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La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon
La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon
La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon
E-book592 pagine7 ore

La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon

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Info su questo ebook

Gabriel Allon, leggendaria spia e capace restauratore, sta per diventare il nuovo capo dell'intelligence israeliana, ma proprio alla vigilia della promozione un sanguinoso attentato dell'Isis nel cuore di Parigi richiede la sua presenza sul campo un'ultima volta: il governo francese è in difficoltà e ha chiesto il suo aiuto per eliminare il responsabile della strage prima che colpisca di nuovo.

Si tratta di un terrorista noto come il Saladino, così sfuggente che di lui non si conosce nemmeno la nazionalità. La sua rete di contatti è protetta da un sofisticato sistema di crittografia che gli permette di comunicare in assoluta segretezza, talmente impenetrabile da non lasciare ad Allon altra scelta che infiltrare un agente in quella che è senza dubbio l'organizzazione più pericolosa che il mondo abbia mai conosciuto. 

Natalie Mizrahi, medico brillante e donna bellissima, dovrà fingere di essere una cellula dormiente dell'Isis, una bomba a orologeria pronta a esplodere... una vedova nera assetata di sangue. La missione da portare a termine è delicata e pericolosissima, e la porterà dalle irrequiete banlieu parigine all'isola di Santorini e al mondo brutale del nuovo califfato, fino ad arrivare a Washington D.C., dove il Saladino sta organizzando un'apocalittica notte di terrore destinata a cambiare il corso della storia.

Thriller incalzante e di grande attualità, La vedova nera è un viaggio nel cuore della nuova oscurità che minaccia i nostri giorni.

“Daniel Silva con Gabriel Allon ha saputo anticipare i fin troppo reali attentati islamici di Parigi e Molenbeeck, regalandoci una nuova cavalcata a perdifiato nelle pieghe oscure dei conflitti umani.” La Stampa

LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2017
ISBN9788858963937
La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon
Autore

Daniel Silva

Pluripremiato autore regolarmente ai primi posti nella New York Times Bestsellers List, ha raggiunto il successo grazie alla fortunata serie che ha come protagonista Gabriel Allon: i suoi romanzi, tra cui La spia inglese, La vedova nera, La casa delle spie, L’altra donna, La ragazza nuova, L’Ordine, La violoncellista e Ritratto di donna sconosciuta pubblicati da HarperCollins, sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Vive in Florida con la moglie, la giornalista televisiva Jamie Gangel, e i due figli Lily e Nicholas.

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    Anteprima del libro

    La vedova nera - Daniel Silva

    Prefazione

    Mentre lavoravo a questo romanzo, il gruppo terroristico noto come Stato Islamico o ISIS compì gli attentati di Parigi e Bruxelles che causarono oltre 160 vittime innocenti. Per un breve periodo pensai di abbandonare il manoscritto, ma poi decisi di terminarlo seguendo la traccia originaria, come se quei tragici eventi non fossero ancora avvenuti nel mondo immaginario in cui vivono e operano i miei personaggi. Le analogie tra i veri attentati e quelli da me descritti, incluso il collegamento con il distretto di Molenbeek a Bruxelles, sono puramente casuali. Non provo il minimo orgoglio per averli previsti: vorrei solo che il sanguinoso terrorismo millennarista dello Stato Islamico fosse confinato esclusivamente tra le pagine di questo libro.

    PARTE PRIMA

    Rue des Rosiers

    1

    Le Marais, Parigi

    Tolosa si sarebbe rivelata la rovina di Hannah Weinberg. Quella sera telefonò ad Alain Lambert, un suo contatto al Ministero dell'Interno, e gli disse che era arrivato il momento di lanciare un segnale chiaro. Alain le promise una reazione immediata. «Useremo la massima fermezza» aggiunse. La fermezza è il paravento perfetto dei burocrati quando non intendono fare proprio nulla. La mattina dopo, il ministro in persona visitò il luogo dell'aggressione e rivolse un appello fumoso al dialogo e alla riconciliazione. Ai genitori delle tre vittime offrì tutto il suo cordoglio. «Ci impegneremo di più» assicurò prima di tornare a Parigi. «Dobbiamo impegnarci di più.»

    Avevano solo dodici anni, le vittime, e si trattava di una ragazzina e due ragazzini ebrei. All'inizio i media francesi evitarono di menzionarne le origini e sorvolarono sul fatto che i sei aggressori erano tutti arabi; dissero solo che provenivano da una banlieue a est del centro cittadino. La descrizione dei fatti fu così vaga da sfiorare la reticenza. Secondo la radio francese, era scoppiata una lite tra due gruppi di giovani fuori da una pâtisserie; c'erano stati tre feriti, di cui uno grave. La polizia stava indagando, ma finora non aveva effettuato alcun arresto.

    In realtà si era trattato di un vero e proprio agguato teso da una banda di ventenni a tre ragazzini ignari. Quel giorno gli aggressori si aggiravano nel centro di Tolosa in cerca di ebrei su cui sfogarsi e il fatto che le vittime fossero poco più che bambini non li aveva turbati affatto. I due ragazzi erano stati schiaffeggiati, coperti di sputi e poi presi a calci e a pugni; la ragazzina buttata a terra, immobilizzata e sfregiata con un coltello. Prima di fuggire, i sei avevano gridato ai passanti attoniti: «Khaybar, khaybar, ya yahud!». Nessuno ancora lo sapeva, ma quell'esclamazione in arabo era un richiamo alla conquista musulmana di un'oasi ebraica vicino alla città santa di Medina, avvenuta nel VII secolo. Il messaggio era chiaro: l'armata del Profeta, secondo i giovani fanatici, stava per colpire gli ebrei di Francia.

    Purtroppo l'aggressione di Tolosa non fu un fatto isolato. I precedenti non mancavano, visto che la Francia stava vivendo il peggior rigurgito di violenza antisemita dai tempi dell'Olocausto. Sinagoghe incendiate, cimiteri profanati, negozi saccheggiati e case vandalizzate o deturpate con scritte oscene e minacciose. Solo nell'ultimo anno si contavano più di quattromila episodi, tutti documentati con attenzione da Hannah e dal suo team del Centro Isaac Weinberg per lo studio dell'antisemitismo in Francia.

