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Spiacente, non sei il mio tipo
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E-book298 pagine3 ore

Spiacente, non sei il mio tipo

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Info su questo ebook

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Romantico, ironico e sorprendente

Sara e Teo non potrebbero essere più diversi. Lei lavora come ricercatrice all’università, lui è un figlio di papà che presto o tardi erediterà una casa di produzione televisiva. Lei è bassina, ha forme morbide ed è poco appariscente, lui è il classico playboy sbruffone. In sostanza non hanno nulla in comune se non, a quanto pare, un’indiscussa antipatia per i matrimoni. Ed è proprio a una cerimonia di nozze che si conoscono e hanno modo di trovarsi insopportabili a vicenda. La reciproca e dichiarata incompatibilità non impedisce loro di dare inizio a un battibecco che li porta, un po’ per sfida, un po’ per gioco, a oltrepassare il limite… Ma nessuno dei due dà peso alla cosa: sono perfettamente consapevoli di non piacersi e che non si incontreranno mai più. I piani del destino sono però ben altri. Dopo una vita passata a dissipare soldi senza realizzare granché, Teo è costretto dal padre a riprendere a frequentare l’università: in caso contrario potrà dire addio al suo lavoro nell’azienda di famiglia. E il caso vuole che una delle sue docenti sia proprio l’insopportabile ragazza conosciuta mesi prima a un matrimonio…

«Non è assolutamente il mio tipo, ma non sopporto l’idea di farmi rifiutare.»

Hanno scritto dei suoi libri:
«Era una vita che non ridevo così tanto leggendo un libro.»

«Ormai posso affermare che quest’autrice è diventata una delle mie preferite. Le sue storie non deludono mai.»

Anna Zarlenga
nata a Napoli nel 1979, è laureata in Lettere moderne. Insegnante e madre a tempo pieno, blogger e lettrice per diletto, ha cominciato a sperimentare la scrittura un po’ per gioco. Da quel momento non si è più fermata.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2019
ISBN9788822730893
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    Anteprima del libro

    Spiacente, non sei il mio tipo - Anna Zarlenga

    2298

    Prima edizione ebook: marzo 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3089-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Anna Zarlenga

    Spiacente, non sei il mio tipo

    Indice

    Capitolo primo. Teo

    Capitolo secondo. Sara

    Capitolo terzo. Teo

    Capitolo quarto. Sara

    Capitolo quinto. Teo

    Capitolo sesto. Sara

    Capitolo settimo. Teo

    Capitolo ottavo. Sara

    Capitolo nono. Teo

    Capitolo decimo. Sara

    Capitolo undicesimo. Teo

    Capitolo dodicesimo. Sara

    Capitolo tredicesimo. Teo

    Capitolo quattordicesimo. Sara

    Capitolo quindicesimo. Teo

    Capitolo sedicesimo. Sara

    Capitolo diciassettesimo. Teo

    Capitolo diciottesimo. Sara

    Capitolo diciannovesimo. Teo

    Capitolo ventesimo. Sara

    Capitolo ventunesimo. Teo

    Capitolo ventiduesimo. Sara

    Capitolo ventitreesimo. Teo

    Capitolo ventiquattresimo. Sara

    Capitolo venticinquesimo. Teo

    Capitolo ventiseiesimo. Sara

    Capitolo ventisettesimo. Teo

    Capitolo ventottesimo. Sara

    Capitolo ventinovesimo. Teo

    Epilogo. Sara

    Ringraziamenti

    A te, papà

    Capitolo primo

    Teo

    Odio i matrimoni.

    Li odio come un vegano odia le bistecche. Non sono un vegano e se vedo il seitan fuggo come se avessi un mastino alle calcagna, ma il paragone è calzante.

    Odio i matrimoni.

    Ci sono venuto solo perché si sposa il mio migliore amico e, ehi, non potevo perdere l’occasione per prenderlo in giro!

    Mi sono vestito di nero. Pantaloni neri, giacca nera, cravatta nera, occhiali da sole scuri. Sembro un becchino ed è esattamente la mia intenzione. Non gli farò gli auguri, ma le condoglianze.

    Sono seduto sulla panca della chiesa e cerco di non notare le occhiatacce che mi rivolgono gli invitati. Sembro talmente macabro che qualcuno fa le corna di nascosto. Pensa che non lo veda, ma io vedo tutto. Dietro i miei occhiali scuri osservo ogni scena di questa stupida farsa.

    Cosa spinge un uomo a scegliere la monogamia? Non so rispondere, per me è una domanda priva di senso.

