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L'amore che sarà
L'amore che sarà
L'amore che sarà
E-book508 pagine6 ore

L'amore che sarà

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Info su questo ebook

La serie dei desideri

L’unico modo per andare avanti era tornare all’inizio di tutto…

Dopo tre tristi settimane senza Charli, Adam decide di seguirla, sperando di trovare il modo di mantenere la sua promessa di un lieto fine.
La rintraccia a Piper Cove, dove l’unica persona che non la delude mai sta curando il suo cuore spezzato.
Sanno entrambi che non è cambiato nulla. Si amano disperatamente, sono bloccati in un limbo, e non riescono a trovare un compromesso.
Quando il destino offre loro una nuova possibilità, si tratta di un treno che passa una volta soltanto. Accettarlo significa cambiare i loro progetti, cosa che nessuno dei due ha mai voluto fare. Ma quando uno di loro inizia a trovare la sua strada, l’altro perde completamente l’orientamento, e nessuno dei due si accorge che il tempo sta per scadere.
G.J. Walker-Smith
Moglie e madre, vive vicino alla spiaggia in una località dell’Australia occidentale. È autrice di romanzi young adult di grande successo, in particolare la Serie dei Desideri, di cui E l’amore bussò è il primo capitolo, premiato come il miglior esordio letterario in Australia e Nuova Zelanda.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854196971
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    Anteprima del libro

    L'amore che sarà - Smith

    10 dicembre

    Adam

    C’è un tipo di dolore al quale si può fare l’abitudine, soprattutto se si pensa di meritarlo. E io, senza dubbio, me lo meritavo.

    Per svoltare pagina, dovevo lasciare quell’appartamento. Due giorni dopo la partenza di Charlotte decisi di tornare a stare da Ryan.

    Non ero nemmeno in grado di preparare le valigie, così mi comportai quello che farebbe ogni ventitreenne in crisi: chiamai mia madre.

    Quando lei arrivò, ero steso sul divano, mezzo morto.

    «Adam, alzati», gridò lei, precipitandosi dentro come se fosse a casa sua.

    Mia madre non è una che sta lì a menarsela. È inglese, lei. Tutta d’un pezzo. Non è neanche particolarmente solidale, soprattutto quando è irritata. L’unica cosa che l’aveva fatta arrabbiare, più del fatto che avessi sposato Charli, era stato che l’avessi lasciata andare.

    Non ero più il figlio buono.

    Balzò verso le finestre e aprì gli scuri. Cambiò poco. Il tempo era cupo come il mio umore. «Sei uno sciocco», mi rimproverò. «Hai voluto la bicicletta. Ora arrangiati e pedala».

    «Mi toccherà pedalare da solo, mamma».

    Ero patetico. Probabilmente ne avevo anche l’aspetto, ma ciò non mi aiutò a ottenere la compassione della regina.

    «Che ragazzo stupido», ringhiò lei, uscendo impettita dalla stanza.

    * * *

    Mia madre restò con me per ore quella mattina, cercando di fare di nuovo ordine nella mia vita. Dal divano, la vedevo in camera da letto mentre infilava tutte le cose di Charli negli scatoloni: era semplicemente crudele.

    Alla fine ricomparve nella stanza agitando qualcosa verso di me. «Adam, questi cosa sono?».

    Alzai la testa, guardando gli anelli che teneva in mano. «I suoi anelli nuziali».

    Mia madre mi spostò i piedi dal divano e si sedette accanto a me. «Mi stai dicendo che quella ragazza aveva questi anelli bellissimi e non li metteva?»

    «Non le andavano, mamma», bisbigliai. «Non le andava niente, di questa vita. Manda ad Alex anche questi».

    Infine sembrò impietosirsi. «Non sopporto di vederti così», disse dolcemente. «Perché non la chiami?»

    «No».

    «Va bene». Si alzò in piedi di scatto. «La chiamo io. Forse riesco a farla ragionare».

    Per quel che ne sapevo io, Charli ragionava perfettamente: proprio per questo aveva mollato un idiota bugiardo e calcolatore come me.

    «Non puoi chiamarla», borbottai.

    «Guardami», mi ordinò lei tenendo il telefono all’orecchio.

    La guardai e vidi l’espressione terrorizzata che le attraversò il volto pochi secondi dopo. Era una reazione perfettamente comprensibile. Il telefono di Charlotte era sotto carica in cucina, esattamente dove l’aveva lasciato. E in quel momento sobbalzava sul ripiano, riproducendo a tutto volume la colonna sonora di Psycho, che mia moglie aveva assegnato a mia madre come suoneria personalizzata.

    La mamma chiuse la chiamata. «Una volta o l’altra le tiro il collo, a quella ragazza».

    «Ti manca però, vero?», le chiesi quasi sorridendo.

    «Sì», ammise lei. «Da morire».

    * * *

    Sperai che Ryan non fosse in casa, quando mi ritrasferii da lui. Invece non solo era in casa, ma aveva anche compagnia.

