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La Firenze segreta dei Medici
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E-book354 pagine4 ore

La Firenze segreta dei Medici

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Info su questo ebook

Sulle tracce dei luoghi in cui sono vissuti i membri della più celebre casata fiorentina

Banchieri ricchissimi, spregiudicati uomini d'affari, abilissimi strateghi politici, splendidi mecenati, intellettuali raffinati… I Medici non hanno bisogno di presentazioni. Signori di fatto della Repubblica fiorentina, oltre che amici e protettori dei più grandi artisti del Rinascimento, i membri di questa celebre dinastia si sono conquistati una fama da leggenda. Sullo sfondo della Firenze del Quattrocento, le pagine del libro ci introducono nelle segrete stanze in cui i protagonisti del casato mediceo hanno condotto le loro esistenze. Tra le pareti delle celle private di Cosimo il Vecchio in San Marco o tra quelle dell'¬appartamento di Lorenzo il Magnifico in Palazzo Medici, affiorano così ritratti di personaggi noti e meno noti, storie di intrallazzi politici e traffici finanziari non proprio del tutto leciti, aneddoti curiosi e scene di vita dell'epoca raccontati attraverso le descrizioni di banchetti sontuosi e abiti sfarzosissimi. Con un costante riferimento alle somme da capogiro che, accumulate grazie ai floridi affari della banca di famiglia, i Medici non hanno esitato a spendere alimentando la splendida magnificenza per la quale sono passati alla storia.

Le vicende dei Medici sono il filo rosso che attraversa la storia del Rinascimento fiorentino: una storia all’insegna del genio e della bellezza

Le misteriose origini dei Medici
Quidquid sorti accedit, usura est
Banchi piccoli e banchi grossi
Baldassarre Cossa: un antipapa per amico
Holding Medici
Il convento di san Marco, la maledizione di san Domenico e la bolla del perdono
Il testamento di Niccolò e la prima biblioteca pubblica
L’esilio, l’ascesa al potere e le elezioni truccate
In giro per il palazzo ai tempi del Magnifico
Dame, giostre e poesie
La morte di Lorenzo il Magnifico e il misterioso suicidio del suo medico
Le curiose vicende della maschera funebre del Magnifico
Valentina Rossi
Nata nel 1972, è dottore di ricerca in Progettazione architettonica e urbana. Vive e lavora a Firenze. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Firenze almeno una volta nella vita, 101 storie su Firenze che non ti hanno mai raccontato, Misteri, crimini e storie insolite di Firenze e I delitti di Firenze.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2018
ISBN9788822725196
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    Anteprima del libro

    La Firenze segreta dei Medici - Valentina Rossi

    INTRODUZIONE

    Se avessero inventato la macchina del tempo e fosse possibile scorrazzare avanti e indietro attraverso i secoli, chi non desidererebbe farsi almeno una capatina nella Firenze del xv secolo? E magari incappare nel ricchissimo banchiere Cosimo de’ Medici oppure nel suo seducente nipote Lorenzo il Magnifico?

    La Firenze del Quattrocento, con i potenti Medici che ne furono gli indiscussi protagonisti, rappresenta infatti un mito assoluto, una leggenda che non ha mai smesso di esercitare il suo fascino sull’immaginario collettivo.

    Certo non occorre la macchina del tempo per farsi un giro a Firenze e mettersi a inseguire le tracce del suo mitico passato. Basta entrare in una chiesa oppure intrufolarsi in un museo: con tutte le opere d’arte custodite là dentro, tantissime delle quali commissionate tra l’altro proprio da questo o quel membro della famiglia medicea, di tracce del Rinascimento se ne trovano più che a sufficienza.

    Quando si ha a che fare con miti e leggende, c’è però il rischio che immagini idealizzate e stereotipi ci tengano lontani dal cuore più vivo e fragrante delle epoche e dei luoghi di cui ci piacerebbe cogliere, o per lo meno annusare, lo spirito.

    Queste pagine sono state scritte con la voglia di andare a rovistare in mezzo a una sterminata mole di opere d’arte, eventi e personaggi proprio alla ricerca degli aspetti più concreti e magari meno conosciuti di quella dinastia di potenti banchieri che, nella Firenze mercantile del xv secolo, ha avuto un ruolo determinante nella nascita e nello sviluppo del Rinascimento.

