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Il viaggio che mi ha cambiato la vita (eLit): eLit
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E-book308 pagine4 ore

Il viaggio che mi ha cambiato la vita (eLit): eLit

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Info su questo ebook

La diciassettenne Aubree ha sempre idolatrato la sua avventurosa e perfetta sorella maggiore, anche se è sempre stata più che contenta di seguire le sue peripezie per il mondo dalla confortevole casetta dove vive insieme ai propri genitori adoranti. Così, quando Elizabeth si mette "un tantino nei guai", per la prima volta in vita sua per coprire Aubree per giunta e ha bisogno davvero dell'aiuto dell'impacciata sorellina, Bree ne è lusingata, ma rimane irremovibile. Non potrebbe mai, in nessun modo, riuscire a fare quello che le chiede Elizabeth: impersonare la sorella, uscita fresca fresca dal college, per tutta l'estate, così che possa guadagnarsi la raccomandazione che le serve per aggiudicarsi il lavoro dei sogni. No, no, no! Non accadrà mai.
SOPRATTUTTO dal momento che il lavoretto estivo di Elizabeth consiste nel fare da guida per un tour in pullman.
Un tour in pullman attraverso l'Europa.
Un tour in pullman attraverso l'Europa per anziani.
Tutto ciò, ovviamente, molto prima di sapere del figlio super-carino (e NON anziano) dell'organizzatrice.
Bree sarebbe pazza ad accettare. O no?
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2017
ISBN9788858979631
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    Anteprima del libro

    Il viaggio che mi ha cambiato la vita (eLit) - Jen Malone

    1

    Sono incastrata nello sgabuzzino, fra quarantasette rotoli di carta igienica e una confezione industriale di cereali alla crusca e uvetta. Ah, e ho una ciocca di capelli impigliata senza speranza nella giuntura di uno scaffale di metallo.

    Come avrò fatto?

    Volevo solo prendere un rotolo di carta da cucina per il momento inevitabile in cui la partita di birrapong sarebbe degenerata, e invece guarda che disastro.

    La prima regola dei film dell'orrore, o del Club della gente come me a cui capita di vivere scene da film dell'orrore, è questa: la luce va sempre, sempre accesa. Mai dare per scontato che sarete in grado di destreggiarvi senza problemi fra gli ultimi acquisti di vostra madre, solo perché siete già state nel vostro sgabuzzino undicianta miliardi di volte negli ultimi diciassette anni.

    Adesso mi ritrovo un bernoccolo che verrà benissimo in tutte le foto del diploma, e c'è la possibilità che i miei capelli subiscano gravi danni, cosa che mi merito, come direbbe mia madre, per averli voluti tenere lunghi fino ai gomiti. Solo che non è lei che ha dovuto sopportare la seconda media, quando Brady Masterson ha detto che il mio caschetto gli ricordava Edna degli Incredibili e ha trascinato tutta la classe ad affibbiarmi quel soprannome. Ci ho messo cinque anni a farmi crescere i capelli per buttarmi alle spalle quei momenti, e sono certa che cercando attentamente nell'annuario scolastico di quest'anno ci troverei ancora uno o due accenni a quella storia.

    La seconda regola dei film dell'orrore, o del Club della gente come me a cui capita di vivere scene da film dell'orrore, è la seguente: mai dire Torno subito. Quelli che lo dicono non arrivano MAI ai titoli di coda tutti interi. Ed è proprio la frase che io ho detto a Madison prima di scappare alla ricerca della carta da cucina.

    Stendo il braccio verso la maniglia, ma ogni volta che mi allontano dagli scaffali sento una fitta al cuoio capelluto. Non va bene per niente. Se riuscissi ad arrivare all'interruttore e ad accendere la luce, forse potrei sbrogliare la stupida ciocca da sola, ma non ho avuto fortuna neanche in questo. Ormai è così ingarbugliata che temo che tutti i miei sforzi alla cieca stiano peggiorando la situazione di almeno dieci volte.

    Potrei urlare, ma la mia festa segreta pre-diploma (segreta per mamma e papà, diciamo, non certo per tutti i miei compagni di classe), che avrebbe dovuto essere una serata in piscina con sei amici, qualche torcia e un Margarita, e invece è diventata un baccanale scatenato che ha riunito metà dei miei coetanei nel mio soggiorno, è al culmine. Già mi considerano... diciamo non sempre brava a mantenere l'autocontrollo, non c'è bisogno di fornire a tutta la classe un altro simpatico aneddoto da rivangare quando ci ritroveremo fra dieci anni.