    Chiamato così in onore del nonno paterno di Hannah, il Centro era nato circa dieci anni prima e da subito era stato costretto a rigide misure di sicurezza. Con il tempo era diventato un'istituzione molto rispettata in Francia, e Hannah veniva considerata la cronista più autorevole della nuova ondata di antisemitismo che stava scuotendo il Paese. I suoi sostenitori la definivano una militante della Memoria, una donna che non si fermava davanti a nulla pur di costringere i politici di turno a proteggere e difendere la vessata minoranza ebraica. I suoi detrattori, invece, erano molto meno indulgenti e di conseguenza lei aveva smesso già da un po' di leggere certa stampa o di perdersi sui siti più faziosi di Internet.

    Il Centro Weinberg sorgeva in Rue des Rosiers, la strada principale del quartiere più marcatamente ebraico della metropoli. Hannah viveva poco lontano, in un appartamento di Rue Pavée. La targhetta sul citofono diceva MME BERTRAND, una delle poche precauzioni che Hannah aveva preso per tutelarsi. Abitava da sola, circondata dall'eredità di tre generazioni di Weinberg che comprendeva una piccola collezione di quadri e diverse centinaia di occhiali antichi, la sua passione segreta. A cinquantacinque anni non era sposata e non aveva figli, ma ogni tanto, quando gli impegni lo permettevano, si concedeva un amante. Alain Lambert era stato uno di loro, una piacevole distrazione in un periodo particolarmente teso.

    Alain la chiamò quella sera stessa, dopo la visita del ministro a Tolosa.

    «Complimenti per la fermezza» commentò lei acida. «Dovreste vergognarvi.»

    «Stiamo facendo il possibile.»

    «Ah sì? Be', non è abbastanza.»

    «Meglio non gettare benzina sul fuoco in questo momento.»

    «Suona pericolosamente simile a quello che si diceva nell'estate del '42.»

    «Hannah, ti stai facendo prendere dalla rabbia.»

    «Non mi lasciate altra scelta che scrivere un comunicato stampa.»

    «Allora ti consiglio di scegliere con cura le parole. Noi siamo gli unici che si frappongono tra voi e loro, e lo sai.»

    Hannah chiuse la telefonata, poi aprì il primo cassetto della scrivania e prese la chiave della porta in fondo al corridoio. C'erano giorni in cui solo la vista della sua cameretta riusciva a confortarla: era stata il suo rifugio di bambina ed era rimasta identica ad allora, con il letto a baldacchino dalle tendine in pizzo e le mensole piene di pupazzi e giocattoli. C'era la foto sbiadita di un attore americano che le faceva battere forte il cuore e appeso sopra la cassettiera in stile provenzale, quasi invisibile nella penombra, un quadro di Van Gogh, Marguerite Gachet alla specchiera. Hannah passò lentamente un dito sulle pennellate pensando all'uomo che si era occupato dell'unico restauro del dipinto. Come avrebbe reagito a quella situazione? No, si disse, meglio lasciar perdere.

    Si sdraiò sul suo vecchio letto e quasi senza accorgersene sprofondò in un sonno tranquillo e senza sogni. Quando si svegliò, aveva un piano.

    Per gran parte della settimana successiva, Hannah e la sua squadra lavorarono sodo in condizioni di massima allerta operativa. Contattarono i possibili interessati, siglarono accordi con strette di mano e con discrezione tastarono il polso ai benefattori. Due dei principali finanziatori del Centro si tirarono indietro, concordando con il Ministero dell'Interno che era meglio ne jeter pas de l'huile sur le feu, non gettare benzina sul fuoco. Hannah mise quel che mancava di tasca propria, attingendo dal patrimonio personale. Com'era prevedibile, anche il fatto che fosse benestante le veniva puntualmente rinfacciato dai suoi nemici.

    Infine, arrivò il momento di discutere come battezzare il progetto. Rachel Lévy, responsabile delle relazioni pubbliche del Centro, propendeva per un nome moderato che lasciasse trasparire qualcosa di più, ma Hannah pose il veto. Quando le sinagoghe bruciano, disse, la cautela è un lusso che non ci si può permettere. Voleva dare l'allarme, lanciare un vibrante appello affinché si cominciasse ad agire. Scribacchiò alcune parole su un pezzo di carta e lo mise sulla disordinata scrivania di Rachel.

    «Questo dovrebbe attirare l'attenzione.»

    Fino a quel momento nessun personaggio di rilievo aveva aderito all'iniziativa, tranne un polemico blogger americano che faceva il commentatore su una TV via cavo e che avrebbe accettato persino l'invito al proprio funerale. Ma poi Arthur Goldman, l'eminente esperto di antisemitismo di Cambridge, si dichiarò disposto a partire per Parigi – ovviamente a condizione che Hannah gli pagasse il soggiorno nella suite più lussuosa dell'Hôtel de Crillon. Reclutato Goldman, fu un gioco da ragazzi coinvolgere Maxwell Strauss di Yale, che non perdeva occasione per apparire sullo stesso palco del rivale. A quel punto gli altri relatori riempirono in fretta le caselle mancanti. Il direttore dello US Holocaust Memorial Museum garantì la propria presenza, lo stesso fecero due importanti storici della deportazione e un esperto dell'Olocausto francese dello Yad Vashem. Contattarono anche una scrittrice, più per la sua popolarità che per le competenze storiche, e un politico dell'estrema destra francese che raramente dimostrava un po' di comprensione per qualcuno. Infine invitarono diversi leader politici e religiosi di fede musulmana: rifiutarono tutti, e lo stesso fece il ministro degli Interni. Alain Lambert riferì personalmente la notizia ad Hannah.

    «Pensavi davvero che avrebbe accettato di partecipare a una conferenza dal tema così provocatorio?»

    «Mio Dio, che il cielo lo scampi dal fare qualcosa di provocatorio!»