    Un avvertimento: questo non è un libro sulla storia dei Medici. Non cercate pertanto la trattazione della congiura dei Pazzi, perché non ce la troverete. Ciò che invece troverete è una selezione di fatti realmente accaduti, noti e meno noti, raccontati sullo sfondo dei luoghi (le celle private di Cosimo nel convento di San Marco, gli appartamenti di palazzo Medici, la Sacrestia vecchia in San Lorenzo…) in cui i protagonisti della stirpe medicea, da Giovanni di Bicci a Lorenzo il Magnifico, passando per Cosimo il Vecchio e Piero il Gottoso hanno, con le rispettive consorti, condotto la loro esistenza. Di alcuni di questi luoghi, come per esempio l’appartamento in cui abitò il Magnifico (andato distrutto nel rifacimento seicentesco di palazzo Medici), troverete una dettagliata ricostruzione.

    Gli argomenti trattati nel libro sono compresi in un arco temporale che va dagli anni in cui i Medici hanno gettato le fondamenta del loro impero finanziario e arriva alla morte del Magnifico, avvenuta nel 1492. Se dopo aver letto queste pagine vi verrà voglia di approfondire come funzionava una cambiale, recarvi nella cappella dei Magi per vedere che aspetto aveva il Magnifico da piccino o andare a spulciare gli inventari dei beni posseduti dai Medici ai tempi dell’apice della loro potenza, questo libro avrà raggiunto il suo scopo.

    I. L’INIZIO

    Piazza di San Giovanni, 25 marzo 1436

    La primavera è tornata a Firenze, e quest’anno ci è tornata in pompa magna. Non è una domenica qualunque, questa del 25 marzo 1436. In riva al l’ Arno, il 25 marzo, si festeggia l’ Annunciazione del l’ arcangelo Gabriele alla Vergine Maria (nonché l’ inizio del nuovo anno), ma oggi non si tratta solo di questo.

    L’aria del mattino è ancora fresca, quasi fredda. Le campane della cattedrale hanno cominciato a battere i loro rintocchi un po’ prima di quando sarebbe dovuta scoccare la Terza. Rintocchi lenti e cadenzati, all’inizio. Poi sempre più veloci, in un crescendo di solenne esaltazione.

    Una folla numerosissima, in una cronaca dell’epoca si parla addirittura di duecentomila anime, si è riversata in città e si spinge accalcandosi verso la piazza dove stanno, uno di fronte all’altra, il Battistero di San Giovanni e la cattedrale dedicata a Santa Maria del Fiore. Le strade, le piazze, i vicoli e gli anfratti più nascosti sono gremiti di gente. Gente alle finestre dei palazzi, agli usci delle catapecchie, appoggiata alle colonne delle logge.

    In alto, ritagliata in un cielo blu che sembra d’acciaio, svetta la cupola della cattedrale. Ancora non è stata rivestita con il manto di mattoni in terracotta, che di lì a due anni ne completeranno il progetto (per la lanterna di marmo e la grandiosa palla d’oro che la sormonta bisognerà invece aspettare il 1461). Ma anche così, spoglia e dall’aspetto un po’ grezzo, essa offre una visione da cui è difficile staccare gli occhi. Non che l’enorme struttura, che si spinge fino a centosessantacinque braccia da terra, sia sorta dal nulla nel giro di una notte: i lavori per la sua costruzione erano iniziati sedici anni prima.

    Sedici anni durante i quali i fiorentini avevano potuto assistere, giorno dopo giorno, strato di mattoni dopo strato, alla graduale elevazione del prodigio architettonico ideato dal genio visionario di Filippo Brunelleschi. Ma adesso che la cerimonia di consacrazione della cattedrale sta per avere inizio, e alla presenza di nientedimeno che il papa Eugenio iv, è come se, soltanto ora, il popolo di Firenze realizzasse pienamente che la sua cupola è davvero finita. Come Brunelleschi sia riuscito nell’impresa di elevarla, è un enigma su cui gli studiosi di scienza delle costruzioni si arrovelleranno per i secoli a venire¹.