    Perché dovrei farmi tormentare da una sola donna per tutta la vita? Cosa ne ricaverei in cambio?

    Sono più che convinto di essere nel giusto. Del resto, non mi sembra di aver mai sbagliato niente, nella mia vita. Sono un esempio di uomo felice e me ne vanto, me ne vanto parecchio. Un’improvvisa gomitata mi strappa alle mie considerazioni oziose. Mi sono forse addormentato?

    «Teo, almeno oggi, un po’ di contegno!», mi redarguisce Matteo, il cugino dello sposo.

    Gli sbadiglio in faccia senza nemmeno curarmi di coprirmi la bocca. «Questa cerimonia è uno strazio. Tra un po’ mi vado a nascondere nel confessionale e schiaccio un pisolino».

    «Mi pare che tu stessi già dormendo, poco fa», precisa lui. Odio anche le persone puntigliose.

    Un applauso mi scuote. Siamo arrivati alla scena madre.

    «L’uomo non osi separare ciò che Dio ha unito», sentenzia il prete con voce stentorea.

    Be’, ma se a separare ciò che Dio unisce ci fosse una donna, sarebbe meglio?

    Il mio pensiero sarcastico non manca di farmi venire idee malsane: non posso sopportare di aver perso il mio compagno di sbronze e allegre scopate.

    Ora con chi andrò a rimorchiare le oche del sabato sera? Non sarà la stessa cosa senza di lui. Devo trovare un diversivo degno di questo nome.

    Lo strazio cerimoniale giunge finalmente al termine. Ora ci aspetta il lancio del riso.

    «Prendete una manciata di chicchi!», grida una donna dal sedere grosso, immagino una parente della sposa, con i capelli di un rosso imbarazzante. Tra le mani ha una cesta piena di coni di riso appoggiati su un letto di confetti.

    «Posso prendere anche i confetti?», chiedo mellifluo, utilizzando la mia tattica strappamutande.

    La donna cannone mi sorride e mi fa l’occhiolino. Rabbrividisco, ma non cambio l’espressione.

    «Serviti pure, zuccherino. Attento a dove lo lanci, però».

    Certo, starò attentissimo, penso, mentre nella mia mente si fa strada il desiderio di giocare al tiro al bersaglio con la testa degli sposi. Magari un colpo di confetto ben assestato potrà far ritrovare loro il senno.

    Mentre questa intenzione si fa spazio nella mente, mi preparo al lancio come se fossi un giocatore di baseball. Il proiettile mortale e ricoperto di zucchero fa un volo notevole, talmente notevole che prende di striscio gli sposi e prosegue sulla sua traiettoria, sparendo dietro di loro.

    Si sente un «Ahi» distinto e io mi nascondo dietro la chioma vaporosa di una che ha pensato, forse, di creare un rifugio per piccioni sulla propria testa.

    «Si può sapere chi è l’incosciente che lancia confetti in questo modo?», sento dire. Ridacchiando mi infratto di più dietro alla donna-siepe. Qua dietro non mi scoprirà nessuno.

    «Teo!», mi chiama in causa una voce che riconoscerei ovunque: il mio amico Silvio, il condannato, avanza verso di me con espressione belligerante. Vorrei scappare, ma sono incastrato nella marea umana degli invitati.

    «Ti avevo avvertito, Teo. Niente cazzate al mio matrimonio!».

    Vengo fuori con le mani alzate e un sorriso. «Andiamo, Silvio! Non l’ho mica fatto apposta!».

    Lui mi fulmina con lo sguardo. «Come se non ti conoscessi! Prima russi come un trombone durante la cerimonia…».

    «…Russo?»

    «Sì… russi. Si stavano sgretolando i muri per le vibrazioni, eri peggio dell’organetto! Attenti alla nostra vita con i confetti e, come se non bastasse, ti vesti come se fossi a un funerale!».

    Mi tolgo gli occhiali e gli mollo una pacca sulla spalla. «Ti ho già detto che non l’ho fatto apposta. E poi, riguardo al mio abbigliamento… credo non ci sia niente di più adatto. Sto piangendo la perdita di un amico».

    «Tu hai qualcosa che non va in quella testa bacata! Oggi è un giorno di festa!».

    «Per te, forse», ribatto facendo spallucce. Non ho più voglia di continuare questa conversazione.

    Silvio non insiste, anche perché è reclamato dagli altri ospiti che vogliono coprirlo di baci e strofinarsi addosso alla sposa come fosse una reliquia della Madonna di Pompei da cui attendere miracoli. Le zitelle già stanno adocchiando il bouquet. Patetiche!