    «E per la sicurezza? Come farete?»

    «Ci siamo sempre arrangiati da soli.»

    «Niente israeliani, Hannah. Darebbero una pessima immagine a tutta la faccenda.»

    Rachel Lévy rilasciò il comunicato stampa il giorno successivo. I media vennero invitati a seguire la conferenza e un certo numero di posti fu riservato al pubblico. Poche ore dopo, in una strada affollata del ventesimo arrondissement, un uomo armato d'accetta aggredì un religioso ebraico ferendolo gravemente. Prima di fuggire, l'assalitore agitò l'arma insanguinata gridando Khaybar, khaybar, ya-yahud! La polizia, riferirono i notiziari, stava indagando.

    Per ragioni di sicurezza, solo cinque frenetiche giornate separavano il comunicato stampa dall'inizio della conferenza, e Hannah attese fino all'ultimo per stendere il discorso di apertura. La sera prima dell'inaugurazione, sedeva da sola in biblioteca con la penna che scorreva furiosamente sui fogli color paglia del blocco degli appunti.

    Non esisteva luogo più appropriato della biblioteca di suo nonno per preparare quel discorso. Nato nel distretto di Lublino, in Polonia, era fuggito a Parigi nel 1936, quattro anni prima che la Wehrmacht di Hitler invadesse la Francia. Poi, la mattina del 16 luglio 1942 – il giorno diventato famoso come Jeudi Noir, il giovedì nero – gli agenti della polizia collaborazionista francese si erano presentati alla porta di Isaac Weinberg e della moglie mostrando loro le famigerate schede azzurre che significavano la deportazione per circa tredicimila ebrei stranieri. Ma prima dell'arresto, Isaac era riuscito a nascondere due cose: il suo unico figlio, un bambino di nome Marc, e il dipinto di Van Gogh.

    Contro ogni aspettativa, Marc Weinberg sopravvisse alla guerra e nel 1952 riuscì a riottenere l'appartamento in rue Pavée dalla famiglia francese che vi si era stabilita subito dopo il Jeudi Noir. Miracolosamente ritrovò il dipinto dove suo padre l'aveva nascosto, cioè sotto le assi del pavimento della biblioteca, coperto dalla scrivania a cui adesso sedeva Hannah.

    Per i coniugi Weinberg, invece, il destino era segnato. Tre settimane dopo il loro arresto vennero deportati ad Auschwitz e spediti nelle camere a gas. Erano solo due degli oltre 75.000 ebrei di Francia uccisi nei campi di concentramento della Germania nazista, una macchia indelebile nella storia nazionale tedesca. Ma poteva accadere di nuovo? Era arrivato il momento per i 475.000 ebrei francesi – la terza comunità del mondo – di fare i bagagli e andarsene? Era questo l'argomento scelto da Hannah per la conferenza, un tema molto attuale visto che solo nell'ultimo anno già in quindicimila avevano lasciato il Paese di Voltaire per rifugiarsi in Israele e ogni giorno altri facevano le valigie. Lei, però, non sarebbe mai partita. A prescindere dalle accuse dei loro nemici, si considerava prima francese e poi ebrea. L'idea di vivere in un luogo diverso dal quattordicesimo arrondissement la metteva a disagio, tuttavia si sentiva in dovere di avvertire gli altri ebrei francesi della tempesta che stava per scatenarsi. La minaccia non era ancora imminente, certo, ma quando un palazzo va a fuoco si cerca l'uscita più vicina. Questo fanno le persone sensate e questo scrisse nel discorso.

    Concluse la bozza poco dopo mezzanotte. La rilesse e la trovò troppo dura, e anche un po' troppo rabbiosa. Ammorbidì i passaggi più ruvidi e aggiunse diverse deprimenti statistiche per perorare la sua causa. Infine la digitò sul laptop, la stampò e verso le due riuscì ad andare a letto. La sveglia suonò alle sette; Hannah si preparò una tazza di café au lait e poi si infilò nella doccia, quindi sedette in accappatoio davanti alla specchiera, prendendosi un istante per incipriarsi il naso. In uno sfoggio di brutale onestà, suo padre le aveva detto che Dio si era mostrato molto generoso nel darle carattere e intelligenza e assai parsimonioso per quanto riguardava l'aspetto. Aveva capelli folti e ondulati ancora scuri ma con ciocche grigie alle quali permetteva di imperversare senza opporre resistenza. Il naso era aquilino e prominente, gli occhi grandi e marroni, e anche se non poteva definirlo grazioso, con quel viso nessuno l'aveva mai presa per stupida. Visto il periodo, il suo aspetto rappresentava un vantaggio.

    Nascose le borse sotto gli occhi con un po' di correttore e sistemò i capelli con più attenzione del solito, poi si vestì rapidamente – gonna di lana scura e maglioncino, calze nere e scarpe con il tacco basso – e scese di sotto. Attraversò il cortile e socchiuse il portone del palazzo, guardando fuori. Erano passate da poco le otto e i parigini, insieme ai turisti più mattinieri, camminavano spediti sul marciapiede sotto il cielo grigio di una giornata d'inizio primavera. Nessuno, a quanto pareva, sorvegliava il numero 24 aspettando che ne uscisse una donna ben oltre la cinquantina dall'aria colta e intelligente.

    Si mischiò alla folla e passò davanti alle boutique alquanto chic che costellavano la via, puntando verso Rue des Rosiers. Fin lì sembrava una normale strada di Parigi in un quartiere piuttosto benestante, ma poi arrivò alla pizzeria kosher e alle bancarelle di falafel, le cui insegne in ebraico rendevano evidente la reale composizione della zona. Per un attimo, immaginò il quartiere la mattina del Jeudi Noir, con i cittadini ebrei, inermi e disperati, che venivano costretti a salire sui camion, con una singola valigia come bagaglio. Alle finestre vide affacciarsi i parigini, alcuni ammutoliti e rossi di vergogna, altri che trattenevano a stento la gioia nel vedere spazzata via la vituperata minoranza ebraica. Mentre avanzava nella pallida luce del mattino, con i tacchi che battevano ritmicamente sulle pietre del pavé, Hannah si aggrappò a quell'immagine, l'immagine dei parigini che davano l'addio ai deportati.