    Mio fratello ha un debole per le bionde, in particolare per quelle volgari che non si vergognano a sfilare in casa di qualcuno con indosso solo un asciugamano.

    Per fortuna Ryan era vestito, sdraiato sul divano. La sua amichetta era in cucina.

    «Torni a stare qui?», mi chiese in tono assai poco entusiasta.

    «Già». Chiusi la porta d’ingresso con un piede e posai a terra lo scatolone che stavo trasportando. «Cambio di regole».

    Non dovetti stare a spiegarmi. Ryan sapeva esattamente cosa intendessi. Quando abitavo lì, avevamo una politica molto rigida sulle bionde seminude che si aggiravano per l’appartamento, soprattutto quelle volgari.

    «Conosci Isobel?».

    La bionda si affaccendava in cucina e sentendo il suo nome alzò la testa. Mi salutò con la mano. «Ehi, ciao», mi disse con un forte accento londinese.

    «Salve». Guardai Ryan, ridacchiando. «Allarghi i tuoi orizzonti, vedo. Ora te la fai in campo internazionale?»

    «Le ragazze inglesi sono spettacolari, Adam. Sono le australiane di cui si deve diffidare».

    Gli spostai i piedi dal tavolino da caffè e mi sedetti accanto a lui. Entrambi ci mettemmo a fissare, poco convinti, la volgare Isobel.

    «Le australiane non ti preparano da mangiare», bisbigliai. «Sei tu a prepararglielo».

    Ryan alzò la testa pigro. «Isobel è una hostess. Servire è nella sua natura».

    «Sei proprio uno stronzo, lo sai?»

    «Anche tu. Per questo te ne torni qui da me, triste e solo».

    Aveva ragione. Mi sistemai sul divano e sospirai. Me la sarei goduta a dividere l’appartamento con mio fratello, che adorava le ragazze volgari? No. Ma era la mia nuova, mediocre vita. Questo mi toccava, finché non trovavo il modo di tornare nel mondo dei sogni.

    10 dicembre

    Charli

    Mitchell Tate mi beccava sempre nelle situazioni peggiori, ma come al solito non se ne lamentò. Purtroppo, forse ci era già abituato.

    Per venirmi a prendere in città, aveva chiesto in prestito la jeep di Melito. Ero felice che ci aspettasse un lungo viaggio, perché ci dava il tempo di aggiornarci.

    Kaimte era sempre la solita cittadina beata e rilassata, al pari di Mitchell. L’unico aspetto mutato della sua semplice vita era l’assenza di alcuni dei nostri amici. Zoe e Rose erano tornate in Inghilterra sei mesi prima, pronte a rientrare nel mondo reale. Se aveva il cuore spezzato, Mitchell non lo dava a vedere. «Mi scrivono ancora delle e-mail», disse alzando le spalle.

    «Tu rispondi qualche volta?».

    Il suo volto si aprì in un sorriso enorme. «Un giorno lo farò».

    Anche Bernie e Will erano partiti. Si erano spostati più a nord, scappando di soppiatto una notte per evitare di pagare gli affitti arretrati a Leroy. Melito e Vincent invece erano ancora lì, e decisero di celebrare il mio arrivo invitandoci a una grigliata sulla spiaggia, più tardi in serata.

    Mitchell accettò all’istante, snocciolando una serie di persone che voleva farmi conoscere. Come ogni posto di passaggio, c’era un flusso costante di nuovi amici a sostituire quelli che se n’erano andati.

    «Allora, sei ancora felice qui?», gli chiesi, percorrendo il suo piccolo bungalow.

    Lui posò la mia valigia sul pavimento di legno. «È il posto più felice del mondo. Aspetta un paio di giorni e ti ricorderai perché».

    * * *

    Dieci minuti dopo essere arrivati al bungalow, eravamo già a mollo. Nell’istante stesso in cui l’acqua mi inondò, tutto lo stress accumulato si dissolse. Io e Mitchell passammo l’ora seguente a ciondolare vicino alla riva, a sollazzarci tra le onde basse che si infrangevano, e a chiacchierare.

    Mitchell voleva sapere tutto della mia vita a New York, e soprattutto di Adam. «Pensavo che lo amassi». Quando lo disse, mi pentii di essermi confidata con lui.

    «Lo amo», gli spiegai. «Lo amo davvero, e profondamente. Solo che lui deve imparare ad amare me».

    Mitchell corrugò le sopracciglia, scuotendo la testa. Se era confuso, non potevo volergliene. «Per quanto tempo sei disposta ad aspettare?»

    «Non ho pensato così in avanti».

    «Non concedergli troppo tempo, Charli. Viviti la tua vita. Non è colpa tua, se lui non ce la può fare».

    Amavo Mitchell Tate; non nel modo disperato, completo e assoluto in cui amavo Adam Décarie, ma comunque lo amavo. Chissà come sarebbero andate le cose, se l’avessi amato alla Décarie.