    La piazza è stata finalmente sgomberata dai cumuli di materiali che per tanto tempo ne hanno invaso tutto lo spazio: cataste di legname, montagne di mattoni, pile di travi di arenaria. Anche la gigantesca gru è stata smontata. Una passerella di legno, sollevata di due braccia rispetto al livello della strada, arriva davanti alla scalinata di accesso alla cattedrale.

    Il percorso sopraelevato, rivestito di tessuti sontuosi e delimitato ai bordi con arazzi dai mille colori e colonnine ingentilite da ramoscelli di mirto e di alloro, parte dal convento di Santa Maria Novella, sede degli appartamenti che ospitano il pontefice, e si snoda lungo la via dei Cerretani. Scopo della passerella è quello di proteggere dalla folla la processione dei personaggi illustri che ci camminano sopra. Un’idea dello stesso Brunelleschi.

    Accompagnato da Giovanni Vitelleschi, in passato comandante delle truppe papali e ora vescovo di Firenze, papa Eugenio avanza sulla pedana. Seguono sette cardinali, trentasette arcivescovi, gli otto priori della signoria, il gonfaloniere di giustizia Giuliano Davanzati, il signore di Rimini nonché capitano dell’esercito fiorentino Sigismondo Malatesta, e altri cittadini importanti ritenuti degni di far parte di tal seguito.

    Passando accanto al Battistero tutto marmi bianchi e verdi, il corteo giunge all’ingresso della cattedrale. Ai lati del portale incorniciato di marmo sono state sistemate le due sculture raffiguranti gli evangelisti Giovanni e Luca recentemente portate a termine da Nanni di Banco e Donatello. In un gran giubilare di folla, il pontefice varca l’ingresso e dietro di lui, uno dopo l’altro, tutti gli altri membri del codazzo papale sono dentro.

    Nella penombra della basilica regna il silenzio. Lo spazio coperto dalla cupola è invaso dalla luce che entra dai finestroni tondi del tamburo, schermati da tende di lino leggero appena mosse dall’aria. La processione incede lungo la navata principale e i personaggi illustri prendono posto sulle panche sistemate davanti all’altare. Nelle panche retrostanti sono già lì che aspettano le altre personalità chiamate ad assistere alla cerimonia. Ovviamente sono presenti gli esponenti dell’Arte della Lana, la corporazione che ha finanziato la costruzione della cupola, gli ufficiali dell’Opera di Santa Maria del Fiore, l’istituzione fondata dalla repubblica per sovrintendere ai lavori della basilica, e tutto il resto dell’élite cittadina. Tanto lusso e sobria eleganza: lucchi dalle ampie pieghe, in damasco scarlatto foderato di seta.

    Accalcati a riempire quanto rimane dello spazio nelle tre navate stanno gli uomini e le donne del popolo, per lo più vestiti di stracci. La vita è piuttosto dura per loro, ma giornate come queste aiutano a renderla un po’ più leggera. Tra quella gente, i muratori, gli scalpellini, i carpentieri che per qualche lira hanno prestato la loro opera nel cantiere della cupola.

    Con lo sguardo che pare in preda al delirio, Filippo Brunelleschi se ne sta in disparte, in piedi accanto a una colonna, e di tanto in tanto confabula qualcosa all’orecchio di colui che gli sta accanto: un uomo sui quarantacinque, profilo dal naso pronunciato, contegno serioso.

    L’attenzione di tutti è fissa sull’altare, dietro il quale è stato allestito un coro ligneo particolarmente scenografico, decorato con le dodici statue degli apostoli, anch’esse scolpite nel legno. Pure questo un progetto di Brunelleschi. Davanti a ciascun apostolo sono state collocate delle candele. Un cardinale si porta al cospetto degli apostoli e le accende. L’aria si carica di aspettativa.

    Nel silenzio solenne, papa Eugenio raggiunge la scalinata che sale all’altare, posa il piede sul primo gradino. Ed è in questo preciso istante che, all’improvviso, prende avvio la musica. Una polifonia di voci riempie lo spazio. Ai presenti sembra che a cantare sia un coro di angeli. Il paradiso è sceso sulla terra, ed è qui, in Santa Maria del Fiore.