    Il Centro Weinberg sorgeva alla fine della strada, in un palazzo di quattro piani che prima della guerra ospitava un giornale in lingua ebraica e una fabbrica di giacche. Decine di persone attendevano in coda davanti all'ingresso, dove due giovani robusti della security in abiti scuri perquisivano tutti coloro che volevano entrare. Hannah saltò la fila e salì le scale, diretta all'area VIP. Seduti ai lati opposti della caffetteria, Arthur Goldman e Max Strauss si lanciavano occhiate circospette mentre bevevano il loro café americain. La celebre scrittrice parlava fitto con uno storico della Memoria, mentre il direttore dello US Holocaust Museum chiacchierava con lo specialista dello Yad Vashem, un suo vecchio amico. Il blogger americano, invece, non sembrava interessato a nulla, solo ai croissant che accatastava sul piatto come se non toccasse cibo da giorni. «Non si preoccupi» gli disse Hannah con un sorriso, avvicinandosi. «È prevista anche una pausa pranzo.»

    Si intrattenne un po' con ciascuno dei relatori, poi si avviò lungo il corridoio verso il suo ufficio. Seduta alla scrivania, cominciò a rileggere il discorso d'apertura fino a quando Rachel Lévy non fece capolino dalla porta, indicando l'orologio che portava al polso.

    «C'è gente?» chiese Hannah.

    «Sì. Più di quanta possiamo gestirne.»

    «E i media?»

    «Sono tutti qui, inclusi il New York Times e la BBC.»

    In quel momento il cellulare di Hannah vibrò. Era un messaggio di Alain Lambert dal Ministero dell'Interno. Lei lo lesse e si accigliò.

    «Qualcosa di grave?» chiese Rachel.

    «No. È solo Alain che si comporta da Alain.»

    Posò il cellulare sulla scrivania, raccolse i documenti e uscì. Rachel aspettò che se ne fosse andata, poi entrò, prese il telefono di Hannah e indovinando subito la combinazione numerica di sblocco, non proprio fantasiosa, recuperò il messaggio di Alain e lesse le quattro parole che lo componevano.

    Stai attenta, mia cara.

    Il Centro Weinberg non era abbastanza grande per ospitare un vero auditorium, ma la sala all'ultimo piano era una delle più eleganti del Marais. Le grandi vetrate permettevano allo sguardo di spaziare sui tetti di Parigi fino alla Senna, mentre alle pareti erano appese delle gigantografie in bianco e nero che mostravano la vita del quartiere prima del Jeudi Noir. Tutte le persone nelle fotografie erano morte nell'Olocausto, incluso Isaac Weinberg, ritratto nella sua biblioteca tre mesi prima della tragedia. Passandoci davanti, Hannah sfiorò la foto con un dito come aveva sfiorato il quadro perduto di Van Gogh. Solo lei conosceva il collegamento segreto tra il dipinto, suo nonno e il Centro che portava il suo nome. Anzi, no, si corresse. Non era proprio così. Anche l'uomo che aveva restaurato il Van Gogh lo conosceva.

    Un lungo tavolo rettangolare spiccava sulla piattaforma rialzata davanti alle vetrate, rivolto verso le duecento sedie sistemate in file ordinate come un plotone di soldati durante una parata. Erano tutte occupate e almeno un altro centinaio di spettatori restava in piedi, appoggiato alle pareti. Hannah sedette al suo posto – si era offerta volontaria per separare fisicamente Goldman da Strauss – e ascoltò Rachel Lévy che chiedeva garbatamente ai presenti di spegnere i cellulari.

    Adesso toccava a lei. Accese il microfono e buttò un'occhiata alla prima riga del discorso di apertura. Il solo fatto che una simile conferenza abbia luogo, signore e signori, è di per sé una tragedia nazionale. Aprì la bocca per parlare... poi sentì i rumori che venivano dalla strada, secchi e ripetuti, un crepitare di petardi a cui si sovrapponevano delle grida in arabo.

    «Khaybar, khaybar, ya-yahud!»

    Si alzò, scese dal palco e guardò di sotto dalle vetrate alte fino al soffitto.

    «Dio mio» mormorò.

    Si voltò e gridò al pubblico di allontanarsi dalle finestre, ma il fragore di un'esplosione coprì la sua voce. All'improvviso la sala fu un inferno di schegge di vetro, sedie che volavano, pezzi d'intonaco, vestiti e membra umane. Hannah si rese conto di venire proiettata in avanti, ma non riusciva a capire se stava precipitando o se semplicemente volteggiava a mezz'aria. Per un attimo le parve di vedere Rachel che ruotava su se stessa come una ballerina. Poi, anche lei scomparve tra il fumo e le fiamme.

    Alla fine si ritrovò immobile, forse sulla schiena o magari sul fianco, forse sulla strada oppure in una tomba di mattoni e cemento. Il silenzio era opprimente, così come il fumo e la polvere. Cercò di pulirsi gli occhi, ma il braccio destro non rispondeva. Solo allora si accorse di non avere più un braccio destro... né la gamba destra. Girò la testa e vide un uomo inerte accanto a lei. «Professor Strauss?» mormorò.

    Ma l'uomo non rispose. Era morto. E presto, si disse, sarebbe morta anche lei.

    All'improvviso provò un freddo terribile. Lo attribuì alla perdita di sangue, ma forse era per via della folata di vento che per un attimo spazzò via il fumo nero. Confusamente ricordò di essere stesa a terra accanto all'uomo che doveva essere il professor Strauss, tra le rovine del Centro Weinberg di Rue des Rosiers. E in piedi davanti a loro, intenta a guardarli da dietro un mitra, c'era una figura vestita completamente di nero. Un passamontagna nascondeva il volto, ma gli occhi erano visibili. Occhi così belli da stupirla, due caleidoscopi color nocciola e rame.