    La ragazza che fosse riuscita ad accaparrarsi Mitchell, non sarebbe mai stata costretta a vivere in una grande città. Avrebbe vissuto sempre in qualche spiaggia, senza conoscere le lusinghe della ricchezza né gli obblighi che comporta. D’altra parte, non avrebbe avuto un paio di scarpe né una spazzola per capelli per il resto della sua vita.

    «Testa in alto», disse lui avvisandomi dell’onda successiva. Affondammo entrambi le mani nella sabbia, tenendoci stretti mentre l’acqua ci inondava. Ne uscii sputacchiando, e Mitchell scoppiò a ridere. «Era la numero nove, Charli».

    Era stato Alex a illustrarmi per primo la teoria della nona onda, quando ero bambina. Lui sosteneva che fosse una sua invenzione, ma ci credevano anche un sacco di surfisti irriducibili e di marinai. La nona onda, in teoria, è più grande di quelle che la precedono, per cui è la più anomala della serie. Una volta che è passata, inizia un ciclo nuovo.

    Tossii ancora. «Sono un po’ fuori dai giochi, direi».

    «Non sono più sicuro di quali siano, i tuoi giochi», mi prese in giro lui. «Sei solo una ragazza magrissima che ha dimenticato come si contano le onde».

    «Pensi di rimettermi a posto?». Sembravo incredibilmente seria, considerando l’idiozia della sua affermazione.

    Sorrise. «Andrà tutto bene. Devi solo tornare al principio. Pensa ad Adam come la tua nona onda. Il peggio è passato. Adesso ricomincia a contare».

    «Secondo te, dovrei andare a casa, vero?».

    Annuì. «Alex sarà felice di riaverti con sé».

    Per la prima volta dopo tanto tempo, prendevo in considerazione quell’idea. Passare del tempo con l’unica persona che non mi avesse mai deluso esercitava indubbiamente una forte attrazione per me.

    10 dicembre

    Adam

    La volgare Isobel alla fine se ne andò, lasciandomi da solo con Adam per la prima volta da tempo immemorabile. Ed era strano. Soprattutto quando lui cominciò a parlare.

    «Hai notizie di mani di fata?»

    «No».

    «Non te le aspetti?»

    «No».

    «Be’, se ti va di parlarne sono qui», mi disse. «Sarei felice di illuminarti un po’ sul motivo per cui ti ha mollato».

    Era da tanto tempo che io e mio fratello non facevamo a pugni. Lo guardai con la coda dell’occhio, chiedendomi cosa mi sarebbe successo se gli avessi dato un pugno. Decisi di evitare. Forse vivere insieme poteva diventare imbarazzante.

    «Grazie, ma non mi servono i tuoi consigli in materia».

    Ryan si chinò in avanti e lasciò cadere il telecomando sul tavolino da caffè.

    «Ti aspettavi davvero che andasse a finire diversamente?», mi chiese. «Se cercavi una mogliettina perfetta e sottomessa, hai sposato la ragazza sbagliata».

    «Taci, Ryan».

    Lui sorrise, in modo abbastanza sardonico da farmi rivalutare l’opportunità di colpirlo. «Allora, cosa intendi fare per riprendertela? Metti pure in conto quintali di brillantini e polvere di farfalle, altrimenti sei fregato».

    Avevo sentito abbastanza. Quando riaprì bocca, ero quasi fuori dalla stanza.

    «Stavo scherzando, Adam. Charli non ne vuole, di brillantini: ce ne ha già abbastanza che gliene svolazzano in testa. Non provarci con i trucchetti. Non è il suo stile».

    Mi voltai, infuriato. «Come cavolo fai a sapere cosa vuole Charli? Perché dovrei accettare i consigli di uno che si sveglia accanto a donne che conosce da meno di dodici ore?»

    «Non stiamo parlando delle altre donne». Ryan alzò le spalle. «Stiamo parlando di tua moglie. Non è così complicata: Charlotte ha espresso molto chiaramente quello che voleva. L’unico a non averla sentita sei stato tu».

    Si sbagliava. L’avevo sentita milioni di volte. In tutta quella storia, lei voleva semplicemente me. Ed era l’unica cosa che non ero stato capace di darle interamente. Per questo ero rimasto da solo.

    * * *

    Non aspettavo con impazienza le vacanze di Natale: studiare per me era una grande distrazione. Dopo l’ultima lezione mi diressi in biblioteca, deciso a sovraccaricarmi di studio per arrivare alla ripresa delle lezioni nell’anno nuovo.

    Trovai un angolo tranquillo, mi sistemai e cominciai a leggere con attenzione gli appunti che avevo preso in classe. Sapevo io stesso che era una cosa esagerata, ma non avevo davvero altro da fare.

    Stavo proprio entrando nel merito della lezione, quando una ragazza lasciò cadere la sua borsa con i libri sul tavolo, facendo svolazzare via tutti i miei fogli.

    «Ciao», mi salutò, non vedendo o ignorando il casino che aveva appena fatto. «Sei Adam, giusto?».

    Raccolsi i fogli. «Sì, e tu invece?»

