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Un assassino alla mia porta
Un assassino alla mia porta
Un assassino alla mia porta
E-book363 pagine5 ore

Un assassino alla mia porta

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Info su questo ebook

Cosa faresti se dovessi salvare soltanto uno tra i tuoi figli?

Madeleine aveva una vita perfetta. Perdutamente innamorata di suo marito, con una bella casa e nessuna preoccupazione, aveva un’unica ragione di vita: Aidan e Annabelle, i suoi gemelli. La mattina del decimo compleanno dei bambini, però, tutto è cambiato. Un uomo armato con il viso coperto ha bussato alla sua porta e ha costretto Madeleine a compiere una scelta impossibile. Decidere quale dei suoi figli salvare, e vedere uccidere l’altro. Da allora Madeleine non ha più pronunciato una parola e ripercorre ossessivamente tutti gli eventi del giorno che ha condannato per sempre la sua famiglia. I ricordi le vorticano nella mente in flash confusi e difficili da interpretare, gli incubi la ossessionano giorno e notte, ma lei è determinata a rivivere all’infinito il suo tormento, pur di capire che cosa è davvero successo. Anche se significasse scoprire che l’incubo non è finito. Che la sua famiglia è ancora in grave pericolo.

Un esordio straordinario

Bestseller in Inghilterra

«Mettetelo subito nella lista dei libri da leggere.»
The Sun

«Una scrittura splendida, intensa ed estremamente lucida. Senza dubbio uno dei libri più interessanti dell’anno.»
Claire Douglas

«Da brividi.»
Saskia Sarginson
Samantha King
è editor e psicoterapeuta. Dopo aver trascorso l’infanzia nel sud dell’Inghilterra, si è stabilita a Londra dove si è dedicata per anni ai libri degli altri, prima di decidersi a diventare una scrittrice a tempo pieno. Vive con il marito e i due figli. Un assassino alla mia porta è il suo romanzo d’esordio, che ha ottenuto un enorme successo di critica e pubblico.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822726513
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    Anteprima del libro

    Un assassino alla mia porta - Samantha King

    2096

    Titolo originale: The Choice

    Copyright © 2017 by Samantha King

    First published in Great Britain in 2017 by Piatkus,

    an imprint of Little, Brown Book Group.

    Traduzione dall’inglese di Mariacristina Cesa

    Prima edizione ebook: novembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2651-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Samantha King

    Un assassino alla mia porta

    Indice

    Prologo

    Parte prima

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Parte seconda

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Parte terza

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Parte quarta

    Quaranta

    Quarantuno

    Quarantadue

    Quarantatré

    Quarantaquattro

    Quarantacinque

    Quarantasei

    Quarantasette

    Quarantotto

    Ringraziamenti

    A Paul, Hani e Rafi, siete il mio mondo

    Perché, in quel sonno di morte, quali sogni possono venire?

    William Shakespeare

    Amleto, atto

    III

    , scena

    I

    Prologo

    I riccioli di mia figlia sono oro rosso. Risplendono alla luce del mattino, sottili fili di seta che sfuggono danzando alla frenesia delle mie mani, e rimango paralizzata a guardarli, simili a una nuvola selvaggia in volo. Eppure non era tanto ai capelli che tendevo le dita quanto al corpo, scaraventato all’indietro in una scena al rallentatore che mi è rimasta impressa nel cervello, ma le mie braccia si agitano inutili e stringono al petto solo l’aria asciutta dell’estate quando, nel tentativo di non farla cadere, afferro invece svolazzanti boccoli di rame, quelli che ha voluto a tutti i costi sfoltire e allisciare per darsi un aspetto meno da bimba, più da grande.

    Non sembrerà grande mai più; non crescerà.

    Quel pensiero mi piomba nelle viscere, facendo eco al tonfo del suo corpo sul terreno. Crollo sul vialetto di cemento del giardino, ignorando il dolore lancinante alle ginocchia, e avanzo carponi, trascinandomi verso di lei sotto il cespuglio di rose. Con dita tremanti raspo nel terreno sassoso che mi lacera la pelle mentre mi allungo spasmodicamente in avanti, con un bruciante senso di nausea in gola e quel malsano odore di sangue su mani e polsi. Troppo sangue. Quasi mi slogo le spalle mentre allungo le braccia più che posso, infilando le mani nell’aureola di capelli di Annabel, arrotolando i riccioli morbidi intorno alle dita come per legarla a me. Appoggio la guancia sul terreno umido e vorrei essere morta anch’io.

    Ma il sollievo non arriva, anzi, la mente resta invischiata in una spirale di orrore e ricordi…

    Annabel è minuta per la sua età. Esile, con gambe sorprendentemente lunghe per una bambina di un metro e venti, braccia magre. «I miei stuzzicadenti», li definisce sempre lei. Il suo punto forte, però, sono i capelli: una sottile ragnatela, come zucchero filato, di indomabili riccioli ramati. Ho sempre pensato che la personalità di Annabel si fosse formata per corrispondere alla sua chioma: eterea e impossibile da osservare senza sorridere deliziati.