    Prima o poi qualcuno dovrà venire a cercarmi, no? Aguzzo le orecchie e sento delle voci che si avvicinano. Grazie a Dio!

    «Hai visto quella figa spaziale con la maglietta femminazista?» Maledizione. È il maniaco della classe, Matt Grafty-Hamm. Preferirei morire d'inedia qui dentro piuttosto che essere salvata da Matt il Palpeggiatore. Soffoco il mio grido di aiuto.

    «Il femminismo è il concetto radicale che le donne sono persone» cita una voce sarcastica. «Sì, ma hai visto che tette? Amico, quella tipa è favolosa.» Sembra Brad Worthy, che vale ancora meno di Matt. Non c'è proprio da stupirsi che io sia ancora single.

    «Cazzo se lo è. Credo che sia la sorella di Aubrey Sadler.» All'improvviso sono tutta orecchi. Mia sorella è in casa? Doveva tornare dall'università solo fra quattro giorni.

    Matt conferma la sua totale mancanza di classe commentando: «Culo stupendo, se riesci a tirare fuori il palo che ci ha infilato. Il mio insegnante di inglese l'anno scorso continuava a distribuire i suoi compiti in classe come esempio, anche se la tipa si è diplomata secoli fa».

    «Amico, ma è favolosa e in più va all'università. Pensi che avrei qualche possibilità con lei?»

    Che schifo! Mi viene da vomitare mentre sento le loro voci che si allontanano. Comunque non mi sorprende che i compiti di Elizabeth siano ancora in circolazione come esempi di assoluta perfezione. Assoluta perfezione è la definizione giusta per mia sorella. Stiamo parlando di una ragazza che in terza elementare ha costretto l'intera famiglia allargata a riempire un questionario di valutazione sulla sua esibizione al pianoforte, per aiutarla a identificare le aree di miglioramento.

    Okay, a questo punto sono in una situazione quasi pietosa. Sto preparandomi a gridare per chiedere aiuto (anche se significa rischiare i tentativi di palpeggiamento di Matt) quando un lampo di luce mi acceca.

    «Aubree? Bree, sei lì dentro?»

    Mia sorella.

    «Ehi.» Batto le palpebre un milione di volte, cercando di riabituarmi alla luce. «Che cosa ci fai a casa?»

    Elizabeth si chiude la porta alle spalle, imprigionandoci nello stanzino.

    «Il mio ultimo esame è stato cancellato. Sono ufficialmente laureata. Ho appena incrociato Madison, ti sta cercando dappertutto. Sta andando fuori di testa. Incidentalmente, dovresti farlo anche tu. Mamma e papà saranno furiosi quando scopriranno tutto.»

    So che i miei amici a questo punto avranno bevuto un po', però francamente che cosa ci voleva ad aprire qualche porta e dare un'occhiata all'interno? Elizabeth non ha fatto fatica a trovarmi. È anche vero che lei è Elizabeth. E mamma e papà non dovranno mai sapere di questa festa. Mai e poi mai. Punto.

    «Stai cercando di sfuggire a quel tipo con la scritta Mettici del bacon sul cappello? In questo caso hai il mio permesso» dice lei con un bisbiglio teatrale, allungando una mano dietro di me per prendere una confezione da venti di gel disinfettante. Poi apre una bottiglietta e se ne spreme un po' sul palmo, prima di offrirlo anche a me.

    «Già, non mi sto nascondendo. Sono, come dire... bloccata.» Indico i miei capelli ed Elizabeth mi squadra in modo buffo, poi trattiene il fiato. Va detto a suo merito che non scoppia a ridere, anche se fa uno sforzo visibile per trattenersi.

    «Fai pure» gemo io. Con il mio permesso, lei lascia partire le risate. Riesco a fare un ultimo sospiro di autocommiserazione, e poi la imito. Perfino io capisco che sono irrecuperabile.

    Devo dire, poi, che non è così male ridere insieme a Elizabeth. Quattro anni di differenza non si sentivano poi tanto quando eravamo più piccole, buttate sul sedile di dietro della macchina e al tavolo dei bambini alle cene del Ringraziamento, ma hanno cominciato a diventare ingombranti quando lei se ne è andata all'università. Durante le vacanze non stava mai a casa, e d'estate faceva sempre qualche stage vicino alla sua università, fuori Chicago. Da quando ha preso un appartamento là, non è praticamente rimasta a casa per più di ventiquattr'ore. I legami stretti a sei e dieci anni spezzando insieme l'osso a forcella del tacchino mentre si esprime un desiderio non possono durare all'infinito.