    Nuper rosarum flores / Ex dono pontificis, / Hieme licet horrida, / Tibi, virgo coelica, / Pie et sancte deditum / Grandis templum machinae / Condecorarunt perpetim.²

    Il mottetto è stato concepito per l’occasione dal fiammingo Guillaume Dufay, il più celebre compositore d’Europa, ora al servizio della cappella papale. Il maestro ha impostato la struttura della composizione musicale sugli stessi rapporti numerici che ricorrono nelle proporzioni architettoniche di Santa Maria del Fiore.

    Mentre le voci del coro scandiscono il cantus firmus sottostante la composizione polifonica, «Terribilis est locus iste» – «questo è un luogo che incute rispetto» – il pontefice dispone sull’altare le sacre reliquie custodite nella basilica. Tra queste, un dito di san Giovanni Battista, un frammento della croce sulla quale ha esalato l’ultimo respiro Cristo nostro Signore, e i resti, teschio compreso, di san Zanobi, patrono della cattedrale. Un cardinale passa quindi a benedire le croci dipinte di rosso tenute ritte nelle mani delle sculture degli apostoli, poi la musica si spegne, e il cerimoniale liturgico viene officiato.

    Terminata la celebrazione della messa, a fare il solenne annuncio è l’autorevole cardinale di San Marco: in questa circostanza così importante, proclama più o meno in questi termini il prelato, il pontefice consente ad accordare ai fiorentini una speciale indulgenza per la remissione dei loro peccati. Pertanto, per le anime di quanti avranno vissuto all’ombra della cupola, ogni anno di permanenza nel Purgatorio varrà per sei, più sei quarantene.

    L’uomo accanto a Brunelleschi chiede la parola. Un vociare sommesso si leva tra gli astanti, quell’uomo tutti sanno chi è. Il permesso gli viene accordato e l’uomo attacca il suo discorso che in realtà, più che un discorso, è una richiesta. «Forse», inizia a dire lui, «sei anni non sono poi molti a fronte di tale grandiosa architettura, di tale miracolo dell’umano ingegno che ser Brunelleschi e con lui il popolo tutto di Firenze hanno eretto a onore e gloria di Dio e della città!».

    Il cardinale di San Marco annuisce con benevolenza, quindi risponde aggiornando la sua offerta: sette anni più sette quarantene per ogni anno di espiazione in Purgatorio. L’uomo scuote la testa, il silenzio ripiomba tra le colonne in pietra serena. «Sette anni…», ribatte l’uomo, «forse che l’infinita misericordia di nostro Signore potrebbe limitarsi a sette anni?».

    Il cardinale volge lo sguardo a fissare il papa con aria interrogativa. Il papa fa cenno di sì con la testa e con l’annuncio di un’indulgenza di dieci anni più dieci quarantene quella singolare contrattazione sullo sconto del tempo da espiare in Purgatorio si chiude lì³. Tra i presenti è di nuovo tutto un bisbigliare. Alla fine Cosimo de’ Medici ottiene sempre ciò che vuole. Cosimo de’ Medici il banchiere del papa, Cosimo de’ Medici l’uomo più ricco di Firenze. Macché di Firenze, di tutta Europa.

    Firenze com’era

    Nel marzo 1436 il banchiere Cosimo di Giovanni de’ Medici (1389-1464), passato alla storia come Cosimo il Vecchio, non aveva ancora compiuto quarantasette anni. E Firenze era già tutta nelle sue mani. Al l’ epoca la città in riva al l’ Arno contava meno di 50.000 abitanti, pochi in confronto ai 120.000 che aveva raggiunto a cavallo tra Due e Trecento, prima che la tremenda epidemia di peste del 1348 ne falcidiasse la popolazione, e pochi anche in confronto a Napoli e Venezia che, esse sì con 100.000 abitanti, figuravano tra le città più grandi d’Europa. In quanto a bellezza, però, la città di Dante non era seconda a nessuna.

    «Quale città, non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo, è più salda nella cinta delle sue mura, più superba di palazzi, più adorna di templi, più bella di edifizi, più splendida di porticati, più ricca di piazzi, più lieta di ampie strade, più grande di popolo, più gloriosa di cittadini, più inesauribile di ricchezze, più feconda nei campi?»⁴, scriveva tutto compiaciuto il cancelliere fiorentino Coluccio Salutati. E sì che nel 1403, quando Salutati compose l’Invettiva contro Antonio Loschi da cui è tratta questa citazione, la cupola di Brunelleschi non era ancora stata costruita!

