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Il cavallo di bronzo: L'avventura di Leonardo
Il cavallo di bronzo: L'avventura di Leonardo
Il cavallo di bronzo: L'avventura di Leonardo
E-book519 pagine10 ore

Il cavallo di bronzo: L'avventura di Leonardo

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Info su questo ebook

Il secolo dei giganti 1
L'avventura di Leonardo
Una grande trilogia: il Rinascimento come nessuno l’ha mai raccontato.

"Forcellino sa stemperare la grande cultura in una scrittura avvincente e pop."
Brunella Schisa, il Venerdì di Repubblica

"Gli intrighi e le avventure di una delle più straordinarie epoche italiane."
La Stampa.it

15 aprile 1452. In un piccolo borgo fuori Firenze nasce il figlio illegittimo di Ser Piero da Vinci: Leonardo. È un bambino precoce, curioso e geniale, e quando diventa allievo di Andrea del Verrocchio, il più grande esperto di arte fusoria di Firenze, la sua vita e la sua arte si intrecciano con le lotte di potere tra la Signoria e Roma, tra i Medici, i della Rovere e i Borgia. Mentre nelle botteghe si creano i più grandi capolavori del Rinascimento e si studiano armi innovative in grado di contrastare l’invasione turca, ai mecenati diventa sempre più chiaro il potere di propaganda nascosto nelle opere d’arte. Fra loro non ci sono solo uomini, ma anche donne straordinarie: consapevoli del loro potere seduttivo, profondamente intelligenti e colte, Giulia Farnese, Isabella d’Este e Lucrezia Borgia travalicano i limiti del ruolo in cui erano state costrette per imporsi sulla scena politica e intellettuale del secolo.

Fra delitti, ambizioni feroci, complotti efferati e passioni proibite, Il cavallo di bronzo, primo capitolo della saga Il secolo dei giganti, ci trasporta nel cuore della più appassionante, sublime epoca della Storia italiana: il Rinascimento.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2018
ISBN9788858987858
Il cavallo di bronzo: L'avventura di Leonardo
Autore

Antonio Forcellino

Tra i maggiori studiosi europei di arte rinascimentale, ha realizzato restauri di opere di grande valore, come il Mosè di Michelangelo e l’Arco di Traiano. La sua attenzione si rivolge da sempre a tutta la ricchezza del fare arte, ai contesti storici, alle tecniche e ai materiali, alle radici psicologiche e biografiche dei grandi capolavori. È stato eletto membro del Comitato per le celebrazioni dei 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, promosso dal Ministero per i beni e le attività culturali.

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    Anteprima del libro

    Il cavallo di bronzo - Antonio Forcellino

    LE FAMIGLIE

    I MediciI BorgiaI duchi di Urbino: Montefeltro e della Rovere

    I PAPI

    NICCOLÒ V

    (6 marzo 1447 – 24 marzo 1455)

    PIO II

    (19 agosto 1458 – 14 agosto 1464)

    PAOLO II

    (30 agosto 1464 – 26 luglio 1471)

    SISTO IV

    (9 agosto 1471 – 12 agosto 1484)

    INNOCENZO VIII CYBO

    (29 agosto 1484 – 25 luglio 1492)

    ALESSANDRO VI BORGIA

    (11 agosto 1492 – 18 agosto 1503)

    Prologo

    L’estate del 1451 preparò con un caldo torrido i mutamenti del mondo, rimasto quasi immobile per i mille anni precedenti.

    Nel mare Egeo, azzurro come lo aveva cantato Omero, non si vedevano più ninfe bagnarsi tra le onde e cavalcare un dio mutato in toro con ghirlande di fiori tra le corna. Si vedevano invece agili vascelli, che inalberavano una bandiera con uno spicchio di luna, carichi di soldati armati di spade ricurve che, al solo apparire, suscitavano il terrore nei marinai veneziani e genovesi e nelle popolazioni bizantine rimaste fedeli al culto di Cristo.

    Il nuovo sultano dei turchi Ottomani, Maometto II, giovane e determinato, raccoglieva, nelle baie che avevano visto fondere le acque con il sangue dei troiani, duecento navi dotate di un’arma spaventosa: un cannone capace di sparare palle di granito dal peso di una tonnellata. I turchi, inoltre, erano forti dell’appoggio di un nuovo dio particolarmente generoso con i guerrieri, ai quali prometteva un paradiso allettante, abitato da vergini eterne per il loro eterno piacere.

    Maometto iniziò a murare una fortezza sulle rive asiatiche del Bosforo, di fronte alla città di Costantinopoli, che per mille anni, cinta da difese inespugnabili costruite dall’imperatore Teodosio, aveva accumulato oro, profumi e vizi, ed era come una donna bellissima che i turchi non vedevano l’ora di violare.

    Dall’altra parte del mare, a Roma, la capitale più povera ma vitale della cristianità, un papa colto e raffinato, Niccolò V, rimaneva sordo alle richieste di aiuto dei bizantini, convinto che quelli fossero abbastanza ricchi da potersi permettere di asserragliarsi contro i nuovi barbari, che pretendevano di sostituire il loro al dio eterno di Roma.

    Quei preparativi di assedio, infatti, sembravano agli occidentali non più gravi delle scaramucce e delle guerre che si combattevano sul continente europeo tra principi e stati, perennemente in lotta per i propri interessi. A preoccupare il papa e i principi europei erano proprio le loro stesse incontenibili ambizioni, più che la nuova arma che il giovane sultano Maometto, appena incoronato, stava puntando contro l’antica capitale dell’impero d’Oriente.