    Non è che non ci piacciamo, più che altro non ci conosciamo. Senza contare che la luce abbagliante della sua perfezione proietta dietro di lei una lunghissima ombra, ed è molto difficile esser capaci di uscirne.

    Ridere è una bella cosa. È un inizio.

    Quando riusciamo a ricomporci, Elizabeth scivola fuori per andare a cercare Madison e una pinzetta. Torna con entrambe, e io mi devo sorbire le loro battute mentre Elizabeth mi libera con attenzione i capelli. Completata l'operazione, materializza una spazzola dalla sua borsetta, perché essendo Elizabeth ne ha sempre una a portata di mano per mantenere in ogni momento la sua favolosità.

    Poi mi mette le mani sulle spalle. «Tutto sistemato» mi dice.

    «Mia salvatrice!» Mi premo le mani sul cuore e fingo di svenire ai suoi piedi. Madison fa un grugnito.

    «E vedi di non dimenticarlo!» dice Elizabeth. «Okay, adesso che ne dite di disperdere la folla là fuori? Avevo in programma di passare una serata tranquilla in veranda. Sono nel bel mezzo di una fantastica biografia di Eleanor Roosevelt. Sul serio, dovresti leggerla. Vuoi una mano col tizio del bacon?»

    Sì, vorrei davvero una mano. Il tizio del bacon e tutti gli altri hanno rovinato anche il mio programma per la serata, però allo stesso tempo mi dà un po' fastidio che Elizabeth abbia pensato di potersi presentare all'improvviso e prendersi la casa. E se l'avessi voluta io questa festa? E se l'avessi progettata e organizzata di nascosto, e fossi strafelice di salutare il liceo con il botto? Lei non può comandarmi a bacchetta.

    «No, mi fa piacere averli qui. Vado a prendermi una birra.» Mi fermo per vedere se Elizabeth spalanca gli occhi. Lo fa. Be', forse ci sono molte cose che non sa di me. Adesso Aubree è cresciuta, tanto vale che lo accetti (anche se io stessa non ne sono così convinta).

    E poi, è meglio sfruttare ogni occasione di stare con i miei amici, prima che se ne vadano all'università e mi lascino indietro, a fare la spola alla Kent State, a venti minuti da casa mia. Anche se, a dire il vero, per quanto sappia che mi mancheranno, sono ben felice di essere quella che rimane indietro a tenere il forte. Se si dice casa dolce casa un motivo ci sarà. Io adoro stare qui.

    «Mmm-hmm» dice Elizabeth, con aria di disapprovazione. Probabilmente lei ha aspettato fino al ventunesimo compleanno prima di azzardarsi a sorseggiare un calice di vino bianco sofisticato, e le probabilità che desse una festa a casa nostra quando era al liceo erano una su un miliardo. Cerco di non ricordare a me stessa che le mie statistiche non erano tanto diverse, prima del baccanale accidentale di stasera.

    Elizabeth aggrotta la fronte. «Va bene, allora mentre vai ad abbeverarti ti suggerisco di passare a dare un'occhiata in soggiorno. Qualcuno ha vomitato nel ficus della mamma. Io sarò di sopra. Cerca di tenere il rumore sotto controllo, okay?» Elizabeth scivola fuori dallo sgabuzzino e io mi accascio contro il muro, questa volta stando attenta a tenermi lontano dagli scaffali.

    «Pensi che farà la spia con Nancy?» chiede Madison, raggiungendomi contro il muro.

    Oddio. È già un miracolo che i miei genitori siano andati via per il weekend, tenendo conto che mia madre è una patita di Dateline e che quindi è convinta che dietro ogni angolo ci siano sconosciuti pronti ad attirare la sua figlia minore nei loro furgoni agitando caramelle. L'unica volta che sono arrivata tre minuti in ritardo sull'orario del coprifuoco stava già per convocare le forze armate. Nessuno di noi fa in tempo a tossire che lei è già su WebMD.

    Diciamo che la mamma non è un tipo rilassato.

    Eppure ci teneva molto ad andare via con papà per il loro anniversario, dato che io ormai sono quasi all'università e, anche se continuerò a vivere con loro, mi sono guadagnata un po' di autonomia. Un attimo, era tutta una finta? Non avrà fatto marcia indietro e convocato Elizabeth a casa? Perché non ho bisogno che lei mi faccia da babysitter. Mmh, con la piccola eccezione dello scaffale che mi ha imprigionato.