    Un dito deciso mi picchietta la spalla. Girandomi, non vedo nessuno di fronte a me. Ma che…? Oh, sì, devo guardare in basso. Parecchio in basso.

    La donna-tappo che mi ha artigliato la spalla è al di sotto del mio campo visivo.

    Brandisce il confetto come un’arma non convenzionale.

    «Avresti potuto accecarmi con questo coso!», esclama con la voce ricolma di astio.

    La osservo bene. È bionda, ma è l’unica caratteristica di pregio: per il resto, oltre a essere bassa, è piuttosto in carne e ha un viso anonimo. Per di più è occhialuta e… un momento, cos’è quello?

    Noto che la lente destra è incrinata e le dà un aspetto vagamente da nerd.

    «Sei abituata ad andare in giro con occhiali così malmessi?», osservo con disgusto. Se c’è una cosa che non sopporto in una ragazza è la sciatteria. Non mi piacciono le donne poco curate. Non che questa sia il mio tipo. Non si avvicina nemmeno lontanamente al mio tipo.

    «Fai anche lo spiritoso? Sei tu che mi hai distrutto gli occhiali!».

    Cerco di mantenere un’espressione serafica, senza muovere un muscolo, ed è davvero difficile perché vorrei scoppiarle a ridere in faccia.

    «Secondo te sarei un mago? Come avrei fatto a romperti gli occhiali senza nemmeno toccarli?»

    «Con un maledetto confetto, ecco come!».

    La ragazza è diventata parecchio rossa, il che rende il suo aspetto ancora più sgradevole. Le scocco il mio sorriso da mascalzone. Ma sì, un po’ di gioia anche per lei. Oggi mi sento buono.

    «Spiacente, ma credo che tu ti stia sbagliando».

    «No che non mi sbaglio!».

    «E io ti dico di sì», sbotto allontanandomi. La conversazione comincia a farsi noiosa per i miei gusti. Io non parlo mai con donne bruttine. Anzi, io non parlo mai con le donne e basta. Mi limito a farle parlare, o meglio a far loro invocare tutto il calendario mentre sono sotto di me. Sono un talento naturale, in questo.

    «Ehi, tu», continua il tappo, spingendomi a girarmi di nuovo.

    Alzo gli occhi al cielo. Che male ho fatto per meritare questa punizione? Non mi pare di essere tanto cattivo.

    Un tuono in lontananza sembra voler smentire questo mio pensiero blasfemo. Anche il cielo, oggi, si prende gioco di me.

    «Cosa c’è?».

    Non nascondo il mio tono condiscendente. Ho già perso troppo tempo con questa… questa… questa qua.

    «Una persona educata chiederebbe scusa e si offrirebbe di riparare il danno».

    Trattengo a stento una risata. «Be’, orgoglioso di non essere una persona educata, bambola».

    Bambola? Oddio, l’ho sparata grossa. Bambola da rigattiere, forse.

    «Bambola… a me?», sibila. Sembra quasi offesa.

    «Guarda che era un complimento», le faccio notare. Cose da pazzi. Si offende pure. Quando le ricapita?

    «Sei un cafone!».

    Non è certo la cosa peggiore che mi abbiano detto. Non sono per nulla offeso.

    «Me ne farò una ragione», concludo voltandomi.

    Ci mancava solo questa!

    Sto festeggiando il giorno in cui il mio migliore amico perde la libertà, e già questo è un controsenso. Devo far finta di divertirmi e, come se non bastasse, devo anche tollerare la vicinanza di improbabili esemplari femminili.

    Quella bionda è davvero inquietante. Meglio mettere più distanza possibile tra me e lei. Non vorrei che fosse una di quelle che ai matrimoni va a caccia.

    Non c’è niente da cacciare, carina. Non sei proprio il mio tipo.

    Capitolo secondo

    Sara

    Odio i matrimoni.

    Se non si trattasse di quello di mia sorella, avrei accampato la scusa di essere malata. E invece sono qui, a interrogarmi per l’ennesima volta sui motivi che l’hanno spinta a farlo.

    Non capisco granché il senso di queste cerimonie. Oddio, dovrei essere contenta per mia sorella, ma siamo sinceri! Che speranze ha di essere felice con uno che fino al giorno prima è stato un donnaiolo famoso in tutto il circondario? Dobbiamo proprio credere alle favole e sperare che l’amore compia l’incantesimo?