    Né era preoccupato da altro che dalla propria ambizione il giovane ser Piero di Antonio da Vinci, notaio ventiquattrenne trasferitosi da poco a Firenze, dove aveva stipulato un patto matrimoniale con una facoltosa ragazza fiorentina, Albiera, che avrebbe favorito la sua ascesa sociale nella città più ricca e vivace d’Italia.

    Durante l’estate era tornato a trovare i genitori nel minuscolo paese di Vinci, poco lontano da Firenze. Il padre Antonio e la madre Lucia, insieme al fratello Francesco, diciottenne, vivevano una vita appena decorosa nel borgo contadino, dove era più facile dissimulare lo stento della propria decadenza. Per generazioni e per secoli, i Vinci erano stati i notai del contado e avevano potuto mantenere una posizione di rilievo nella campagna, ma ora che Firenze era fiorita come uno dei centri più potenti d’Europa era là che bisognava andare a cercare fortuna, e là era andato ser Piero, deciso a non lasciarsi fermare da niente e da nessuno.

    Passeggiava, un giorno di quell’estate, lungo i sentieri profumati tra gli ulivi e i cipressi scuri che disegnavano il profilo delle colline con la regolarità dei merli di un immenso castello fortificato. All’improvviso incontrò una contadina tredicenne, Caterina, che aveva avuto molte disgrazie nella vita – aveva perso la madre e il padre e viveva con un fratello di poco più grande di lei – tra cui quella di nascere bella e mantenere la sua freschezza a dispetto dei lavori massacranti nei campi.

    Ser Piero la vide e desiderò possederla, tanto per celebrare la sensualità dei colori e degli odori dell’estate: doveva pur divertirsi un giovane nobile toscano avviato a uno splendido avvenire! E quella contadina, cos’era mai se non l’occasione per il suo divertimento? La prese tra gli ulivi e la lasciò lì per terra pensando che le conseguenze di quel capriccio violento non avrebbero alterato minimamente né la sua vita né quella della campagna circostante.

    E così fu, in effetti, perché presto il frutto di quello stupro avrebbe abbandonato il borgo e la campagna per andare a cambiare il mondo.

    NICCOLÒ V

    (6 marzo 1447 – 24 marzo 1455)

    LA NASCITA

    Nel marzo del 1452, l’esercito turco era pronto ad attaccare. Maometto II aveva raccolto centocinquantamila uomini intorno a Costantinopoli, aveva ultimato la fortezza di Rumili Hissan sul Bosforo, dalla quale impediva il transito delle imbarcazioni dirette a Costantinopoli e aveva ben armato le sue duecento navi. I cannoni erano pronti a vomitare tuoni più potenti di quelli di Giove, che da tempo aveva prudentemente lasciato l’Egeo.

    Maometto II mandò un’offerta di resa all’imperatore Costantino XI Paleologo, che rispose sdegnato con un dispaccio registrato dai cronisti e rimasto esempio di una fierezza del tutto priva di responsabilità: «Darti la città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti, abbiamo infatti deciso di nostra spontanea volontà di combattere, e non risparmieremo la vita».

    A Roma, intanto, Niccolò V continuava a sottovalutare il pericolo turco, concentrato com’era a tenere a bada i baroni romani: gli Orsini e i Colonna, che rendevano ingovernabile la città con la loro rete di relazioni e i loro potenti eserciti mercenari. Negli stessi giorni, Niccolò accolse a Roma l’imperatore Federico III per incoronarlo nella basilica di San Pietro; fu l’ultima incoronazione avvenuta nella Città Eterna, che temeva l’arrivo delle milizie imperiali, sempre fautrici di disordini politici nel fragile equilibrio degli stati italiani. La cerimonia si tenne in forma solenne il 19 marzo nella veneranda basilica, resa sicura dalle truppe imperiali. Federico, come annotarono i cronisti, si inginocchiò e baciò prima il piede, poi le mani e infine la bocca esangue del papa, già malato e avviato alla morte.

    Evitati incidenti e saccheggi, l’imperatore, con l’investitura papale e le sante reliquie da cui non si separava mai, riprese il viaggio di ritorno verso le Alpi ai primi di aprile, mentre a Vinci la giovane Caterina dava alla luce il 15 del mese Leonardo di ser Piero da Vinci.

    Il bambino fu accolto dalla famiglia dei nonni, Antonio e Lucia, e dal giovane zio Francesco che, al contrario di Piero, non aveva nessuna voglia di lavorare e nessuna ambizione sociale: con il suo piacere per l’ozio e la curiosità per il mondo circostante Francesco si rivelò presto un ottimo compagno per il bambino che doveva stupire il mondo futuro con la sua inesauribile sete di conoscenza.

    Nel frattempo, sempre quello stesso anno, ser Piero si era sposato a Firenze con Albiera e non aveva intenzione di occuparsi del neonato.

    Caterina lo avrebbe allattato lei stessa a casa dei nonni per non dover pagare la balia, poi sarebbe scomparsa, con una piccola dote e un marito dal nome inquietante di Attaccabriga, e di lei non ci sarebbe più stata traccia nella vita di Leonardo.

    PIO II

    (19 agosto 1458 – 14 agosto 1464)

    L’INFANZIA

    La casa di Antonio e Lucia era poco più di un casale, ma in pietra, con comode stanze affacciate sull’orto e una cucina anche troppo grande per la piccola famiglia.