    «Perché non potevi essere tu a trovarmi» piagnucolo, dando a Madison una spinta con la spalla, ma entrambe ci irrigidiamo subito al suono di una sirena.

    Sembra molto vicina. Vicina come se fosse nel nostro vialetto. Apriamo la porta e veniamo quasi falciate da una folla di persone in corsa verso la porta sul retro, come se Godzilla si fosse appena materializzato nel soggiorno.

    «La polizia!» dice Madison. «Oddio, oddio, oddio. Sono spacciata. Non posso perdere la mia borsa di studio!» Si mette le mani sugli occhi e si appoggia allo stipite della cucina.

    «Non aprite la porta!» ordino a chiunque sia a portata di voce, mentre si sente bussare dall'ingresso. «Non possono entrare senza permesso, vero?» sussurro a Madison. Lancio un'occhiata al barilotto di birra abbandonato e a un assortimento di lattine che formano una piramide piuttosto notevole. La Hudson High School dovrebbe esserne orgogliosa: almeno uno dei miei compagni di classe è un genio dell'ingegneria.

    «Che cosa facciamo? Okay, torniamo nello sgabuzzino!» Madison mi spinge di nuovo dentro, e rotoliamo contro una scorta di detersivi e un aspirapolvere.

    In casa regna un silenzio inquietante. E poi i colpi alla porta ricominciano. «Polizia! Aprite!»

    Dentro lo stanzino, tutto tace. L'ultima bottiglia di Clorox smette di traballare sul pavimento e si mette sull'attenti, come me e Madison. I colpi si fermano di nuovo, e poi sento qualcosa che mi fa gelare il sangue. La voce di mia sorella.

    «Buonasera, agente. Come posso aiutarla?»

    Che cosa diavolo sta facendo? Madison mi afferra il braccio e mima le parole: «Ma è Elizabeth?».

    Io faccio segno di sì, con espressione confusa. Non riesco a distinguere le parole del poliziotto, ma Elizabeth risponde: «Sì, signore. Qui va tutto bene. Mi dispiace molto che i vicini si siano lamentati del rumore. Mi accerterò di controllare meglio il volume».

    Mi immagino il sorriso affettato che gli sta facendo. È lo stesso che usava per convincermi a dividere l'ultimo cucchiaio di gelato alla menta e biscotti al cioccolato. Con me funzionava sempre, quindi non mi sorprende che la voce del poliziotto non si senta più. Ma poi all'improvviso lui parla di nuovo, e sembra che si trovi proprio fuori dalla porta dello sgabuzzino.

    Oddio, credo che sia davvero proprio fuori dalla porta dello sgabuzzino.

    «Festa notevole» sta dicendo. Temo che non sia rimasto impressionato dalla piramide di lattine di birra.

    «Ehi, ma io la conosco? Non andavamo a scuola insieme, agente Dixon?» chiede Elizabeth.

    Dopo un attimo di silenzio, la voce profonda risponde: «Non ti ricordi neanche come mi chiamo? Non mi stupisce. Troppo occupata a fare la studentessa modello per notare noi ragazzini, eh?».

    Dall'altro lato della porta lui grugnisce, e io spalanco gli occhi verso Madison, che ricambia lo sguardo. Forse dovremmo uscire. Se Elizabeth conosce il poliziotto, probabilmente non ci arresterà. D'altro canto, non sembra proprio che fossero allegri compagni di esperimenti scientifici. Se ci fosse bisogno di una prova che non la conosce per niente, basterebbe il suo modo di descriverla. Mia sorella è bravissima e sicura di sé, ma non è per niente presuntuosa. Si comporta sempre in modo amichevole, con tutte le persone normali. E sottolineo normali, cosa che questo tizio non sembra essere.

    «Mi dispiace. Me lo puoi ricordare?» dice mia sorella.

    «Non importa» risponde l'Agente Offeso. «Sembra che qui ci sia un bel po' di alcol.»

    «Oh be', non proprio. Le lattine sono gli avanzi di un, ehm, esperimento che stavamo facendo. Non le abbiamo mica bevute tutte. In realtà era una serata intima.»

    Il poliziotto non sembra crederci. «Così intima che i tuoi amici hanno sentito il bisogno di darsela a gambe quando la mia macchina è entrata nel vialetto?»