    «Trieste Kincaid». Si mise a sedere. «Lo so, lo so, starai probabilmente pensando che mi chiamo come la città in Italia, ma non è così». In realtà stavo solo pensando a chi fosse quella ragazza e cosa diavolo volesse. «Mio padre ha un debole per il batiscafo che si chiama Trieste», continuò lei. «Sai, quello che negli anni Sessanta ha esplorato il Challenger Deep, il punto più profondo del nostro pianeta?».

    Sovraccarico di informazioni, ero incapace di pensare. «Che cos’è un batiscafo?».

    Lei ridacchiò, con un suono acuto che fece girare tutti i presenti in biblioteca. «Su Adam, aggiornati. È un piccolo sommergibile per l’esplorazione subacquea a grandi profondità».

    La fissai, cercando di schiarirmi la testa da tutte quelle assurdità. Quella ragazza agitata dalla chiacchiera incontrollabile non sembrava affatto turbata. «Trieste, ci conosciamo?»

    «Non ancora», rispose lei. «Ma ci conosceremo presto. Sei il mio nuovo tutor. Il mio terzo, in realtà. Gli altri due ci hanno rinunciato».

    Iscriversi al programma di tutoraggio studenti era stata una pensata di Parker. Al tempo, non ne ero stato molto entusiasta. In quel momento, seduto accanto a quella ragazza ipereccitata, lo ero ancora meno.

    «Guarda», cominciai, cercando di trovare un modo gentile per scaricarla. «Sono molto impegnato e…».

    «Sei la mia ultima speranza. Se mi molli, mi sbattono fuori dal programma di tutoraggio».

    Aveva un’aria così triste che temetti si mettesse a piangere. Non avevo idea di come avrei potuto gestire la cosa se l’avesse fatto, soprattutto se piangeva così forte quanto rideva.

    «A che cosa stai lavorando, al momento?», le chiesi, optando per una linea più morbida.

    Lei si riprese all’istante, aprì la borsa, ne estrasse un mucchio di fogli e me li sbatté davanti. «Diritto costituzionale».

    «Hai bisogno d’aiuto, allora?».

    Ridacchiò ancora e io abbassai la testa, zittendola prima che ci sbattessero fuori entrambi. «No. Ho dei voti ottimi».

    «Che cosa vuoi allora da me?»

    «Non ne sono ancora sicura, ma te lo faccio sapere. Mi piacerebbe solo trovare un volto amico».

    Non ero affatto amichevole: pensavo di aver spiegato chiaramente che fare da babysitter a una studentessa del primo anno non rientrasse esattamente tra le mie priorità.

    «Di dove sei, Trieste?».

    Non poteva essere di quel posto. Sarebbe già stata arrestata per reati contro la moda. Non avevo mai visto nessuno andare in giro con una cuffia di lana legata sotto il mento, meno che mai una cuffia con le orecchie. Aveva un paio di occhiali neri dalla montatura spessa che però erano carini.

    «Figlia di un militare». Indicò sé stessa. «Un po’ qui, un po’ là».

    Nel minuto e mezzo seguente, imparai un mucchio di cose su Trieste. Aveva ventun anni, ma sembrava molto più giovane. Aveva una borsa di studio che le copriva interamente i costi, e stava cercando un lavoro part-time. Non apprese nulla di me, e io intendevo mantenere la cosa in questi termini. Pensai che nelle prossime settimane avrei potuto aiutarla un po’ a studiare, per poi sbolognarla al prossimo tutor ignaro.

    Dopo quella rapida sessione di domande e risposte, cominciai a mettere via le mie cose. Confidavo nella possibilità di svignarmela alla svelta, finché Parker non si avvicinò al mio tavolo. Avrei preferito avere a che fare con mille Trieste piuttosto che con lui. Non lo vedevo da quella maledetta festa di Natale.

    «Ciao», fece lui.

    Non risposi. Mi limitai a fissarlo.

    La signora della chiacchiera gli sorrise radiosa e gli tese la mano. «Ciao. Come va? Mi chiamo Trieste».

    Lui, in modo molto maleducato, la lasciò in sospeso.

    «Che vuoi?», gli dissi brusco.

    «Mi chiedevo solo come te la passi», rispose tranquillo. «Ultimamente non ci siamo visti spesso».

    «E non è un caso».

    Annuì, con un’aria lievemente pentita. «Come sta Charli? L’hai sentita?».

    Se voleva fare un po’ di conversazione, era un coglione ancora più grosso di quanto pensassi.

    «Chi è Charli?», domandò Trieste, ignara.

    Guardai lei, poi Parker. «Non devi mica andare da qualche altra parte?».

    La mia voce doveva esprimere tutta la mia rabbia. Lui se ne andò. Era uno stronzo, ma non era così stupido.

    Parker era appena fuori portata d’orecchio quando ricominciò l’interrogatorio di Trieste. «Chi è Charli?», ripeté.

    «Devi sapere tutto, tu?».