    La vigilia di Natale del 1459, Lucia si affannava a dare ordini alla fantesca Lisa, che aveva già spennato due capponi e preparato i tortelli ripieni per il pranzo festivo al quale erano attesi ser Piero e sua moglie Albiera.

    Leonardo non voleva sgombrare dalla cucina, guardava fisso i cadaveri degli uccelli ai quali Lisa aveva lasciato solo le piume più piccole sulla pelle giallognola.

    Lucia continuava ad allontanarlo ma lui, inesorabile, si avvicinava per osservare le carcasse. «Leonardo, perché non torni nella tua stanzetta a disegnare? Tra poco arriva tuo padre con la moglie e noi non saremo ancora pronti.»

    «Ho finito la carta» rispose il bambino senza alzare lo sguardo dal tavolo ingombro anche di verdure. C’erano ravanelli e piselli secchi raccolti in una grande ciotola di terracotta rossa, due meloni avvolti dalla paglia intrecciata a rete e arance appena mature.

    «Hai finito la carta?» La voce di Antonio arrivò dall’altra camera dove il vecchio era seduto a fissare il fuoco. «Ma se ieri ti ho dato un fascio di ritagli che ho scartato dai fascicoli del tuo bisnonno… Come è possibile che tu l’abbia finita? Non possiamo comprare carta per i tuoi disegni, siamo già in debito con il cartolaio di Firenze e tu hai consumato tutti i ritagli che ho potuto ricavare dal nostro archivio. Non è che hai preso a mangiarla, eh?»

    Leonardo levò gli occhi al cielo, sbuffando. Era alto e bello come un piccolo dio, con capelli biondi che, raccolti in riccioli tenuti appena fermi dietro la nuca da un nastro di cotone nero molto consumato, avevano i riflessi del grano maturo. Le spalle larghe e le gambe forti ben disegnate annunciavano un corpo da atleta.

    Lucia non poteva fare a meno di accarezzarlo, anche nei momenti in cui era arrabbiata con lui. Si chinò, infatti, di poco, per baciargli la fronte. «Hai sentito il nonno? Che ne fai di tutta quella carta che ti rimedia ogni giorno?»

    Lisa smise per un attimo di girare la polenta nel paiolo appeso al camino. «Lo so io che ne fa: la stipa sotto il letto e nella credenza di camera sua, quando non la lascia in giro sul tavolo, nel cassone e ovunque ci sia un po’ di spazio libero. E non vuole che la bruci.» Uno schizzo di polenta bollente partì dalla pentola e le colpì la mano. Se la portò rapidamente alla bocca per alleviare il bruciore e riprese a mescolare la mistura senza smettere di brontolare. «Decine, centinaia di ritagli di carta coperti di scarabocchi fatti con il carbone. Che lascia macchie sui vestiti e sulle lenzuola. Se andasse a scuola come i ragazzi della sua età e della sua condizione, non avrebbe tutto questo tempo da perdere a riempire fogli e fogli di scarabocchi e poi portarli in casa dove non sappiamo più dove stiparli.»

    «Magari mi ci mandassero a scuola, non chiedo di meglio» disse allora Leonardo, con voce calma, ma velata dal disappunto. «Però non vogliono che ci vada, e neppure che giochi con i figli dei contadini… che altro posso fare?»

    «Hai ragione, piccolo mio» intervenne Lucia e tornò a carezzargli la testa stringendolo al seno. «Ma sai che non abbiamo abbastanza soldi per mandarti a scuola e tuo padre non vuole sentirne di portarti a Firenze. Albiera non è riuscita ad avere ancora figli e soffrirebbe troppo a vederti per casa. Non è cattiva, povera donna, ma dover crescere il figlio di un’altra senza la consolazione di averne di propri non è facile. Tu, però, non devi lamentarti per questo. Tuo zio Francesco ti ha insegnato a scrivere e a leggere, sei già molto più istruito dei figli dei contadini, e in casa ci sono molti libri da consultare.»

    «Sì, zio Francesco, buono quello, sta sempre in giro senza fare niente, e con la scusa di educare Leonardo non prova neppure a cercarsi un lavoro, tanto la nostra misera rendita basta a tenerlo in casa a oziare» ribatté Antonio che era entrato in cucina per dare un’occhiata. «E poi guarda che educazione gli ha dato, scrive con la sinistra e non riesce a correggerlo.»

    «Ti sbagli, vecchio brontolone» lo riprese Lucia, che era sempre pronta a difendere il figlio minore, «Leonardo sa scrivere anche con la destra, vero Leonardo? Solo che preferisce usare la sinistra, che male c’è in fondo? Non dovrà mica fare il notaio lui!»

    Uno spiffero gelido arrivò nella cucina insieme alla voce allegra di Francesco che si scrollava la neve dal mantello cerato. «Ma quale notaio, Leonardo farà cose molto più grandi, vero giovanotto? E poi che ti importa del greco e del latino, tu leggi il libro della natura che è molto più interessante. Ho visto due aironi planare sul torrente ghiacciato, sono intirizziti dal freddo, forse facciamo in tempo ad avvicinarli… Presto, metti su il mantello e seguimi.»

    Lucia si parò pronta tra Leonardo e il figlio scapestrato: «Il torrente ghiacciato? A quest’ora? Vuoi farlo ammalare? Come ti viene in mente di portare un bambino di sette anni al torrente in una giornata come questa?».