    Affermazioni del genere non erano affatto rare. Sempre in quegli anni, per esempio, l’umanista Leonardo Bruni, pure lui cancelliere della repubblica, componeva il Panegirico della città di Firenze, esprimendosi così: «Non se io avessi cento lingue cento boche o la voce di ferro, non potrei tutta la magnificencia, ornamento, ricchezza, delicie, né tutta la politezza dimonstrare»⁵.

    Nel primo trentennio del Quattrocento Firenze era una città di palazzi simili a fortezze e umili casupole addossate le une alle altre; di chiese, chiesette, monasteri e basiliche; di resti di torri sopravvissute al Medioevo (le numerose torri erette nel xii secolo dalle famiglie della nobiltà feudale, nel 1250 erano state fatte mozzare da un’ordinanza comunale promulgata dal governo popolare che in quegli anni aveva preso il potere). Una città punteggiata da ampie piazze e minuscoli spiazzi, e solcata da strade, stradine tortuose e vicoli angusti. I palazzi dei ricchi erano caratterizzati da logge coperte sotto il tetto sporgente; le case affollate dalla gente del popolo si sviluppavano in altezza per sfruttare tutto lo spazio possibile (potevano raggiungere i cinque piani) e non di rado presentavano i piani superiori aggettanti che, sorretti da puntelli in legno o da archetti di pietra, davano luogo a quegli sporti così tipici del paesaggio urbano fiorentino.

    La zona più vivace della città era quella intorno al Mercato Vecchio, una vasta piazza rettangolare situata dove anticamente sorgeva il Foro romano e dove oggi c’è piazza della Repubblica. Qui c’erano le bancarelle e le botteghe dei venditori al dettaglio, e ci potevi trovare di tutto. Al centro della piazza era collocato un porticato sotto il quale stavano i macellai (che nel 1442 verranno trasferiti nelle bottegucce ai due lati del Ponte Vecchio), e sui banchi tutt’intorno erano esposte le merci più varie: frutta e ortaggi, orci pieni di vino, barili di granaglie e legumi, le pagnotte provenienti dal forno comune, pesci freschi e sotto sale, spezie, vestiti usati, balle di tessuti, articoli in pelle, utensili vari. Nelle loro botteghe gli artigiani producevano tutto ciò che andava incontro ai bisogni dei fiorentini. C’erano i sarti e i fabbricanti di candele; gli orafi, i falegnami e i produttori di vetro; i fabbricanti di pergamene, i cartolai e i rilegatori; i calzolai, i cappellai e i fabbri; i rigattieri, i pellicciai, i droghieri e gli speziali che preparavano i farmaci.

    La città, attraversata dall’Arno, era racchiusa da una possente cerchia di mura intervallata da gigantesche porte, al di là delle quali le campagne si estendevano fino alle dolci colline circostanti, tutte verdi di ulivi e cipressi e costellate qua e là da ville e castelli di epoca feudale, pievi isolate e borghetti medievali. Un’autentica delizia.

    Se un giorno qualsiasi del 1436 foste saliti all’antica basilica romanica di San Miniato al Monte, situata in Oltrarno in uno dei luoghi più alti della città, avreste potuto ammirare, guardando Firenze che si stende ai vostri piedi, più o meno le stesse emergenze architettoniche che potete vedere oggi: Santa Maria del Fiore (iniziata nel 1296) con la sua cupola appena eretta e con accanto il campanile di Giotto (1334-59); il Battistero di San Giovanni con il marmo bianco del tetto che riverbera la luce del sole; il palazzo della Signoria (1299-1314), allora sede degli organi legislativi ed esecutivi dell’amministrazione cittadina, con l’imponente torre di Arnolfo; la torre del palazzo del Podestà (comunemente chiamato Bargello, iniziato nel 1255), sede degli organi di giustizia e di polizia e, non lontano da questa, l’appuntita torre della Badia fiorentina; e ancora, l’enigmatico parallelepipedo di Orsanmichele, l’antico granaio della città, e per finire, collocate l’una agli antipodi dell’altra, le due ampie basiliche, davvero gigantesche per quei tempi, di Santa Maria Novella e di Santa Croce.