    Lei piegò la testa. «Mi piace sapere tutto. Il mio cervello è una grossa spugna. Per vivere ho bisogno di informazioni».

    «Charli è mia moglie», bisbigliai.

    Lei spalancò gli occhi e si spinse gli occhiali sul naso. «Hai una moglie? Wow. Mi sembri giovane per essere sposato». Indicò la mia mano. «Avevo visto l’anello, ma pensavo che fosse uno di quegli anelli di purezza. Sai, quelli che simboleggiano l’astinenza sessuale».

    Risi quasi, per la prima volta da giorni.

    «Dov’è lei?»

    «Chi?».

    Alzò gli occhi al cielo. «Tua moglie, Charli».

    Avrei voluto saperlo. «Sta viaggiando. Ama viaggiare».

    «Ti ha lasciato, vero?», mi chiese lei solidale. «Perché ti ha lasciato?».

    Non aveva senso risponderle, ma lo feci ugualmente. «Non si è fatta ingannare».

    «Oh, che brutto», mormorò lei, facendomi sorridere.

    «Non ne hai idea».

    18 dicembre

    Charli

    Rimasi con Mitchell a Kaimte per una settimana prima di partire, ma il mio umore nel frattempo non migliorò. Mitchell mi accompagnò in aeroporto e rimase con me fino all’annuncio del volo. Mi abbracciò, mi augurò in bocca al lupo e mi disse che mi voleva bene.

    «Ti verrò a trovare, non appena mi sentirò un po’ meglio», sussurrai.

    «La tua felicità non dipende da lui, Charli. Ricordatelo».

    In rare occasioni, Mitchell Tate poteva essere un uomo straordinariamente profondo. Avrei tanto voluto poter seguire il suo consiglio.

    Ero così stanca quando l’aereo atterrò a Hobart che sobbalzai in maniera quasi brutale. Mi riebbi in fretta, presi la borsa e mi alzai in piedi tra i sedili, desiderosa di scendere al più presto. Amavo viaggiare, ma non ero mai stata particolarmente brava a farlo. Sembrava che mi ci volessero dei giorni per riprendermi dai voli sulle lunghe distanze. Alex era assolutamente convinto che l’acqua salata curasse ogni cosa. Io avevo una teoria migliore. La cioccolata curava ogni cosa, e per mia fortuna ero tornata nella terra del Caramello Koala. Quando individuai il distributore automatico, mentre andavo allo sportello del noleggio auto, i koala sull’incarto mi stavano chiamando a gran voce. Infilai una manciata di monete nella macchina e mi misi in tasca una quantità scandalosa di barrette di cioccolata, per il viaggio verso casa.

    Uscita infine dall’aeroporto, attraversai lentamente il parcheggio con la testa rivolta al cielo. Quel dolce mattino estivo aveva un’aria pungente che esisteva solo nel clima della Tasmania. Non era così in nessun altro posto al mondo. Sorrisi, rendendomi conto che avevo viaggiato abbastanza per poter fare un’affermazione simile.

    Ero ufficialmente a casa, a solo un’ora di strada da Pipers Cove e, soprattutto, da Alex.

    * * *

    Con la modesta berlina che avevo noleggiato mi diressi a sud, inspirando quell’aria fresca dal finestrino aperto e sgranocchiando la mia quarta barretta.

    A quanto pareva, l’unica cosa a essere cambiata in quell’angolino di mondo ero io. Due anni prima avevo una voglia pazza di partire ma mentre mi avvicinavo, ormai a pochi chilometri da Cove, mi sentivo nervosa, eccitata, e anche nauseata.

    Guardai il mucchio crescente di incarti sul sedile del passeggero e mi pentii della mia ingordigia. Adesso volevo davvero arrivare a casa, e la mia voglia di arrivarci si rifletteva sulla mia guida. Non abbassai neanche gli occhi a controllare la velocità, finché non notai delle luci rosse e blu che lampeggiavano dietro di me.

    «Oh, cavoli», borbottai, fermandomi sul ciglio sterrato della strada. Sfruttai il tempo che impiegò il poliziotto ad avvicinarsi all’auto per esercitarmi con il mio discorsetto per non farmi fare la multa. Non lo usavo da tanto tempo.

    L’agente non sembrava molto più vecchio di me. Era in imbarazzo, come se dovesse ancora abituarsi alla sua uniforme azzurra inamidata.

    «Buongiorno», mi salutò educato. «Dove è diretta?»

    «Salve. A Cove». Indicai davanti a me di là dal parabrezza, come se avesse bisogno di indicazioni.

    «E da dove viene?».

    Mi resi conto che fare la spiritosa avrebbe potuto non tornare a mio favore, ma non seppi resistere. «Africa, a dire la verità».

    «Capisco». Le sue labbra si tesero in un sorriso. «E ha superato i limiti di velocità per tutto il viaggio?».