    «Via mamma, lascialo venire, Leonardo è forte come un guerriero spartano e a sette anni i figli dei contadini escono all’alba per mungere le vacche, lasciaci andare.»

    Leonardo, intanto, era già schizzato fuori dalla cucina per prendere il suo mantellino di pelle foderato di agnello. Lucia allungò inutilmente la mano per trattenerlo.

    «E poi, mamma» aggiunse Francesco, guardando il tavolo traboccante di vivande, «è inutile che tu ti dia tanto da fare per Piero e sua moglie, lo sai che lei ci detesta, per lei siamo dei contadini che è costretta a incontrare una volta all’anno e non vede l’ora di tornarsene nella sua bella casa di Firenze. Come al solito non toccherà cibo. Risparmia le tue fatiche.»

    «Il bischero questa volta ha ragione, Lucia» disse Antonio, «non affaticarti inutilmente, pensa piuttosto a noi che apprezziamo la tua cucina ogni giorno dell’anno.»

    «Ah, come siete meschini voi uomini!» esclamò la fantesca, rivolgendosi ad Antonio con un sorriso di complicità. «Non pensate al dolore della povera Albiera che non riesce a partorire figli e vive nell’angoscia di essere abbandonata dal marito. Cos’è una donna senza figli a Firenze? E poi sapete meglio di me che Leonardo non è un bambino facile, così bello e intelligente, mette soggezione a tutti, figuriamoci alla moglie di suo padre.»

    L’anziano si avvicinò al tavolo e allungò una mano verso il cesto di mandorle sgusciate: «E così essere un bel bambino e intelligente è una colpa? Piero si è andato a cacciare proprio in un bel mondo, ma non importa, finché ci sarò io a Leonardo non mancherà mai niente. E chiudete quella porta che si gela».

    Francesco era già fuori con Leonardo e cercava di correre sul sentiero, affondando però nella neve fino alle caviglie. Nevicava ancora, ma le nuvole impallidivano a vista d’occhio e a breve avrebbe smesso del tutto. Forse, pensava Leonardo, si sarebbe addirittura visto uno squarcio di cielo blu, e la luce avrebbe raggiunto quell’intensità abbagliante che tanto lo affascinava.

    Non c’erano tracce di uomini né di animali sulla distesa bianca che circondava il villaggio. Dalle casupole si alzava il fumo grigio dei camini che si disperdeva nell’aria in quel modo misterioso che Leonardo non riusciva a comprendere.

    Quando furono al limitare del villaggio, Leonardo lanciò furtivo uno sguardo verso una baracca diroccata, poco più in basso del cimitero, dove, sapeva, aveva abitato sua madre Caterina prima di trasferirsi in un altro villaggio e scomparire per sempre dal suo orizzonte. Ogni volta che ci passava accanto non poteva fare a meno di immaginare che volto avesse quella donna di cui nessuno voleva parlargli. Provava a scavare nella memoria per ripescare una sensazione, una forma, un suono che gliela portassero vicino, ma non trovava niente nel suo passato, solo una sensazione dolce di tepore che affiorava dal petto e che spingeva le lacrime fino al bordo delle ciglia.

    Si riscosse, sentendo Francesco che lo chiamava: era già quasi arrivato al torrente e gli faceva segno con il dito sulla bocca di fare silenzio. Leonardo affrettò il passo incassando la testa nelle spalle, quasi che occupando meno spazio nell’aria avesse potuto fare meno rumore.

    In un istante fu vicino allo zio sul greto del torrente ghiacciato. Dall’altra parte della riva i due aironi, fermi, maestosi, giravano con indolenza il lungo collo verso di loro. Il più grande dei due, forse femmina, distese le ali con un gesto lento, lasciando vedere le penne grigie che sfumavano verso il bianco all’attaccatura del petto. Francesco sorrideva e spostava lo sguardo dagli uccelli al ragazzo che era come pietrificato da quella visione.

    Senza distogliere lo sguardo dagli aironi, Leonardo si portò la mano all’interno del mantello cercando nella tasca un pezzo di carta e lo stecco di carbone da cui non si separava mai. Il vento faceva muovere il foglio, grande non più di una mano aperta. Francesco capì al volo il nipote e si inginocchiò per permettergli di appoggiare il ritaglio sulla sua spalla e disegnare.

    Leonardo, sempre senza staccare gli occhi dagli uccelli, schizzò la sagoma dell’airone con le ali aperte, una lunga curva continua spezzata nel punto in cui le ali si piegavano verso il basso, il collo appena accennato e il lungo becco aperto, poi il profilo chiuso dell’altro uccello, con le penne scure tracciate con forza dalla punta frenetica del legnetto bruciacchiato al punto giusto.

    «Leonardo, sono più veri degli uccelli stessi, ma come fai?» disse Francesco, prendendo in mano il foglio, incantato. «Tu hai un dono incredibile. È possibile che tuo padre non se ne accorga?»

    Nel frattempo Leonardo non era già più accanto a lui. Con passi felpati si muoveva verso la riva ghiacciata per vedere da vicino gli aironi. Lo zio intuì il pericolo, ma era troppo tardi: il ragazzo era già scivolato nel torrente rompendo la crosta gelata e scomparendo verso il fondo. Con un balzo Francesco fu anche lui nell’acqua che gli arrivava al petto. Non ebbe neppure il tempo di sentire freddo. Tuffò la testa sotto e afferrò il ragazzo, gli occhi sgranati per il terrore. Aiutandosi con una radice che sporgeva dal greto, Francesco si tirò su trascinandosi dietro il nipote. Cominciò a strofinargli forte il petto con le mani. «Parla, Leonardo, parla per l’amor di Dio!»