    Uno scenario decisamente suggestivo, ma sbaglieremmo a farci della Firenze dell’epoca un’idea troppo edulcorata. La culla del Rinascimento ce la dobbiamo immaginare molto più disordinata e caotica di quanto potremmo mai supporre guardando, per esempio, gli affreschi di Masolino e Masaccio nella cappella Brancacci, o quelli di Ghirlandaio in Santa Maria Novella e in Santa Trinita. In quei dipinti si vedono paesaggi urbani che, se dal punto di vista architettonico rendono perfettamente l’aspetto che dovevano presentare allora gli edifici, poco ci dicono sulla vita che in effetti si svolgeva nelle strade ritagliate tra i palazzi. E ancora meno ci dicono degli aspetti più squallidi che dovevano rendere l’esistenza dei fiorentini piuttosto scomoda e, il più delle volte, anche decisamente sgradevole.

    Già a partire dalla fine del Duecento il governo cittadino aveva intrapreso una sistematica opera di riordino urbanistico, emanando provvedimenti volti a migliorare tanto l’aspetto igienico quanto quello estetico della città. Per fare degli esempi, nel 1299 fu istituita una commissione con il compito di allargare e rendere più rettilinee le strade cittadine, e nel 1385 venne proibito il passaggio di carri e il deposito di rifiuti dei pellicciai e dei conciatori nella piazza della Signoria. Tuttavia, nel xv secolo, parecchie strade restavano ancora prive di pavimentazione e, nonostante non mancassero ingiunzioni che obbligavano allo scavo di fognature e pozzi neri, non era affatto raro che tali obblighi venissero disattesi, lasciando che luridi liquami si riversassero per le strade. I gabinetti, inoltre, seppur privi di acqua corrente, restavano una prerogativa delle abitazioni dei ricchi. Tutti gli altri utilizzavano dei secchi, che vuotavano fuori dalla finestra.

    Specialmente sotto l’afa dell’estate fiorentina tale fetidume doveva ammorbare l’aria di un fetore a dir poco pungente, che si mischiava a quello delle immondizie del mercato lasciate a marcire all’aperto, degli scarti della lavorazione della lana prodotti dai laboratori tessili, e ovviamente degli escrementi degli animali che circolavano in città: i cavalli e i buoi che trainavano i carri con le merci, ma anche le pecore e i maiali che venivano condotti al mercato per essere venduti. E c’era anche di peggio: le pene capitali venivano eseguite in diversi luoghi della città (di solito il patibolo era allestito appena fuori la Porta alla Croce, ma le esecuzioni venivano portate a termine anche nel cortile del Bargello o nella piazza della Signoria) e i resti dei condannati erano spesso lasciati per giorni esposti all’aperto, fino a quando di essi non restava quasi più niente.

    In ogni caso, dettagli macabri a parte, la magnificenza della città toscana, con i suoi palazzi e le sue basiliche e con i gusti raffinati della sua élite era già allora una leggenda, la cui fama andava ben oltre i confini della Penisola. Ed è proprio a partire dal terzo decennio del Quattrocento che tale leggenda comincia a fondersi con quella dei Medici. Due miti con alla base lo stesso comune denominatore: il denaro. Tanto

    denaro.

    L’oro di Firenze

    Firenze era una città capace di ammaliare chiunque ci mettesse piede, ma soprattutto era una città ricca. Il denaro ci scorreva a fiumi. Merito di uno sviluppo economico che, in quanto a volumi d’affari, non aveva precedenti nel mondo occidentale del l’ epoca.

    Noi pensiamo a Firenze, e ci viene in mente il Rinascimento delle arti. Ma ci dovrebbe venire in mente anche un’altra cosa: la nascita del capitalismo moderno. Se Donatello, Masaccio e Brunelleschi, se Leonardo, Botticelli e Michelangelo hanno inaugurato un nuovo modo di rappresentare il mondo, i mercanti e i banchieri fiorentini hanno trovato il modo di farlo fruttare, il mondo. Le due circostanze non devono essere considerate come fenomeni separati. Anzi.