    Non gli risposi. Avevo altro in testa, tipo quanto mi avrebbe fatto pagare la compagnia di noleggio se avessi vomitato nella loro macchina. Spalancai la portiera e lui fece un rapido passo indietro per non essere colpito. Fece un altro salto all’indietro quando uscii barcollando dall’auto e vomitai a terra. «Mi dispiace tanto», borbottai, umiliata: di sicuro avrebbe pensato che fossi ubriaca.

    «Posso prenderle qualcosa, signorina? Dell’acqua, forse?».

    Alzai la testa per guardarlo. «No grazie. Sto bene».

    «Bene. In quel caso, posso vedere la sua patente, per favore?».

    Mi drizzai e presi la borsa dal sedile del passeggero, facendo svolazzare incarti di cioccolata in tutte le direzioni. «Per un attimo ho pensato che avrebbe avuto pietà di me e non mi avrebbe fatto la multa».

    «Il fatto che stia male non giustifica una velocità di centodiciassette in una zona in cui il limite è cento». Fece scattare la penna in modo autorevole.

    «Ma ha visto bene questa macchina?», gli chiesi. «Non è possibile che andassi tanto veloce».

    Il suo sorriso si allargò, ma continuò a scrivere. «Non ti ricordi di me, vero, Charli?».

    Continuò a scrivere mentre lo fissavo. «Dovrei?».

    Alla fine smise di scribacchiare, strappò la multa dal suo taccuino e me la passò. «Flynn Davis».

    Spalancai gli occhi. «Il nipote di Floss e Norm?».

    Mi restituì la patente. «L’unico e solo».

    Non lo vedevo da anni. Mi ricordavo quando veniva a trovare i nonni per le vacanze. Flynn aveva un paio di anni più di me, che da bambini vale come qualche decennio. In realtà ricordavo solo il suo debole per l’heavy metal e Floss che lo minacciava di tagliargli i capelli lunghi con le forbici da giardino.

    «Impossibile riconoscerti senza la maglietta dei Metallica e il montgomery».

    Arrossì. «Be’, attraversiamo tutti una fase strana».

    «Non preoccuparti», gli risposi. «Io penso di essere ancora nella mia fase strana. E così, adesso vivi a Pipers Cove?»

    «Sì, ho una casa in affitto sulla spiaggia. Mi tiene fuori dai guai».

    «Pensavo che fare il poliziotto ti tenesse fuori dai guai».

    «Tu, invece?», mi chiese, ignorando il mio commento saputello. «Sei solo in visita?»

    «Per un po’», risposi vaga.

    Flynn fece un passo indietro e mi domandai se avessi di nuovo l’aria di una sul punto di vomitare. «Bene. Ti lascio andare. Vai piano, d’accordo?».

    Girai la chiave e la piccola berlina si accese ronzando. «Certo, lo farò», risposi, mandando inutilmente su di giri quel motore poco potente. «Guarda bene la mia macchina».

    * * *

    Non avevo idea di dove trovare Alex. Decisi di tentare prima a casa, perché era sulla strada per il paese. La promessa fatta all’agenzia di noleggio, di guidare solo su strade asfaltate, andò a farsi benedire nel momento in cui iniziai a sobbalzare lungo il vialetto di ghiaia. Speravo quasi che Alex non ci fosse. Vedere quanto fossi disabituata a guidare l’avrebbe probabilmente spinto a confiscarmi le chiavi. Mentre mi avvicinavo, vidi un furgone rosso nuovissimo parcheggiato accanto alla casa. Doveva essere il suo. Ne aveva sicuramente cambiati almeno due da quando ero stata via.

    Stavo scendendo dalla macchina quando Alex uscì sulla veranda, dopo di che restammo lì a fissarci in un silenzio strano.

    Mio padre era identico all’ultima volta che l’avevo visto. I capelli biondastri erano sempre spettinati, da ragazzino. Indossava jeans scoloriti e una maglietta che un tempo era stata bianca e che era stata distrutta dal suo armeggiare nel casotto.

    Non sapevo se andare da lui o meno. Sembrava solo perplesso, lasciandomi con la convinzione che non ricordasse chi fossi.

    «Ciao papà», lo salutai piano.

    Luì si riprese dalla confusione che lo stava assillando e si lanciò giù per i gradini senza neanche sfiorarli, rallentando solo mentre faceva gli ultimi passi verso di me. «Sei veramente a casa!». Mi prese la faccia tra le mani.

    Annuii e le sue mani si mossero con me, poi mi lasciò andare e mi stritolò nel suo abbraccio. Sopportai alla meglio, prima di liberarmi e fare un lungo sospiro per calmarmi.

    «Sei stanca?»

    «Da morire», gli risposi, rivolgendogli il mio sorriso migliore. «Il viaggio è stato lungo».

    «Vieni dentro», mi ordinò, mettendomi un braccio intorno alla spalla mentre camminavamo. «Ti preparo il pranzo, poi vai subito a dormire».

    * * *

    La casa appariva diversa. L’orribile ma comodo salotto di pelle marrone non c’era più. Era stato sostituito da quello immacolato della casa di Gabrielle. Alcuni quadri di lei erano appesi alle pareti e la libreria, un tempo insignificante, era ora zeppa di libri. Erano i cambiamenti più evidenti, ma ce n’erano centinaia di altri, più sottili.