    «Sto bene, sto bene, ma nell’acqua era così scuro… ho visto una grotta.»

    Udite quelle parole, Francesco lo prese sulle spalle e cominciò a correre veloce verso casa, come se, invece del nipote, avesse avuto addosso solo il mantello di agnello.

    Aprì con un calcio la porta e si diresse senza fermarsi verso la camera del bambino, lo poggiò sul letto e cominciò a svestirlo urlando a Lisa di preparare la tinozza con l’acqua bollente.

    Un istante dopo Lucia e Antonio si precipitarono insieme nella stanza chiedendo cosa fosse successo. Poi Lucia, donna pratica che non perdeva la calma in nessuna circostanza, corse in cucina a preparare con Lisa la tinozza piena di acqua calda, preoccupata di non farla troppo bollente.

    Quando calò il buio, Leonardo era nel suo letto con accanto una tazza di brodo e il nonno che brontolava, incapace di riprendersi da quello spavento.

    «Leonardo, io non so come dobbiamo fare con te. La tua curiosità prima o poi ti ucciderà. Non fai che girare tra le forre e le grotte sempre in cerca non si sa di che.» Avvicinò al letto uno sgabello per sedersi e riprese con voce più dolce a parlare al nipote. «Due mesi fa siamo venuti a cercarti nella grotta del cinghiale dove ti eri perso, e non hai saputo dirci perché ti eri avventurato in quel buco. L’anno scorso sei caduto nel crepaccio del caprone perché dovevi cercare le uova di nibbio su una mortella nella roccia a picco sul vuoto. Io non so come faremo a salvarti la vita se continui così.»

    «Lascia stare il ragazzo, è arrivato Piero con Albiera, vieni a salutare» lo interruppe Lucia dalla soglia.

    La porta rimase aperta e Leonardo aspettò invano che il padre entrasse a salutarlo, ma ser Piero non entrò, neppure quella volta. Il bambino si assopì sognando gli aironi che lo prendevano e lo portavano in cielo a volare con loro. Vide dall’alto il piccolo villaggio, immaginò le cime delle montagne e poi Firenze, la cupola di Santa Maria del Fiore di cui tanto aveva sentito parlare, finché un sonno profondo lo avvinse.

    Fu svegliato il mattino seguente dal bisbiglio che proveniva dalla cucina dove lo zio Francesco faceva fatica a trattenere la rabbia mentre parlava con il fratello maggiore: «Perché non vuoi prenderlo con te? È un bambino straordinario, affettuoso e intelligente. Apprende in un baleno tutto quello che legge, ma qui ormai non c’è più niente per lui da imparare, se non i regesti dei notai del contado. A Firenze potrebbe studiare e intraprendere una carriera che ti farebbe di sicuro onore».

    «Francesco, non se ne parla neppure. Albiera, lo sai, non riesce ad avere figli e la presenza di Leonardo a casa non le farebbe certo bene.» La voce di ser Piero non era per nulla alterata, ma annoiata, quello sì, di dover ripetere ancora al fratello ciò che aveva già detto al padre e alla madre tutte le volte che era andato a visitarli. «È nervosa, non mangia, se vede per strada un bambino le spuntano le lacrime agli occhi. Portare a casa Leonardo significherebbe ucciderla.»

    Francesco si alzò e fece un giro intorno al tavolo per cercare di calmarsi. «E perché non ti decidi ad abbandonarla allora? Non vuole adottare tuo figlio che potrebbe finalmente essere legittimato e ricevere l’educazione che merita, non riesce a darti dei figli tuoi eppure tu non riesci a importi.»

    Ser Piero addentò una ciambella coperta di miele che Lucia aveva sfornato all’alba. I suoi parenti, reclusi in quel buco dimenticato da Dio, proprio non volevano capire come andava il mondo. Albiera apparteneva a una delle famiglie più potenti di Firenze, alleata con i Medici, e senza la benevolenza dei Medici non c’era fortuna in quella città. Cosimo, il patriarca di quella famiglia, aveva organizzato così bene il controllo sul governo cittadino che, pur lasciando apparentemente intatte le vecchie leggi, influenzava tutte le decisioni che le magistrature prendevano. Le sue ricchezze erano formidabili come le sue relazioni e il suo potere si estendeva ben oltre le mura di Firenze. Molti guardavano a lui come a uno degli arbitri della politica italiana e da tutte le corti arrivavano ambasciatori e consiglieri per sentire il suo parere.

    Albiera stava per introdurlo alla sua corte e il giorno dell’Epifania avrebbero presenziato insieme a un pranzo nel palazzo nuovo. Era alla vigilia di una svolta importante nella sua carriera, ma come far capire tutto questo a suo fratello? Sospirò e allungò di nuovo la mano verso le ciambelle. «Francesco, come devo spiegarti che Albiera non è solo mia moglie, ma la chiave per aprire le porte sbarrate di Firenze? Come puoi pensare che io l’abbandoni? E per chi poi? Per un bastardo nato da una contadina che ho sedotto in un momento di debolezza sotto un albero di pruno? Forse non hai capito, Francesco, quindi te lo ripeterò per l’ultima volta. Albiera appartiene a una delle migliori famiglie di Firenze ed è imparentata con i Medici. Non c’è fortuna a Firenze senza il loro aiuto.» Ser Piero si guardò intorno per cercare uno straccio dove pulirsi le mani sporche di miele. Poi riprese a parlare fissando dritto negli occhi il fratello. «Albiera mi ha introdotto alla loro corte, e presto lavorerò per i Medici. Il giorno dell’Epifania, Cosimo mi ha invitato addirittura nel palazzo di via Larga, tu non immagini cosa sia questo nuovo edificio, più bello di una reggia. Sto per sedermi a tavola con uno degli uomini più potenti d’Italia. Lo capisci? E tutto grazie ad Albiera!»