    «Che cosa? No, certo che no. Se ne stavano comunque andando.» Elizabeth fa un lieve colpo di tosse.

    «Lo trovi divertente?» La sua voce ha un tono che fa aggrappare di nuovo Madison al mio braccio.

    «Certo che no. Assolutamente. Avevo qualcosa in gola.»

    Per un attimo c'è di nuovo silenzio, e io espiro lentamente. Forse ora se ne andrà. È evidente che il disturbo della quiete pubblica è finito, quindi il reclamo dei vicini è sistemato.

    «Hai un documento?» chiede lui.

    «Abbiamo appena stabilito che eravamo in classe insieme. Sai benissimo chi sono.»

    «Documenti, per favore.»

    Ringrazio in silenzio gli dèi dei compleanni che Elizabeth abbia compiuto ventun anni in primavera. Di tutti i presenti è l'unica che abbia legalmente il diritto di bere alcolici. Comunque perché diavolo ha aperto la porta?

    «È un documento falso?» la voce rimbomba sempre più vicina.

    Elizabeth risponde con autentica indignazione. «Stai scherzando? Certo che no!»

    Il Re degli Imbecilli risponde con voce chiaramente alterata: «Le consiglio di usare un altro tono con me, signorina».

    «Mi scusi, signore» dice Elizabeth, e quel signore gronda disprezzo. «Sono una privata cittadina, ho l'età legale per bere, sono nella mia proprietà e vorrei che se ne andasse, adesso.»

    «Come ho detto, signorina Sadler, non le conviene farmi arrabbiare. Lei può anche avere ventun anni, ma se chiunque era presente qui stasera non li aveva, lei potrebbe essere accusata di aver fornito alcolici a dei minorenni.»

    «Ma è ridicolo. E comunque, vede forse qualcun altro qui?» Wow. Non è da Elizabeth inalberarsi così. Era la stella del suo club di dibattito all'università, e dubito che si sia guadagnata il posto perdendo la calma. «Senta» gli dice. «Lei non ha più il mio consenso per restare in casa mia. Se non se ne va immediatamente inoltrerò un reclamo contro di lei.»

    «Indovina un po', reginetta del ballo? Adesso hai un problema. Ce l'ho io il potere adesso, e tu ti devi rassegnare.»

    Ancora wow. Il ragazzo non scherza.

    «Per favore, vai via. Te lo chiedo gentilmente.»

    I passi si allontanano dallo sgabuzzino, e io apro la porta di un millimetro per sbirciare fuori. Il poliziotto adesso è in piedi sulla porta della cucina, quella che dà sul retro, per vedere se in giardino è rimasto qualche invitato alla festa. Poi si volta di nuovo verso Elizabeth, che gli mette una mano sul braccio per guidarlo verso l'anticamera.

    Prima che possa rendermene conto, si sente uno scatto metallico e all'improvviso sono comparse delle manette ai polsi di mia sorella.

    «Ma cosa diavolo fai?» Strilla mia sorella, e io mi copro la bocca con le mani. Madison mi spinge via per spiare anche lei. Poi fa un passo indietro e mima con le labbra: «Oddio!».

    Mia sorella è stata arrestata? Per che cosa?

    Chiaramente, anche lei si fa la stessa domanda. «Perché mi stai ammanettando?»

    «Lei mi ha messo le mani addosso e io mi sono sentito minacciato. Non può minacciare un pubblico ufficiale, signorina Sadler.»

    «Ma sei pazzo? Ti ho appoggiato una mano sul braccio per accompagnarti all'uscita. Non è neanche lontanamente possibile che tu l'abbia presa come una minaccia.»

    E adesso che cosa faccio? Esco a difendere mia sorella? Ho bevuto due margarita qualche ora fa, quindi dovrei essere a posto, ma non so quanto abbia bevuto Madison, e se rivelo il nostro nascondiglio lei potrebbe essere la prova che il poliziotto sta cercando per arrestare Elizabeth con un'accusa reale, che potrebbe reggere: quella di aver fornito alcolici a una minorenne. Cosa che ovviamente non ha fatto. Questo tizio deve essere completamente fuori di testa, oppure non ha ancora superato un rancore mostruoso per un amore non corrisposto al liceo. Torno alla porta per guardare, ma a parte questo sono paralizzata.

    «Potrà sostenere la sua versione davanti a un giudice, se ha una visione diversa degli avvenimenti di questa sera. Intanto però deve venire con me per il rapporto.»