    Un’economia che funziona fa girare il denaro. E il denaro è fatto per essere speso. Quando la situazione politica è turbolenta, quando cioè occorre mettersi in guerra, i soldi che affluiscono in città vengono spesi per finanziare i condottieri e i mercenari che la guerra la combattono al posto tuo. Come sempre da che mondo è mondo, si tratta di un investimento che può risultare molto redditizio. Se una campagna bellica finisce bene, tu estendi la tua autorità su nuovi territori, le loro ricchezze diventano le tue e tu rientri del capitale investito. Vale la pena di rischiare, ma il problema rimane sempre quello, e cioè le tasse. In tempo di guerra le tasse lievitano, i cittadini rimangono a secco e l’economia ristagna.

    Nei momenti in cui invece prevale una certa stabilità politica, e le condizioni di vita cittadina si fanno più tranquille, le tasse scendono e nelle tasche di chi si guadagna da vivere col sudore del suo duro lavoro rimangono più quattrini (e ovviamente ne rimangono di più anche nelle tasche di chi vive di rendita, ma tra i ranghi della facoltosa oligarchia fiorentina i rentier non sono poi così tanti). Allora la domanda interna aumenta e in genere, una volta soddisfatta la richiesta di beni primari (cibo, abiti e un tetto sulla testa), subentra anche quella dei beni di lusso. Non sempre però, perché la domanda di prodotti di lusso può anche essere condizionata da elementi di natura non prettamente economica. Per esempio da motivi di ordine etico e sociale.

    E in effetti fino a tutto il Trecento i fiorentini più ricchi erano stati molto cauti nello spendere. L’accumulo di denaro e l’ostentazione di ricchezza esponevano infatti a severe condanne morali, spesso alimentate anche dai predicatori che per le vie cittadine scagliavano i loro sermoni contro i vizi del materialismo. Tra l’altro, a Firenze come nel resto d’Europa, vigeva all’epoca una rigorosa legislazione suntuaria che, allo scopo di contenere il lusso (e con esso un surplus di importazioni dall’estero), disciplinava in modo piuttosto severo l’uso di vesti e ornamenti eccessivi, arrivando a regolamentare nei dettagli le spese per banchetti, nozze, funerali e altre cose di questo tipo. Difficilmente, all’interno di un tale ordine di valori, i Medici avrebbero potuto avviare la loro colossale opera di mecenatismo, i cui prodotti noi oggi ammiriamo tanto come i capolavori del primo Rinascimento.

    Perché la liberalità (termine nobile che sta per quello un po’ più prosaico di ricchezza) potesse diventare una virtù del cittadino onesto, e il cittadino onesto potesse sentirsi libero di spendere a suo piacimento, fu pertanto necessario un cambio di mentalità. Ci lavorarono gli umanisti, e cioè gli intellettuali dell’epoca, che proprio allora iniziavano a riscoprire e a tradurre i testi dell’antichità classica. Leonardo Bruni, per esempio, tradusse l’Economia pseudo-aristotelica, e concluse che a fondamento della repubblica ci sta proprio la ricchezza, e non soltanto perché essa è indispensabile a garantire il benessere generale, e senza il benessere non può esserci la sicurezza dello Stato, ma anche perché il desiderio di acquisirla prospetterebbe una specie di sfida morale al cittadino che abbia voglia di impegnarsi e mettere a frutto i suoi talenti. In sostanza, per Bruni essere virtuosi non doveva affatto significare fuggire dal mondo e dalle sue incombenze pratiche, ma al contrario mettersi in gioco e, diremmo oggi, essere produttivi.

    Nel corso del Quattrocento idee simili cominciarono ad avere vasta circolazione tanto nelle orazioni pubbliche quanto negli scritti in volgare. Per fare un altro esempio, l’umanista e architetto Leon Battista Alberti prese a sostenere nei suoi scritti che le proprietà sono senza ombra di dubbio necessarie alla felicità familiare, argomento, questo, che potremmo tranquillamente sostenere anche noi. Alberti però forniva una spiegazione tutta sua (sua, e della mentalità che appunto cominciava a prendere piede allora): il possesso di beni, e quindi di denari, è necessario alla famiglia perché è attraverso la ricchezza che si possono stringere le amicizie (quelle giuste) e acquistare autorità tra i propri

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