    «Per favore» gemette, ma quegli occhi parvero accendersi di un fervore innaturale. Poi vi fu un lampo di luce e Hannah si ritrovò a percorrere un corridoio, con il braccio e la gamba miracolosamente al loro posto. Aprì la porta della sua cameretta e cercò a tastoni nel buio il quadro di Van Gogh. Il dipinto purtroppo non c'era più e, un attimo dopo, non c'era più neanche lei.

    2

    Rue de Grenelle, Parigi

    In seguito, le autorità francesi stabilirono che l'esplosione era stata provocata da una bomba di oltre cinquecento chili nascosta in un furgone Renault Trafic bianco. La detonazione, come attestavano le numerose telecamere di sorveglianza presenti nella via, era avvenuta alle dieci in punto, ovvero l'orario annunciato per l'inizio della conferenza al Centro Weinberg. I terroristi potevano essere accusati di tutto tranne che di scarsa puntualità.

    A un secondo esame, la potenza della bomba risultò eccessiva per il bersaglio che doveva colpire. Secondo gli esperti, duecento chili di esplosivo sarebbero stati sufficienti per radere al suolo il Centro e uccidere o ferire chiunque si trovasse all'interno. La bomba scosse gli edifici dell'intera Rue de Rosiers, mandando in frantumi tutte le finestre, e l'onda d'urto fu così violenta da far registrare il primo terremoto a Parigi da tempi immemorabili. Si propagò persino nel sottosuolo, spezzando le tubature dell'acqua e del gas e facendo deragliare un treno della metropolitana che stava per raggiungere la stazione di Hôtel de Ville. Più di duecento passeggeri rimasero feriti, molti in modo grave; la polizia pensò inizialmente a un secondo attentato e ordinò l'evacuazione di tutta la rete della metropolitana. La città precipitò nel caos e per i terroristi fu una vera manna.

    L'enorme esplosione scavò un cratere nella Rue de Rosiers profondo sette metri. Del Renault Trafic non rimase nulla tranne il portellone posteriore sinistro, che fu ritrovato curiosamente intatto nella Senna vicino a Notre-Dame, ovvero a quasi un chilometro di distanza. Le indagini stabilirono che il furgone era stato rubato a Vaulx-en-Velin, uno squallido sobborgo di Lione abitato in prevalenza da arabi; portato a Parigi alla vigilia dell'attentato – la polizia non riuscì mai a scoprire l'identità del conducente – era rimasto parcheggiato davanti a un negozio di cucine e sanitari in Boulevard St. Germain fino alle otto meno dieci della mattina dopo. Il giorno della conferenza fu prelevato da un uomo alto circa un metro e settantacinque con cappello da baseball, occhiali scuri e volto ben rasato, che guidò apparentemente senza meta nel centro di Parigi fino alle nove e venti. Solo allora si fermò alla Gare du Nord, dove caricò qualcuno. All'inizio, la polizia e i servizi segreti francesi diedero per scontato che si trattasse di un uomo, ma l'esame minuzioso delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza rivelò che era una donna.

    Quando il furgone raggiunse il Marais, entrambi i terroristi avevano il volto nascosto da un passamontagna. Poi uscirono dal veicolo armati di Kalashnikov, pistole e granate. I due uomini della security fuori dal Centro vennero uccisi all'istante, insieme a quattro persone che dovevano ancora entrare nell'edificio. Un passante cercò coraggiosamente d'intervenire e venne trucidato senza pietà; altri che in quel momento si trovavano nella stretta via fuggirono di corsa in cerca di un riparo.

    Il crepitare delle armi automatiche fuori dal Centro Weinberg cessò alle 9.59.30. I terroristi mascherati si allontanarono con calma lungo Rue de Rosiers, svoltarono in Rue Vieille-du-Temple ed entrarono in una panetteria molto frequentata dove otto clienti stavano aspettando in coda. Vennero tutti ammazzati, inclusa la commessa dietro il banco che implorò inutilmente pietà prima di venire finita a colpi di pistola.

    Fu in quel preciso istante, mentre la commessa si accasciava a terra, che esplose il furgone. La potenza della deflagrazione mandò in frantumi la vetrina della panetteria, ma l'edificio restò intatto. I due attentatori non fuggirono subito dal luogo della strage: prima tornarono al Centro e l'unica telecamera di sorveglianza rimasta in funzione li riprese mentre si aggiravano metodicamente tra le macerie giustiziando i feriti e i moribondi. Hannah Weinberg venne finita con due colpi di pistola nonostante non avesse alcuna possibilità di sopravvivere. La crudeltà degli assassini si rivelò pari solo alla loro competenza. La donna fu ripresa mentre estraeva con calma un caricatore inceppato dal Kalashnikov per poi inserirne un altro e fare fuoco contro un uomo gravemente ferito che fino a pochi istanti prima si trovava al quarto piano del palazzo.

    Per molte ore dopo l'attentato, l'intero quartiere del Marais venne transennato e reso inaccessibile a tutti tranne gli investigatori e le squadre di emergenza. Alla fine, nel tardo pomeriggio, quando l'ultimo incendio fu domato e la zona dichiarata libera da altre bombe, arrivò il presidente francese. Dopo una ricognizione nell'area devastata, dichiarò che quanto era avvenuto costituiva un nuovo Olocausto nel cuore di Parigi, un commento che non fu benaccolto nelle banlieue più turbolente. In una di queste, bande di giovani esultarono e scesero in strada a festeggiare, subito repressi dagli agenti antisommossa. Quasi tutti i giornali ignorarono l'episodio e un ufficiale di polizia lo definì una spiacevole distrazione dal compito urgente di trovare i terroristi.

    La fuga dal Marais, come il resto dell'operazione, era stata preparata con cura. Una volta esplosi gli ultimi colpi, avevano raggiunto una moto Peugeot Satelis parcheggiata in una strada vicina, avevano infilato i caschi integrali e si erano allontanati verso nord. L'uomo guidava e la donna lo cingeva alla vita; questo aveva permesso loro di passare inosservati tra le decine di macchine della polizia e ambulanze che convergevano sul Marais. Una telecamera per il controllo del traffico li aveva ripresi per l'ultima volta vicino al borgo di Villeron, nel dipartimento della Val d'Oise. A mezzogiorno, erano oggetto della più grande caccia all'uomo mai avvenuta nella storia francese.