    Elizabeth cerca di divincolarsi, e mi viene quasi da spalancare la porta. Quasi. Io e Madison abbiamo un'intera conversazione di sguardi in cui discutiamo che cosa sia meglio fare, ma alla fine non ha importanza: nell'arco di trenta secondi la porta d'ingresso si chiude, si sentono due portiere sbattere e un motore che si avvia nel vialetto.

    E mia sorella viene portata in prigione.

    2

    Il giorno dopo, quando entro nella sua stanza, Elizabeth ha un asciugamano ripiegato sulla fronte e gli occhi chiusi. Mi fermo sulla soglia, esitante.

    «Chiuditi la porta alle spalle, per favore» dice lei senza spostare l'asciugamano.

    Lascio cadere sulla sua scrivania un mucchio di biglietti di congratulazioni per la laurea e, dato che è così sconvolta, dedico un altro minuto a impilarli ordinatamente, in armonia con il resto della stanza.

    «Ti serve niente?» chiedo.

    «Hai visto nostra madre?» Fa un cenno verso il comodino, dove c'è un bicchiere di ginger ale con una cannuccia, accanto a un piatto con del pane tostato e al telecomando della TV. Come se mia sorella fosse malata, e non accusata di un crimine.

    Mi stupisco che mia madre sia arrivata a tanto, nonostante il fatto che è stata tirata giù dal suo letto in un bed and breakfast a due ore da qui per pagare la cauzione di Elizabeth, per non parlare delle ore che ha passato a urlarmi contro.

    «Mmh, ecco volevo solo ripeterti quanto mi dispiace per quello che è successo ieri sera» le dico. «Se può farti sentire meglio, sono in castigo per tutta la vita.»

    Elizabeth si sposta l'asciugamano dalla faccia e si mette a sedere appoggiandosi sul gomito. Poi si inclina verso la testiera del suo letto a baldacchino da principessa e batte la testa contro il legno.

    Infine scoppia in lacrime.

    Wow.

    «Ehi, ehi. Andrà tutto bene.»

    Lei si asciuga il naso con la manica, il che francamente mi sconvolge ancora più delle lacrime. Non ricordo di averla mai vista perdere il controllo, neanche di pochissimo, e l'Elizabeth che conosco io non se ne andrebbe mai in giro con delle tracce di muco sulla manica.

    Però è anche vero che non la conosco poi così a fondo. Fin da piccola ho cercato di risolvere il suo mistero: come faceva a guidare la bici tanto bene, mentre io riuscivo a malapena a caracollare sul triciclo? Come mai il suo lucidalabbra alla ciliegia restava al suo posto, mentre il mio era così buono che lo leccavo tutto in dieci secondi? Come faceva ad attirare l'attenzione del bagnino figo ogni volta che saliva la scaletta del trampolino? Come riusciva a mantenere quei voti e avere anche il tempo di presiedere metà dei club della scuola, mentre il massimo che riuscivo a ottenere io era di arrivare prima dell'ultima campanella? Davvero avevamo gli stessi geni?

    Per adesso, comunque, l'unico mistero che mi interessa risolvere è perché ha aperto la porta ieri sera, e perché diavolo ha risposto per le rime, anche se senza esagerare, a un poliziotto che chiaramente voleva fare un gioco di potere.

    «Allora, che cosa è successo? Voglio dire, so che cosa è successo. Ma come è potuto succedere

    Lei si sfrega gli occhi, sbavandosi il mascara sulla guancia. Inspira con un piccolo singhiozzo, poi espira lentamente e dice: «Ho perso la testa».

    Nonostante la gravità della situazione, mi metto quasi a ridere. Scommetterei l'intero contenuto della mia stanza che non ha mai pronunciato queste parole prima d'ora.

    «Non sei tu che hai perso la testa. Quello era completamente fuori.»

    «Certo, ma io avrei dovuto capirlo ed evitare di provocarlo. E comunque come fai a saperlo? Te l'eri data a gambe.» Oh. Evidentemente non si è saputo che ho assistito a tutta la scena dallo sgabuzzino.

    «Be', non è che potessi immaginare che tu avresti aperto la porta.»

    «Cercavo di salvarti il culo. Ho aperto la porta perché pensavo di potermela cavare con un sorriso e la promessa di abbassare il volume, così la tua piccola bisboccia non sarebbe stata scoperta. Avevi detto che ci tenevi a quella festa, e quindi ti stavo proteggendo

    Il senso di colpa mi trafigge il

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