    «Una contadina per colpa tua è andata in sposa a un uomo violento e disgraziato che le ha rovinato la vita.» La voce di Francesco era un sibilo di collera, mentre incombeva sul fratello.

    «Via Francesco, come ti appassioni. Ma tu pensi che se io non avessi sedotto quella ragazza, quella Caterina, si chiamava così mi pare, lei avrebbe avuto una vita migliore? Tutte le contadine vivono come bestie e sposano uomini che le maltrattano. L’unica salvezza dalla brutalità della vita è il denaro e il potere e io oggi sto per avere entrambi. Non venirmi più a parlare di Leonardo. Del resto mi sembra che mamma e papà siano contenti di averlo in casa.»

    Francesco lasciò la stanza inseguito dalla risata del fratello: «Buon Natale, fratellino».

    Leonardo intanto era in piedi accanto alla finestra e aspettava di vedere la sagoma forte del padre allontanarsi verso la stalla.

    LA FESTA DEI MAGI

    Quando ser Piero e Albiera salirono i gradini del palazzo furono colpiti dal profumo forte di agrumi.

    Lungo lo scalone in pietra serena, appena costruito dall’architetto Michelozzo, pendevano festoni di alloro intrecciati a limoni e arance, che brillavano come fossero di cera. Tra le foglie verdi, nastri d’oro zecchino riflettevano la luce delle candele e tenevano appesi gruppi di palle, anch’esse d’oro, che richiamavano quelle dei bassorilievi in pietra che coronavano il fregio del cortile quadrato sorretto da colonne corinzie mai viste così belle a Firenze.

    Ser Piero, per l’occasione, vestiva un giubbone di damasco foderato di seta e attraversato da sottili fili d’oro lungo le maniche. Gli era costato una fortuna, ma non poteva presentarsi meno elegante alla corte del principe di Firenze. Albiera, invece, aveva incorniciato il viso pallido e affilato con una cuffia decorata con fili d’argento, a cui erano applicate perle grandi come nocciole. Il copricapo lasciava libera tra le spalle una lunga treccia castana che cominciava a ingrigire e, per dissimulare le ciocche bianche, aveva intrecciato ai capelli anche un nastro d’argento. Il vestito era una lunga tunica di velluto cremisi punteggiato da fiori di seta blu. Le maniche rosse e gonfie, arricchite da nastri d’oro, le davano l’aspetto di una regina ed erano quelle che suo padre le aveva fatto cucire per il matrimonio. Valevano quasi quanto una casa, ma per fortuna poteva applicarle su ogni abito.

    Arrivati in cima allo scalone, furono accolti da servitori che indossavano la livrea dei Medici, rossa e verde con palle d’oro sui corpetti. Li indirizzarono verso la cappella dove già altra gente si era accomodata.

    Cosimo era seduto su una piccola sedia con braccioli imbottiti e fingeva di non poter muovere la testa perché un pittore, Benozzo Gozzoli, stava dando gli ultimi ritocchi al suo ritratto sulla parete della cappella. Accanto a lui erano sedute due persone che, senza disturbare la sua posa, lo allietavano con le loro chiacchiere.

    Ser Piero e Albiera trattennero a fatica un gemito di meraviglia di fronte alla scena; il pittore aveva dipinto sulle pareti la cavalcata dei Magi, ritraendo la famiglia de’ Medici nelle vesti di re orientali e dei loro servitori, tutti abbigliati con stoffe talmente ricche che sarebbero bastate a comprare la riserva annuale di grano per una città grande quanto Firenze.

    Due giovani assistenti di Benozzo, intanto, stavano finendo di applicare le foglie d’oro sulle redini dei cavalli, rese leggermente in rilievo con della cera. Le foglie che stavano utilizzando erano più spesse di quelle che i battiloro fornivano agli artisti da applicare sul muro o sulle tavole dipinte; solitamente una foglia d’oro era così sottile da volare al primo soffio d’aria, ma quelle volute da Cosimo per il proprio palazzo erano belle solide, si maneggiavano con facilità e i giovani assistenti non avevano difficoltà ad appoggiarle sul bolo rosso, che avevano steso prima sul muro, per poi brunirle con la pietra d’agata che portavano appesa alla cintura.

    Ser Piero osservò la processione trionfale lungo le pareti e vi riconobbe non solo i familiari di Cosimo, ma anche i cittadini che il vecchio patriarca aveva voluto blandire. C’era perfino il giovane Lorenzo, il nipote più amato da Cosimo, che sembrava aver ereditato dal nonno la prudenza e l’intelligenza, oltre alla passione per l’arte.