    La polizia nazionale e la gendarmeria si occuparono dei blocchi stradali, controllarono i documenti, perlustrarono i magazzini abbandonati e fecero irruzione in tutti i possibili covi di cui erano a conoscenza. Ma dentro un vecchio e grazioso edificio in Rue de Grenelle, ottantaquattro tra uomini e donne erano impegnati in una ricerca di altro genere. Noti solo come Gruppo Alfa, facevano parte di un'unità segreta del DGSI, il servizio di sicurezza nazionale francese. Il Gruppo, come veniva chiamato in maniera informale, era stato creato sei anni prima in risposta a un attentato suicida fuori da un noto ristorante in Avenue des Champs-Élysées. Aveva parecchi infiltrati nelle sempre più numerose cellule jihadiste francesi, ed era autorizzato a ricorrere a misure attive per togliere dalla circolazione i potenziali terroristi islamici prima che fossero loro a prendere misure attive contro la Repubblica e i suoi cittadini. Si diceva che Paul Rousseau, il comandante del Gruppo Alfa, avesse visto più bombe di Osama Bin Laden, un commento che lui non si preoccupava di smentire, chiarendo però che nessuna delle sue bombe era mai esplosa. Per gli agenti del Gruppo, Rousseau era il leader indiscusso e la stella polare.

    Con le sue giacche di tweed, i capelli grigi e arruffati e l'onnipresente pipa, Rousseau aveva più l'aria di uno sbadato professore universitario che quella di un agente segreto, e non era un caso. Aveva cominciato la carriera all'università e nei momenti più difficili desiderava sempre ritornarci. Rispettato studioso della letteratura francese dell'Ottocento, era docente alla Sorbona quando un amico che faceva parte dei servizi segreti gli chiese di ricoprire un incarico importante per il DST, la direzione di sorveglianza del territorio. Era il 1983 e il Paese stava fronteggiando un'ondata di bombe e omicidi per mano del gruppo di estrema sinistra Action Directe. Rousseau offrì il suo contributo nel dipartimento incaricato di smantellare il gruppo e dopo una serie di brillanti operazioni, riuscì a mettere i terroristi in ginocchio.

    Restò con il DST, impegnato a sventare i successivi attentati organizzati dapprima da altri gruppi di estrema sinistra e poi da cellule di terroristi mediorientali, fino al 2004, quando l'adorata moglie Colette morì di leucemia dopo una lunga e penosa battaglia. Distrutto dal dolore, si ritirò nella sua piccola villa nel Luberon e cominciò a stendere una biografia di Proust in più volumi. Poi, però, arrivò l'attentato agli Champs-Élysées. Solo allora acconsentì a posare la penna e a tornare in prima linea, ma alle sue condizioni. Non gli interessava intercettare le telefonate dei sospetti terroristi, pedinarli notte e giorno e sorbirsi i loro deliranti proclami su Internet: questa volta sarebbe andato all'attacco. Alla fine i superiori accettarono e lo stesso fece il ministro dell'Interno. Così nacque il Gruppo Alfa. Nei sei anni dalla sua fondazione aveva sventato più di una decina di attentati sul suolo francese e proprio per questo Rousseau vedeva la strage al Centro Weinberg non come un semplice buco nell'intelligence nazionale, ma come un affronto quasi personale. Quello stesso pomeriggio, con Parigi nel caos, prese il telefono e diede le proprie dimissioni al capo del DGSI, che le respinse. «Per rimediare, però» chiarì, «deve trovare il mostro responsabile di questa carneficina e portarmi la sua testa su un piatto d'argento.»

    Rousseau decise di prendere quell'ordine in senso figurato, perché non aveva alcuna intenzione di emulare le belve che stava combattendo. Eppure, anche così, lui e la sua unità si dedicarono al compito con una abnegazione che eguagliava il fanatismo religioso dei terroristi.

    Uno dei punti forti del Gruppo Alfa era il fattore umano, perciò, per avviare le indagini, si rivolsero proprio alla loro rete d'informatori. Nei café, nelle stazioni ferroviarie, nei vicoli più nascosti dell'intera Francia, gli agenti si incontrarono con estrema cautela e discrezione con i propri infiltrati: predicatori, reclutatori, i faccendieri e gli intrallazzatori, moderati dalle buone intenzioni e anime perse dallo sguardo tormentato che avevano trovato un rifugio nella Ummah dell'Islam radicale. Qualcuno faceva la spia per una questione di coscienza, altri per soldi e altri ancora perché Rousseau li teneva in pugno; eppure nessuno sapeva che l'attentato di Rue de Rosiers era nell'aria, neppure quelli sempre in cerca di soldi, che riferivano prontamente al Gruppo ogni minima informazione che raccoglievano. E naturalmente nessuno aveva idea di chi fossero gli attentatori. Forse si trattava di terroristi autodidatti, lupi solitari, seguaci di una jihad senza leader così astuti da preparare una bomba da cinquecento chili sotto il naso dei servizi segreti francesi per poi colpire senza pietà il loro obiettivo. Possibile, concluse Rousseau, ma molto improbabile. Da qualche parte doveva esserci una mente che aveva concepito il piano, reclutato gli effettivi e condotto l'operazione fino alla fase finale. Ed era la testa di quel genio del terrore che Paul Rousseau intendeva portare ai suoi superiori.