    L’ultima cosa che volevo fare era sembrare offesa. Alex aveva tutto il diritto di vivere con Gabrielle. Nessuno meritava di essere felice più di lui e la parigina.

    «Gabrielle è in casa?», gli chiesi.

    «Stamattina ha un appuntamento a Hobart. Sono contento che abbiamo qualche ora da soli, comunque. Ci darà il tempo di aggiornarci. Abbiamo molte cose da raccontarci».

    «Io ne ho un mucchio da dire a te», gli risposi, seguendolo in cucina.

    Per essere due persone che dovevano dirsi un sacco di cose, nei pochi minuti successivi non ci raccontammo granché. Solo trovarmi nella stessa stanza con lui mi tranquillizzava. Mentre ero seduta a tavola, Alex preparò dei panini.

    «Quanto tempo rimani, Charli?». Alex mi mise davanti un piatto enorme di cibo. Prese una sedia e si sedette a tavola con me, fissandomi in attesa di risposta.

    «Per un po’, se va bene».

    «Puoi restare quanto vuoi. Questa sarà sempre la tua casa».

    «Grazie», mormorai, aprendo in due il panino per controllarne il contenuto. Era con il tonno. Il mio stomaco si contorse e spinsi il piatto al centro del tavolo, pizzicandomi il naso.

    «Hai qualcosa contro il tonno?»

    «Oggi, sì. Mi sono ingozzata di cioccolata per tutto il viaggio da Hobart».

    Lui mise il suo panino sul piatto. «Ti viene da vomitare?»

    «Non ci stavo nemmeno pensando finché non me l’hai detto».

    «Posso darti qualcosa?».

    Scossi la testa. «Sto bene, solo stanca. Ho proprio bisogno di dormire».

    Lui annuì, ma vedevo la tensione nella sua mascella: non ci parlavamo da mesi. Ero arrivata a casa senza preavviso, e lui non aveva idea del perché. Non voleva che dormissi. Voleva delle spiegazioni.

    Per fortuna non insistette. Lo seguii lungo il corridoio verso la mia camera. Sperai che fosse rimasta inalterata, ma c’erano ovunque segni di Gabrielle. Vicino alla finestra c’era un grosso cavalletto con sopra un bel dipinto astratto che non aveva terminato. La toeletta era disseminata di tubetti di tempera e pennelli. Potevo far finta di non vedere quelle cianfrusaglie artistiche, ma non potevo certo ignorare l’odore pungente di acquaragia che mi colpì non appena misi piede nella stanza. Aprii la tenda e la finestra, e agitai la mano come se potessi in qualche modo far entrare aria all’interno.

    «Scusa, Charli», bisbigliò Alex, raccogliendo tubetti di tempera dalla toeletta. «A Gabi piace dipingere qui dentro, dice che c’è una buona luce».

    Mi voltai e gli sorrisi; non volevo assolutamente fargli pensare che ce l’avessi con lui per quell’invasione della mia stanza: proprio non se lo meritava. «Non importa. Voglio solo dormire».

    Mi rivolse un sorriso poco convinto e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

    Distrutta com’ero, mi fu impossibile dormire. Non appena posai la testa sul cuscino, il silenzio fu squarciato dal rumore assordante della legna che veniva tagliata. Lo ignorai finché potei, prima di ammettere la sconfitta e alzarmi. Mi avventurai fuori ad affrontare il pazzo munito di accetta che si stava accanendo sulla legna.

    «Ma non avevi detto che eri stanca?», notò Alex, fermandosi solo per farmi quella domanda, prima di alzare l’accetta sopra alla testa e conficcarla in un tronco.

    Quando la lama si abbatté, feci una smorfia. «Come faccio a dormire con tutto questo casino?»

    «Taglio legna, Charli. Per non pensare alla mia figlia disgraziata». Posizionò un altro ciocco. «Se non tagliassi legna, impazzirei».

    «Sono a casa. Adesso puoi smettere di preoccuparti».

    «La pensi così, non è vero?», mi domandò. «Eppure tu sei qui, e io mi ritrovo comunque a spaccare la legna».

    Scesi giù dalla veranda. «Cosa vuoi che ti dica, Alex? Non so cosa preferisci sentirti dire».

    Lui crollò in avanti, appoggiandosi sul manico dell’accetta e asciugandosi il sudore dalla faccia con la maglia. «Perché non mi racconti la verità, una volta tanto? Sono mesi che non sento una parola da te. Quando parliamo, mi rassicuri che va tutto bene. Poi ti presenti qui all’improvviso, e se devo essere onesto, hai un’aria piuttosto malridotta ma continui a insistere che va tutto bene. Stai chiaramente mentendo. Non so proprio che farci».

    Non avevo idea da dove cominciare, così gli ripassai la palla. «Chiedimi qualsiasi cosa. Non mentirò».