    Mi spiace, sono molto più pragmatica, per quanto mi riguarda questa è una giornata persa.

    Sospiro, rassegnata, durante lo scambio degli anelli, mentre mia madre e le varie zie e cugine si sciolgono in lacrime. Spendere fior fior di euro per l’estetista e poi rovinare tutto: la logica dei matrimoni.

    A Napoli, si sa, sono eventi che tirano fuori il meglio delle persone… È una gara a chi è più originale, più sontuoso… più… ridicolo.

    Ecco. Non saprei trovare un vocabolo più adatto. Me ne intendo di parole, quindi so quello che dico. Ho tollerato per mesi gli sproloqui di mia sorella su vestito, fotografo, partecipazioni, addobbi floreali, ristorante e amenità del genere. Sono una persona tollerante e voglio davvero bene a mia sorella, ma giuro che ci sono stati momenti che hanno messo a dura prova la mia pazienza.

    «Come fai a non commuoverti?», singhiozza accanto a me mia cugina Rita. «È così romantico!».

    «Cosa ci trovi di romantico in una folla di persone riunite in pieno luglio a sudare sotto la cupola di una chiesa?»

    «Dici così perché non hai un fidanzato!».

    «Per questo è tanto acida», rincara la dose Simona, un’altra delle nostre cugine.

    Signore mio, che male ho fatto per meritarmi questo?

    «Silenzio! Stanno per concludere!», ci redarguisce mia madre, entrata in modalità Terminator: niente e nessuno potrà rovinarle questa giornata.

    Chiudo la bocca, decisa a preservare il mio fegato già messo a dura prova. Del resto lo devo mantenere in salute in vista del buffet. Se proprio devo soffrire, che almeno sia per riempirmi la pancia di schifezze.

    Anche se, a onor del vero, c’è un inconveniente alquanto fastidioso, anche per me che odio stare qui. Si sente risuonare per le volte della basilica un rumore non proprio elegante: pare che qualcuno mi abbia battuto in quanto a noia e stia dormendo saporitamente. Russando, addirittura.

    Il risucchio tipico è inconfondibile. Mia madre fa finta di nulla, ma è davvero impossibile ignorare quel suono. Più di una persona si gira per capire da dove provenga il rumore molesto. Seguo la traiettoria e non posso fare a meno di trattenere una risata alla vista del colpevole: è un uomo, apparentemente sulla trentina o poco più, bruno. È totalmente vestito di nero e porta anche gli occhiali da sole. In chiesa. Forse prevedeva di dormire e li ha indossati per questo, per mascherare gli occhi chiusi.

    Peccato che le adenoidi denuncino in modo clamoroso il suo livello di interesse per quello che gli capita attorno.

    Se dovessi tirare a indovinare, credo sia uno degli amici di bevute dello sposo.

    Bell’amico, non c’è che dire. Fossi in lui mi arrabbierei da matti, ma in fondo mica è il mio matrimonio!

    Mi volto rapidamente e smetto di prestargli attenzione: non è che un altro uomo stupido e superficiale.

    Per grazia divina la predica chilometrica è terminata. Siamo arrivati al momento della firma. Vorrei fiondarmi fuori, ma mia madre mi artiglia il braccio: è decisa a non perdersi un secondo e vuole coinvolgere a tutti i costi anche me. E io che avrei voluto riemergere alla luce del sole!

    Mi ritrovo, invece, inscatolata tra i seni di zia Filomena, che per sfogare la sua felicità ha deciso di trattarmi come un orsacchiotto di peluche.

    «La mia bella nipote! La mia bella nipote si è sposata! Prego tutti i giorni di vedere questo giorno anche per te!», confessa senza alcun pudore.

    «Risparmia le preghiere per le tue figlie, zia», farfuglio tentando di divincolarmi.

    «Oh, ma le mie figlie non hanno bisogno di preghiere». Tu invece…, sembra sottintendere.

    Non c’è che dire, i miei parenti hanno il tatto di un elefante.

    Posso già immaginare cosa stia pensando. Io sono la nipote sfortunata, quella che, a trent’anni, non si è ancora sposata, quella che è al matrimonio della sorella minore senza un fidanzato. Dalle mie parti la mia condizione viene considerata una vera e propria tragedia.

    Odio il fatto che mi guardino come una povera vittima della società. Io la società ce l’ho in pugno! O almeno ci provo.

    Devo tollerare ancora per quanto il suo sguardo compassionevole? Per una manciata di ore?

