella prima o tutte le altre da quando sono tornato a casa e Lindsay se n’è andata. Non sono ancora riuscito a trovare un coinquilino e non so che cosa mi spaventi di più: non avere i soldi del mutuo o restare ancora da solo in quel posto gigante.

    «Lo stesso vale per me.» Cohen guarda le sorelle di Juliet, che sono anche le damigelle. Con molta probabilità hanno organizzato il novantotto percento di questo matrimonio. «Abbiamo finito?»

    «Non abbiamo ancora fatto le foto in giardino,» protesta Viola, ma Juliet solleva il vestito e va verso le porte.

    «La cerimonia si è tenuta in giardino, Vi. Sono sicura che abbiamo scattato abbastanza foto.» Lei e Cohen prendono loro figlia per mano e vanno dentro. Viola è costretta a seguirlo.

    Abigail, la sorella di mezzo, mi dà una gomitata mentre entriamo. «Che ti succede oggi? Continui a fissare il nulla da quando si sono scambiati i voti.»

    Sì, sto bene. Mi sto soltanto crogiolando nell’autocommiserazione perché i voti che mi sono scambiato con la mia ex hanno avuto una vita più breve della garanzia della nostra lavastoviglie.

    «Non sono ancora ubriaco,» le dico. «Ecco che cosa succede.»

    La sua risata riecheggia nell’ingresso, avvertendo il marito e i figli del suo ritorno. «Non potrei essere più d’accordo,» esclama prima che la sua famiglia la assalga.

    La sala da ballo è piena, quindi vado da Madison e chiedo un whisky gratis a Seth. È uno dei vantaggi dell’essere un Fairfield: poter vagare in questo hotel come se fosse mio.

    Bevo subito e torno tra la folla. Juliet e Cohen stanno finendo il primo ballo e non posso essere triste quando vedo il modo in cui si guardano. La canzone cambia. Juliet balla con il padre e Cohen con nostra madre, che sembra molto felice.

    Non appena finiscono di ballare, mi chiedono di fare il discorso del testimone dello sposo. Sono felice di essere il primo, perché Viola riesce a commuovere tutti e Abigail è davvero divertente. Il mio non è un capolavoro, ma qualcuno ridacchia e tira su con il naso.

    Sgattaiolo via quando finiscono di tagliare la torta e si sporcano il viso a vicenda.

    L’ascensore si apre e nascondo il bicchiere dietro la schiena. Quando Cohen e io eravamo piccoli ed esploravamo quel posto, trovavamo sempre qualcosa di nuovo. Cibo gratis, armadi pieni di cuscini che odoravano di menta. Una volta avevamo persino trovato un gruppo di ragazze che festeggiava un addio al celibato. Ci avevano trattato come dei bambini ma ci avevano mandato via con la pizza.

    C’erano voluti anni per scoprire che le scale accanto al corridoio portavano al tetto, e so che nessuno mi troverà lì. Salire venti piani mi fa stare meglio. Osservo gli altri ballare mentre io sono quassù con un bicchiere di whisky. Chi ha bisogno dei matrimoni?

    Mi correggo. Ho appena finito il whisky.

    Quando ero più giovane e stupido, passavo molto tempo ad arrampicarmi sui tetti e persino a intrufolarmi negli edifici. Uffici vuoti, palestre scolastiche, l’appartamento della mia prima ragazza... qualsiasi posto senza telecamere di sicurezza andava bene.

    Non prendevo mai niente. Entravo e uscivo... soltanto per capire se fossi in grado di farlo. Eppure, ciò che mi piaceva di più era la sensazione di trovarsi in cima al mondo.

    Il vento aumenta. Mi siedo contro una ventola e chiudo gli occhi. All’improvviso, le luci della città sono troppo accecanti.

    Una sigaretta sarebbe il paradiso in questo momento. Lindsay mi aveva convinto a smettere quando avevamo cominciato a frequentarci. Avevo ventuno anni. Dall’età di quattordici non aveva trascorso un giorno senza fumare. Le minacce di mia madre non avevano funzionato. La puzza di fumo sulle dita non era servita a niente. Eppure era bastata una parola da parte sua e...

    «Hai un accendino?»

    Sobbalzo. La ragazza compare dal nulla. Quando sollevo lo sguardo, scoppia a ridere.

    «Ti ho fatto davvero paura.»

    «Ehm... sì,» rispondo e provo a controllare il battito del mio cuore mentre lei cerca nella borsetta. «Mi hai spaventato.»

    «Accendino?» chiede. La guardo tirare fuori un po’ d’erba e preparare una canna. «Al lavoro mi rubano tutti i Bic.»

    «Non posso aiutarti, ma è divertente. Stavo proprio pensando a come una volta fumassi e...» smetto di parlare. Perché dovrebbe importarle che una volta avevo più accendini in tasca che monete?

    «Sigarette!» Ne estrae un pacchetto dalla borsa. «Grazie a Dio,» sospira e tira fuori un accendino. «Avevo dimenticato di averlo messo qui. Bella pensata.»

    «Oh.» Mi sento fiero del suo complimento, anche se non ho fatto niente. «Bene.»

    Fa un tiro e si gode la vista prima di buttare fuori il fumo e chiedere: «Levi, giusto?»

    Non riesco a vederla bene in faccia. È ancora coperta dalle ombre ma qualcosa di lei mi sembra familiare. Non la sua voce, soltanto... lei. Mi si intorpidiscono le gambe e non riesco più a parlare per via della sua vicinanza.

    «Ci siamo già conosciuti?»

    Si volta verso la luce. «Mara Fulbright,» risponde. «Sono l’ex coinquilina di Juliet. Ci siamo incontrati quando ha partorito.»

    Il ricordo mi travolge all’improvviso, proprio come la nuvola di fumo che indirizza verso di me. «Giusto, giusto. Come, ehm... come stai?»

    «Non mi lamento.» Si avvicina e le ombre la coprono di nuovo. È passato più di un anno da quando c’eravamo visti, ma credo che non l’avrei riconosciuta comunque. Per prima cosa, non indossa abiti neri. Secondo, quando incrocia le braccia sul petto per offrirmi la canna, la vista del suo seno mi distrae.

    «Non...» sto per dirle che non mi faccio da anni. Non appena gli affari avevano cominciato ad andare bene, la mia vita si era ridotta a una serie di azioni abitudinarie, come fare la doccia, mangiare e dormire. Tutto il resto mi era sembrato uno spreco di tempo. Avevo rinunciato all’erba, bevevo di rado e non mi ero mai preso un vero giorno libero.

    Ero diventato un robot e l’unica cosa di cui mi era importato era stata il lavoro. Mi ero dimenticato di tutto il resto e delle persone che avevo intorno.

    È strano che Lindsay non mi abbia tradito prima.

    «Grazie,» dico ed è come salire su una bicicletta dopo tanto tempo... e cadere subito dopo. Mara scoppia a ridere quando tossisco.

    «Prima volta?»

    «No, ma è passato un po’ di tempo.» Ci provo di nuovo e, questa volta, i polmoni si abituano più in fretta. Non appena espiro, guardo la nuvola di fumo disperdersi nell’aria.

    «Puoi smettere di sbirciare.» Inarca le sopracciglia.

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