    Nel frattempo Benozzo stava tratteggiando con tocchi di bianco di san Giovanni le luci sul naso di Cosimo; era riuscito a mantenere riconoscibile, nel suo dipinto, il profilo del vecchio, conferendogli però una gentilezza e una nobiltà maggiori, in modo che tutti, a Firenze, avrebbero potuto identificarlo e, al contempo, rimanere incantati dalla grandezza e dalla dignità dell’uomo.

    Cosimo, dal canto suo, era consapevole del miracolo che gli artisti e gli intellettuali erano in grado di realizzare per i loro committenti, per questo non si stancava di finanziarli e di richiamare a Firenze i migliori ingegni d’Italia. E quel giorno era ben deciso a sperimentare l’effetto di quella raffinata propaganda su due ospiti illustri che erano stati fatti accomodare proprio accanto a lui.

    Con uno spiccato senso del teatro, Cosimo si era fatto trovare in quella scena meticolosamente apparecchiata con la scusa che maestro Benozzo non poteva ritardare ancora il completamento dell’affresco, perché la malta umida si sarebbe asciugata e non sarebbe stata più abbastanza fresca per ricevere e fissare il colore.

    Ogni uomo di cultura avrebbe capito che quello era un imperativo inderogabile e, infatti, il cardinale Rodrigo Borgia alla sua destra e il generale dei francescani, Francesco della Rovere, alla sua sinistra, si erano mostrati felici di assecondare, prima del pasto, le necessità di un artista che stava fermando sul muro la meravigliosa celebrazione di un’ambizione politica smisurata quanto determinata. Entrambi erano consapevoli che il banchiere in quella sala era deciso a conquistare un regno per i suoi discendenti anche grazie al loro aiuto.

    Il fiuto di Cosimo, infallibile per la politica e per gli affari almeno quanto lo era per il talento artistico, gli aveva suggerito che il giovane spagnolo da poco diventato cardinale e il prestigioso teologo, capace di disputare e vincere i migliori sapienti d’Europa, avrebbero fatto certamente molta strada in Italia.

    Per questo, appena aveva saputo che i due illustri personaggi erano di passaggio a Firenze – il primo diretto a Bologna e il secondo a Perugia per presiedere il capitolo generale dei francescani – li aveva voluti invitare a pranzo per raccogliere informazioni fresche sulle cose di Roma.

    Ser Piero si avvicinò a Cosimo per salutarlo con un inchino, ma fu fulminato da uno sguardo del vecchio banchiere, che riteneva un’offesa, sotto il suo tetto, essere salutato prima del cardinale Borgia, che era il nipote del papa morto da poco ed era stato confermato dal nuovo, Pio II Piccolomini, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa. Fu dunque al cardinale che si inchinò ser Piero, cercando disperatamente di capire quale dovesse baciare dei molti anelli che l’uomo portava alle dita. Fu Rodrigo stesso ad aiutarlo, porgendogli la mano sinistra con il medio leggermente avanzato. Poi fu il turno di Albiera, che si sentì spogliata dagli occhi del cardinale, conosciuto per la sua lussuria incontenibile.

    Cosimo liquidò ser Piero e la moglie, che non si ricordava di avere invitati, e riprese la conversazione con il cardinale ostentando l’immobilità del modello. «Allora eccellenza reverendissima, come vanno le cose a Roma? Il buon Piccolomini saprà domare i baroni romani o dobbiamo temere per la sua incolumità? Ci siamo stupiti come tutti per la elezione di sua santità.»

    «Non dovete stupirvi, il buon Piccolomini è un convinto sostenitore delle tendenze conciliariste e si è detto disponibile a cambiare il papato togliendo potere al pontefice a favore dell’assemblea dei cardinali» rispose Borgia. «Questa riforma, come potete immaginare, è sostenuta a forza dalla gran parte dei cardinali che vogliono governare la Chiesa.»

    Fingendo di non dare troppa importanza alla questione che invece lo interessava moltissimo, Cosimo chiese al cardinale cosa ne pensasse lui di questo scontro tra i sostenitori dell’autorità assoluta del papa e i sostenitori dell’autorità del concistoro: la disputa che da un secolo almeno infiammava l’Europa.

    «Come cardinale dovrei essere favorevole al ridimensionamento del potere papale, ma come uomo esperto di governo credo che la volontà di un capo debba prevalere su tutti. Vedremo cosa farà sua santità e come lo accoglieranno i cardinali.»

    «E se Piccolomini non dovesse rispettare i patti sottoscritti in conclave?» insistette il banchiere.

    «Caro Cosimo, non devo certo essere io a insegnarvi come si elimina un capo inadeguato.»

    Francesco della Rovere si segnò la fronte guardando il nipote Giuliano, un ragazzo di sedici anni dall’aria determinata di un comandante di legione romana e grande esperto di arte antica, al punto da aver svelato a Cosimo, quella stessa mattina, l’identità di alcune statue romane comprate e collocate nel cortile e di cui il vecchio patriarca non conosceva l’effettivo valore né cosa rappresentassero. Giuliano si era inoltre offerto di guardare con Cosimo, quel pomeriggio, la collezione di pietre intagliate che il banchiere aveva raccolto nelle sue stanze.

    «Andiamo, Francesco, non ditemi che vi ho scandalizzato. Anche tra i francescani si è fatto uso di veleno e di pugnali. L’interesse generale prevale sulla volontà e sulla vita dei singoli» ribatté Rodrigo e fece cenno a un servitore di porgergli una delle coppe di cristallo colme di vino che reggeva su un vassoio. Poi con l’aria frivola di chi commenta la riuscita di una festa e non quella di un conclave, espresse in sintesi la sua verità: «Che volete, Cosimo, sapete come vanno queste cose. Milano e Napoli erano terrorizzate all’idea dell’elezione di un papa francese. Non solo perché avrebbe potuto riportare la sede papale ad Avignone, ma perché avrebbe potuto appoggiare le mire che la casa reale francese nutre su entrambe e, come sapete meglio di me, sull’Italia intera. I francesi sono insaziabili».