    E così, mentre tutti gli apparati della sicurezza nazionale cercavano gli attentatori al Centro Weinberg, gli occhi di Rousseau scrutavano con attenzione sponde più lontane. Come ogni capitano che si rispetti, restava sul ponte del suo vascello nei momenti più difficili, un vascello che in questo caso era il suo ufficio al quinto piano. Vi regnava un disordine tipicamente accademico, oltre al pungente aroma della pipa che Rousseau continuava imperterrito a fumare nonostante le leggi e le circolari che vietavano il fumo negli uffici pubblici. Dalle finestre con i vetri antiproiettile, imposti dai suoi superiori e non richiesti da lui, vedeva l'incrocio tra Rue de Grenelle e la tranquilla Rue Amélie. Il palazzo non aveva un ingresso sulla strada, ma dava su un piccolo cortile interno che fungeva da parcheggio e a cui si accedeva da un cancello nero. Una targa d'ottone lo dichiarava sede della Società internazionale per lo studio della letteratura francese, un omaggio alla sua vera passione; per rafforzare la copertura, il Gruppo pubblicava una rivista trimestrale che Rousseau insisteva per curare di persona. All'ultima verifica si contavano dodici abbonati, tutti sottoposti a controlli scrupolosi.

    Una volta entrati nel palazzo, tuttavia, ogni finzione cadeva. Il personale di supporto tecnico occupava il seminterrato, quello di sorveglianza il pianterreno. Il secondo piano ospitava il poderoso archivio – Rousseau continuava a preferire i fascicoli cartacei a quelli digitali – mentre il terzo e il quarto erano riservati agli agenti. La maggior parte andava e veniva attraverso il cancello su Rue de Grenelle, sia a piedi che sulle auto messe a disposizione dal Ministero, altri invece entravano da un passaggio che collegava la sede del Gruppo Alfa al negozietto di antichità della porta accanto; il proprietario era un vecchio francese che aveva fatto parte dei servizi segreti durante la guerra d'Algeria e solo Rousseau aveva ottenuto il permesso di leggere l'impressionante fascicolo che lo riguardava.

    Un ignaro visitatore che fosse arrivato per caso al quinto piano l'avrebbe scambiato per la sede di una banca svizzera, con le sue luci basse e l'atmosfera grave e silenziosa, fatta eccezione per le note di Chopin che ogni tanto venivano dall'ufficio di Rousseau. La sua paziente segretaria, l'infaticabile Madame Treville, occupava l'asettica scrivania in anticamera e dalla parte opposta dello stretto corridoio c'era l'ufficio del suo vice, Christian Bouchard. L'uomo era tutto ciò che Rousseau si rammaricava di non essere: giovane, atletico, elegante e fin troppo attraente per poter passare inosservato. Ma soprattutto, Bouchard era ambizioso: il capo del DGSI l'aveva affiancato a Rousseau e in molti davano per scontato che un giorno avrebbe preso il suo posto alla guida del Gruppo. Paul trovava ben poco da ridire sul ragazzo, perché nonostante qualche evidente carenza, Bouchard era in gamba sul lavoro. E anche spietato quando serviva. Ogni volta che c'era da sbrigare del lavoro sporco, era lui a occuparsi dell'aspetto burocratico.

    Tre giorni dopo la strage del Centro Weinberg, con i terroristi spariti nel nulla, venne convocata una riunione dei responsabili di tutti i dipartimenti che facevano capo al Ministero dell'Interno. Rousseau odiava quelle riunioni – si trasformavano invariabilmente in dispute nelle quali ogni parte politica tirava acqua al proprio mulino – perciò mandò Bouchard. Poco prima delle otto di sera, il suo vice rientrò in Rue de Grenelle, bussò all'ufficio di Rousseau e quindi posò in silenzio due foto sulla sua scrivania. Mostravano una donna dalla pelle olivastra di circa venticinque anni, con il volto ovale e occhi come due caleidoscopi color rame e nocciola. Nella prima foto, i capelli lunghi fino alle spalle erano pettinati all'indietro, scoprendo la fronte perfetta; nella seconda, la testa era nascosta da un hijab di seta nera.

    «La chiamano la vedova nera» riferì Bouchard.

    «Interessante» commentò lui, cupo. Prese la seconda foto, quella in cui la ragazza portava il velo islamico, e studiò quegli occhi così insoliti. «Qual è il suo vero nome?»

    «Safia Bourihane.»

    «Algerina?»

    «Sì, ma soprattutto di Aulnay-sur-Bois.»

    Rousseau annuì lentamente. Era una delle banlieue più violente di Francia, a nord di Parigi, un sobborgo di case popolari ad affitto calmierato con un tasso di criminalità così alto da spingere anche la polizia a girare al largo. Persino gli agenti del Gruppo Alfa incontravano gli informatori che provenivano da lì in zone più sicure.

    «Ha ventinove anni ed è nata in Francia» riprese Bouchard. «Tuttavia si è sempre definita prima musulmana e poi francese.»

    «Chi l'ha scovata?»

    «Lucien.»

    Lucien Jacquard era a capo della divisione antiterrorismo del DGSI. Formalmente il Gruppo Alfa era sotto il suo comando, ma nella pratica Rousseau rispondeva direttamente al superiore di Jacquard. Per evitare attriti e tensioni, informava Lucien degli sviluppi più importanti di ogni indagine, ma teneva gelosamente segreti sia i nomi degli informatori che i metodi usati dagli agenti. Il Gruppo Alfa era essenzialmente una squadra nella squadra, un team di altissimo livello che Lucien Jacquard provava invano a mantenere sotto il suo controllo.

    «Quando?» domandò, continuando a scrutare gli occhi della donna.

    «È entrata nel suo radar tre anni fa.»

    «Come mai?»

    «Per il suo ragazzo.»

    Bouchard posò un'altra foto sulla scrivania: un uomo sulla trentina con i capelli scuri tagliati corti e la folta barba dei musulmani integralisti.

    «Algerino?»

    «No, tunisino. Era lui quello sotto controllo. Esperto di elettronica e computer, ha combattuto in Yemen e in Iraq prima di finire in Siria.»

    «Al Qaeda?»

    «No» rispose Bouchard. «ISIS.»

    Rousseau alzò bruscamente la testa. «Dov'è adesso?»

    «Immagino nel paradiso dei fedeli.»

    «Che cosa gli è successo?»

    «Ucciso in un bombardamento della coalizione.»

    «E la ragazza?»