    «Va bene», borbottò lui, lasciando l’accetta. «Cominciamo con il problema più grosso. Dov’è Adam? So che l’hai lasciato. Qualche giorno fa un corriere mi ha recapitato una pila di scatoloni indirizzati a te. Ero curioso, e ne ho aperto uno: era pieno della tua roba».

    Quella rivelazione fu come una staffilata nel cuore. La mia vita newyorchese era stata impacchettata e inviata a mio padre, nemmeno una settimana dopo la mia partenza. Ero sicura che Colin, il ragazzo delle consegne, fosse stato pagato bene per rimuovere ogni traccia di Charlotte Décarie.

    «Non ho rimpianti, Alex», replicai con un tono notevolmente sincero.

    «L’hai sposato, Charli. Quello dovrebbe essere un grande rimpianto. Che cosa è andato storto?».

    Facendo un grosso respiro, gli spiegai meglio che potei. Rivelare a mio padre che Alex non aveva mai avuto intenzione di lasciare New York fu un’ammissione terribile da fare. Fu come dare dei punti alla squadra avversaria.

    «Ed è davvero finita?»

    «Probabilmente no».

    «Ma insomma», grugnì lui, chinandosi a prendere l’accetta. «Dargli un’altra possibilità è come ricaricargli la pistola perché la prima volta non ti ha centrato».

    «Non capirai mai», dissi brusca. «Non hai mai capito».

    «Allora fammi capire, ma fallo in fretta perché ho quasi finito la legna».

    Guardai la catasta decisamente sguarnita. In tutta la mia vita, non l’avevo mai vista così scarsa. Aveva scelto un momentaccio per tenersi una scorta così piccola.

    «Non c’è niente da capire, Alex. Lo amo e basta».

    «E sei arrabbiata adesso?», mi chiese. «Lo vedi che ti ha trattato da schifo?»

    «Sì». Praticamente dissi quella parola piagnucolando.

    «Non comportarti in questo modo, Charli. Non ti ho cresciuto per diventare così».

    «Non sto facendo proprio niente, Alex», sbuffai. «E non sono più una ragazzina di diciassette anni».

    Alex fece oscillare nuovamente l’accetta, colpendo il pezzo di legno così forte che sembrò sussultare lui stesso. «Sei sempre la mia bambina, Charli».

    * * *

    Sconfitta, mi diressi di nuovo in camera, mi stesi a letto e sprofondai immediatamente in un sonno molto profondo, come non mi succedeva da settimane. Quando mi svegliai, erano le quattro passate. La parigina era a casa: sentivo la sua voce musicale provenire dal soggiorno.

    Mi alzai piano e sbirciai nella stanza. Gabrielle era appoggiata sull’orlo del divano. Alex era accucciato davanti a lei, con la fronte appoggiata alla sua: mormorava qualcosa che doveva calmarla, mentre lei piangeva.

    Chissà perché. Il mio ritorno a casa le aveva guastato così tanto la festa?

    Mi schiarii la gola. Quando arrivai al divano, Gabrielle si era ripresa. «Charli», cinguettò, balzando in piedi e spingendo da parte Alex.

    «Ciao Gabrielle».

    Mi gettò le braccia al collo. «Stai benissimo», mi disse, allontanandomi e tenendomi per le spalle mentre mi esaminava. Ovviamente mentiva. Tutti gli altri pensavano che fossi pallida e troppo magra.

    «Grazie», le risposi. «Anche tu».

    Nonostante la faccia rossa e gli occhi gonfi, era bella davvero. Volevo chiederle perché stesse piangendo, ma non ci riuscii. Non pensavo che riguardasse il mio ritorno improvviso. Non ero ancora stata in paese abbastanza a lungo da ridurla in lacrime.

    «Ti aspettavamo». Sedette sul divano bianco e mi tirò giù accanto a sé. «Voglio sentire tutte le tue novità».

    «Che cosa intendi quando dici che mi aspettavate?».

    Sembrò imbarazzata. «Per favore, non pensare che mi sia impicciata. È tutta la settimana che arrivano scatoloni con le tue cose, allora ho chiamato Adam. Ero preoccupata».

    Mi impensierii subito. «E lui come ti è sembrato?».

    La sua faccia perfetta si illuminò. «Tutto a posto», mi assicurò, dandomi un colpetto sulla mano. «È tremendamente triste, ma se la sta cavando».

    Il fatto che la mettesse in modo così definitivo mi irritò. Gettai un’occhiata ad Alex, notando la sua espressione rigida. Tornai a concentrarmi su Gabrielle. «Sono felice», dissi, soprattutto a beneficio di Alex. «Voglio che stia bene».

    * * *

    Il buonumore della parigina durò per tutto il resto della giornata. Qualsiasi cosa l’avesse intristita, era passata. Le tenni compagnia in cucina mentre organizzava una magnifica cena di benvenuto.

    Coq au vin era un piatto che avrebbe dovuto stendermi dopo la mia overdose di cioccolata, ma riuscii a mangiare tutto quello che avevo nel piatto. Era

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