    Cosimo abbandonò la posa che aveva tenuto fino a quel momento. Conosceva da molto Rodrigo Borgia, da quando studiava a Bologna e si fermava spesso nelle sue case di Firenze, ma adesso era piacevolmente colpito dall’acume e dalla franchezza di quel riassunto. Lui stesso non avrebbe saputo fare meglio. Rodrigo è un uomo che merita attenzione, pensò. Si avvicinò quindi al giovane cardinale stando, però, ben attento a non sottrarre attenzione a Francesco della Rovere, che faceva mostra di obbedienza di fronte al porporato, ma anche di non amare particolarmente la sua leggerezza mondana.

    «Come avete fatto con il cardinale Colonna? Ci si aspettava la sua elezione» domandò.

    Rodrigo vuotò la coppa chiedendone subito un’altra. «Ci ha pensato il giovane re di Napoli Ferrante a convincerlo. Si è fatto promettere dal papa l’investitura per il regno e gli ha assicurato di aiutarlo nella riconquista di Siena. I Colonna sono già molto potenti e uno sbilanciamento della sede apostolica sarebbe apparso problematico.»

    «È stato il primo miracolo di sua santità convincere il Colonna a rinunziare all’elezione» intervenne a quel punto Francesco della Rovere, sfoggiando anche lui un tono cordiale per assecondare la leggerezza della conversazione. «Del resto Colonna lo ha convinto a firmare delle capitolazioni elettorali che gli lasciano ben poco potere. Tutte le decisioni importanti, non quelle teologiche naturalmente, quelle non interessano a nessuno, vero eccellenza?» Alzò il bicchiere nella direzione di Rodrigo e continuò: «Ma quelle temporali, quelle saranno tutte soggette al parere del collegio cardinalizio».

    Cosimo congiunse le mani e se le portò al mento con aria pensosa. «Sì certo, un papa debole politicamente e pure malaticcio garantisce per un certo tempo la stasi nei conflitti italiani, ma con i turchi come la mettiamo? Io credo che il papato continui a sottovalutare il pericolo dell’avanzata ottomana. Nei mesi scorsi hanno preso la Grecia e ora procedono verso la Serbia. Potremmo trovarceli in Italia da un momento all’altro, a marciare su Roma.»

    Nella cappella calò un silenzio tombale. Francesco della Rovere si segnò la fronte e subito tutti i presenti lo seguirono.

    Solo Rodrigo non lo fece, però portò la mano sull’elsa della spada toledana che aveva fatto fondere in Spagna. «I turchi, i turchi» ripeté, guardando l’affresco su cui Benozzo, attingendo il colore da tre piccole ciotole poggiate sull’impalcatura, continuava a dare leggeri colpi di pennello per sfumare il grosso naso di Cosimo. «I turchi si vincono con la spada» continuò il cardinale. «Sto cercando di convincere sua santità ad armare una Crociata e a spostare sulle frontiere dei Balcani l’ordine guerriero degli ungheresi, e, come avrete già intuito, sono qui per convincere voi, Cosimo, a finanziare questa Crociata. Sapete che senza il vostro aiuto non potremmo mai armare una flotta adeguata.»

    Cosimo lo fissò assentendo con il capo. «Basta ora parlare dei problemi del mondo. L’Epifania è la festa di casa Medici e abbiamo forse con impudenza tentato di approntare un banchetto degno di voi. Passiamo nella sala da pranzo, per favore. Benozzo mi sembra che sia arrivato a un buon punto, può continuare senza il suo modello.»

    Gli ospiti si alzarono e si avviarono dietro il vecchio che camminava a fatica, aiutato dal nipote Lorenzo che lo sosteneva con il braccio curvandosi leggermente.

    Nel piccolo corteo che si formò, Rodrigo, che indossava un giubbone fatto tagliare a Damasco, si trovò vicino al giovane Giuliano e allungò la mano sul fondoschiena del ragazzo stringendogli con violenza le natiche. «Allora Giuliano, stai studiando con i francescani sulle orme di tuo zio, vero?» gli sussurrò all’orecchio. «Ti hanno già fatto il servizio o mantieni ancora la tua virtù posteriore come deduco dalla forza con cui stringi le natiche?»

    Giuliano gli scostò la mano con violenza e lo fulminò con un’occhiata portando la mano destra sull’impugnatura del piccolo coltello che teneva alla cintola. «Chiunque ci provasse dovrebbe fare i conti con questo.» Poi, pensando di essersi spinto troppo in là, abbassò lo sguardo e aggiunse: «… eccellenza reverendissima».

    Cosimo, che non aveva perso né il gesto né le parole del cardinale, si girò verso il giovane Giuliano e gli sorrise. «Giuliano, non bere troppo vino, mi hai promesso di accompagnarmi a vedere i cammei e le corniole, diletto di un vecchio rimbambito. E vorrei che tu fossi lucido per erudirmi.»

    Senza alzare lo sguardo per non mostrare il rossore che gli era comparso sul viso glabro, Giuliano rispose che non beveva mai ai

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