    «È stata in Siria l'anno scorso.»

    «Per quanto?»

    «Almeno sei mesi.»

    «Con che ruolo? Ha combattuto?»

    «Non lo sappiamo, ma ovviamente si è addestrata nei loro campi.»

    «Cos'è successo quando è tornata a Parigi?»

    «Lucien l'ha messa sotto controllo, ma poi...» Bouchard si strinse nelle spalle.

    «L'ha lasciata perdere» indovinò Rousseau.

    Il suo vice annuì.

    «Perché?»

    «Le solite ragioni: poche risorse, troppi fanatici da controllare...»

    «Questa ragazza era una bomba a orologeria.»

    «Lucien aveva cominciato a dubitarne. Apparentemente, una volta tornata in Francia, aveva ripudiato l'estremismo. Non frequentava più gente sospetta e aveva persino smesso di portare il velo.»

    «Cioè proprio quello che le aveva ordinato chiunque abbia organizzato la strage al Centro Weinberg. È entrata chiaramente a far parte di una rete molto sofisticata.»

    «L'ha capito anche Lucien, e ha già avvertito il ministro che potrebbero colpire ancora.»

    «E il ministro come ha reagito?»

    «Gli ha ordinato di passare a noi i fascicoli che la riguardano.»

    Rousseau si concesse un sorriso alle spalle del rivale. «Li voglio tutti, Christian. Soprattutto i rapporti degli agenti che la sorvegliavano dopo il ritorno dalla Siria.»

    «Lucien ha promesso di mandarceli domattina, appena arriva in ufficio.»

    «Molto gentile da parte sua» commentò Rousseau, tornando a guardare la foto della veuve noire. «Secondo te dove si trova adesso?»

    «Così a naso, direi che è già tornata in Siria con il suo complice.»

    «Lasciandoci qui a chiederci perché non si siano sacrificati per la causa» borbottò Rousseau, raccogliendo le tre foto e restituendole al suo vice. «Altre novità?»

    «Un interessante sviluppo che riguarda Hannah Weinberg. Sembra che la sua collezione di quadri comprenda un dipinto perduto di Van Gogh.»

    «Davvero?»

    «Prova a indovinare a chi lo ha lasciato.»

    L'espressione di Rousseau chiarì subito che non era in vena d'indovinelli, per cui Bouchard glielo disse.

    «Credevo fosse morto.»

    «A quanto pare no.»

    «E perché non ha partecipato ai funerali?»

    «Chi dice che non ha partecipato?»

    «Gli abbiamo detto del dipinto?»

    «Il ministro preferirebbe che restasse in Francia.»

    «Quindi la risposta è no?»

    Bouchard restò in silenzio.

    «Qualcuno dovrebbe ricordare al ministro che tra le vittime del Centro Weinberg c'erano quattro cittadini israeliani.»

    «E questo cosa significa?»

    «Solo che sentiremo presto parlare di lui.»

    Bouchard se ne andò, lasciandolo solo. Lui abbassò la luce della lampada da tavolo, si girò verso lo stereo sulla libreria e premette il tasto Play. Le note d'apertura del Concerto per pianoforte n. 1 in mi minore di Chopin ruppero il silenzio. Fuori, il traffico avanzava lentamente in Rue de Grenelle e in lontananza, ben distinguibile a est oltre gli argini della Senna, svettava la torre Eiffel con tutte le sue luci. Ma Rousseau non vedeva nulla di tutto questo; nei suoi pensieri, un giovane uomo attraversava in fretta il cortile con la pistola in pugno. Era una leggenda, un maestro dell'inganno e un giustiziere che combatteva i terroristi persino da più tempo di lui. Sarebbe stato un onore averlo accanto piuttosto che contro. Presto, si disse. Presto...

    3

    Beirut

    Paul Rousseau non lo sapeva ancora, ma la catena di eventi che avrebbe portato a quell'unione operativa si era già messa in moto. Poche ore dopo, mentre lui tornava a piedi al suo piccolo, triste appartamento da scapolo in Rue Saint Jacques, una potente berlina tedesca nera procedeva sulla Corniche, il lungomare di Beirut. L'uomo sul sedile posteriore era alto e magro, con la carnagione così bianca da sembrare esangue e gli occhi azzurro ghiaccio. La sua espressione appariva profondamente annoiata, ma le dita della mano destra che tamburellavano senza sosta sul bracciolo tradivano il suo vero stato d'animo. Indossava un paio di jeans, un pullover di lana scura e un giubbotto di pelle. Infilata nella cintura dei pantaloni, c'era una pistola belga da 9 mm che aveva ricevuto da uno dei suoi contatti all'aeroporto. Le armi non scarseggiavano mai in Libano, di qualunque calibro. Nella tasca interna del giubbotto aveva un portafoglio pieno di contanti, insieme a uno stagionato passaporto canadese intestato a David Rostov. Come quasi tutto ciò che lo riguardava, anche il passaporto era falso. In realtà si chiamava Mikhail Abramov e lavorava per i servizi segreti dello Stato d'Israele. Il nome del suo dipartimento era deliberatamente lungo e fuorviante, tanto che lui, come molti altri, si limitava a chiamarlo l'Agenzia.

    Puntò lo sguardo sullo specchietto retrovisore e attese che gli occhi dell'autista incontrassero i suoi. Si chiamava Sami Haddad ed era un maronita, ex membro delle milizie cristiane libanesi e da tempo arruolato nell'Agenzia. Aveva lo sguardo compassionevole di un prete e le mani gonfie del picchiatore. Era abbastanza vecchio da ricordare i tempi in cui Beirut veniva definita la Parigi del Medio Oriente, e quelli molto più drammatici in cui combatteva nella guerra civile che aveva ridotto il Paese in macerie. Non c'era nulla che Sami non conoscesse del Libano e dei suoi letali intrighi politici, e nulla che non riuscisse a procurare in fretta e furia se le circostanze lo imponevano: armi, imbarcazioni, macchine, droghe, ragazze. Una volta era riuscito a scovare un leone di montagna in

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