    Sara, stringi i denti e pensa al buffet, mi ripeto come un mantra, avvicinandomi a mia sorella per salutarla.

    Sonia è l’immagine della felicità: bella oltre ogni dire, ha ereditato dai miei tutta l’altezza che io non ho. In compenso io ho fianchi e curve che valgono per due, ma sono dettagli.

    Mia sorella mi stringe affettuosamente, ma il suo sguardo è calamitato dal neo-marito, che pare non riesca a stare lontano da lei troppo a lungo, quindi mi affretto a lasciarla libera. Non mi piace fare da terzo incomodo. Ci avviamo all’uscita e mi posiziono dietro di loro, ma capisco quasi subito quanto sia poco brillante l’idea: fuori sono tutti schierati come cecchini, pronti a tirare il riso. Se c’è una cosa che detesto all’ennesima potenza è il riso che si appiccica dappertutto e ti entra perfino nelle mutande.

    La mia espressione infastidita si trasforma in un attimo in puro terrore quando mi rendo conto che oltre al riso stanno lanciando anche i confetti. La famosa smania di fare meglio di cui ho parlato: ma che intenzione hanno? Di ucciderci a suon di confettate?

    Neanche il tempo di pensarlo che uno di quegli oggetti volanti fa un tuffo carpiato direttamente sulla mia faccia. Il tentativo di proteggermi è vano, perché il proiettile zuccheroso si conficca in una delle lenti dei miei occhiali. I miei occhiali nuovi, per la precisione.

    «Teo!», grida lo sposo, dirigendosi come una furia verso l’uomo in nero, quello che ci ha allietati con la sua russata in do minore. È lui il colpevole?

    Mi sfilo gli occhiali e strizzo gli occhi. Due sono le cose: o mi condanno a una serata passata a tastare i muri per non cadere, o me li rimetto e mi rassegno ad avere un aspetto ridicolo. Per il momento inforco di nuovo la montatura e decido di affrontare il bello addormentato. Il suo è stato un gesto premeditato, ci scommetterei il reggiseno.

    Il mio tentativo di parlargli non sortisce però l’effetto aspettato: non che immaginassi che mi avrebbe risposto gentilmente, ma addirittura guardarmi come se fossi un moscerino che gli offusca la visuale…

    La mia belligeranza raggiunge i livelli di guardia mentre lui mi scruta quasi stesse per scrivere una recensione su di me. Dal suo sguardo comprendo che mi darebbe una sola stellina. Come se lui fosse bello!

    Oddio… bello è bello, con quei capelli scuri e quegli occhi azzurri. È alto e ha un fisico niente male. Sarò anche cinica e disincantata, ma so riconoscere un bel ragazzo quando lo vedo, anche se mi funziona solo un occhio, al momento. Mi ha fatto l’onore di togliersi gli occhiali da sole costosi e ora mi sta omaggiando del suo sguardo disgustato. Ma chi si crede di essere? Sarà pure un bel ragazzo, ma sono sicura che ha la profondità di un cucchiaio d’acqua. Un uomo senza consistenza.

    «Sei un cafone!», lo attacco senza troppe cerimonie. Ed è strano, perché in genere non sono scortese con gli sconosciuti, ma questo tira fuori il peggio di me e credo che la colpa sia unicamente sua.

    «Me ne farò una ragione», ha il coraggio di replicare, dandomi le spalle e fuggendo come se avesse un lupo mannaro alle calcagna.

    Razza di… razza di…

    Il mio cervello non riesce a formulare un insulto adeguato. Un momento! Non sarà mica scappato credendo, per qualche contorto motivo, che io abbia provato a flirtare con lui?

    A giudicare da una prima occhiata, deve avere un ego grande come un castello gonfiabile, di quelli che usano i bambini alle feste di compleanno. È plausibile che abbia temuto che ci stessi provando con lui?

    Il pensiero mi fa scoppiare in una fragorosa risata: è una cosa assolutamente ridicola.

    Spiacente, mio caro, ma non sei il mio tipo.

    Capitolo terzo

    Teo

    Sono già al quarto calice di prosecco. Per superare questa giornata mi servirà un adeguato tasso alcolico nelle vene. Probabilmente dopo andrò a sfogare il mio malumore con Monica o con Teresa. O con Ramona.

    Non che faccia tanta differenza, non mi accorgo dei dettagli una volta che finiscono tra le mie lenzuola. Forse Teresa è più sfrontata, ora che ci penso.

    «Vuoi finirla? Non ce la farai a ubriacarti con

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