    Aidan li avrebbe uguali se Dom non mi avesse imposto di farglieli tagliare corti nove mesi fa. Mi era sembrato un crimine portarlo dal barbiere sulla via principale, il sabato precedente al loro primo giorno nella nuova scuola. Ricordo le sue lacrime nascoste a stento dietro l’enciclopedia e, subito dopo, le mie, quando Annabel mi ha salutata impaziente dal cancello, tirandosi dietro il fratello minore di due minuti sul rigoglioso prato che li separava dal grandioso edificio di mattoni rossi. Ho guardato tutte le belle giacche porpora intorno a noi e mi si è stretto il cuore per Aidan, che si toccava imbarazzato i capelli rasati.

    Dom aveva avuto ragione a lamentarsi: il barbiere aveva esagerato e avrei dovuto fermarlo, ma avevo esitato un attimo di troppo mentre insisteva nel dire che tutti i bambini li portavano così corti. Mi ero consolata dicendomi che perlomeno lo avrebbero aiutato a confondersi nella massa piuttosto che spiccare. I due bambini più poveri nella scuola da ricchi: non sopportavo l’idea che potessero essere presi in giro, né mi importava che le classi fossero ridotte e le strutture meravigliose. Dom, però, si era sbagliato sulla scuola: i gemelli erano molto più felici in quella statale, con gli amici di sempre, bambini che non si aspettavano iPhone e lezioni private di sci tra i regali di compleanno. Ma in quella particolare discussione avevo perso, come in tante altre nell’ultimo anno, soprattutto se si trattava dei gemelli.

    «Sono assolutamente identici, vero?», dicevano sempre con enfasi le altre tate in tenuta da palestra, prima di scappare alla lezione di pilates.

    «Be’, sì, solo che in realtà non lo sono». Dei miei figli, uno mi stava sempre attaccato, voleva tenermi il più possibile per mano, mentre l’altra mi evitava in continuazione, desiderosa di volare alto, librarsi verso la libertà.

    È per questo che hai scelto lui? Perché aveva bisogno di te – ti amava – più dell’altra?

    Tutti e due i miei figli hanno bisogno di me! Mi amano entrambi. E io li amo indistintamente.

    Il terreno granuloso si sgretola contro la mia guancia mentre quella discussione va avanti all’infinito nella mia testa, senza scopo alcuno. Annabel non avrà mai più bisogno di me e Aidan non lo ammetterebbe comunque. È la mia punizione per aver permesso a un assassino di entrare in casa mia, per aver fatto da scudo al mio bambino dolce, timido e molto prudente, e aver permesso invece alla mia bambina vivace, sempre sotto i riflettori e impavida nell’affrontare la vita, di correre incontro alla morte.

    «Vado io, mamma. Tu continua, stai facendo un ottimo lavoro». Quando hanno suonato al campanello, Aidan si è avviato lentamente alla porta, ma l’ho fermato con un gesto della mano.

    «Aspetta un minuto, amore. Sai che non mi piace che apri agli sconosciuti».

    «E chi lo dice che è uno sconosciuto?», ha ribattuto Annabel, alzandosi dal divano. «Potrebbe essere zio Max. Ha detto che aveva una supersorpresa per noi».

    «Ah». Ho alzato gli occhi al cielo. «Datemi solo un secondo».

    Ecco qua. Perfetta. Ignara della tragedia che incombeva dietro l’angolo, della spia malvagia che osservava la nostra tranquilla famiglia ordinaria, ho sorriso mentre sistemavo sulla glassa blu della loro enorme torta di compleanno a forma di piscina l’ultima candelina: dieci lilla per Annabel, dieci rosse per Aidan. Il meraviglioso pezzo forte, da mettere al centro della tavola, della festa in piscina di quel pomeriggio.

    «Arrivo!», ho gridato, leccando via dalle dita un po’ di glassa e correndo alla porta.

    Ma Annabel è arrivata per prima. «Scommetto che è il postino – guarda che ombra gigantesca dietro il vetro. Deve avere un pacco di regali mostruoso!».

    «Speriamo che uno sia la nuova Xbox», ha aggiunto mio figlio, ossessionato dai videogiochi, fermandosi a fianco della sorella.

    «Lo sai che papà non è un patito dei videogiochi», ho detto facendo del mio meglio per non sembrare brusca.

    «È perché vuole sempre vincere e odia quando gli sparano», ha risposto Aidan con fare saggio, con un’espressione esasperata così simile alla mia da farmi ridere di nuovo.

    Un attimo dopo, per quanto incredibile, è stato come essere catapultati proprio in uno dei suoi giochi sparatutto. Mia figlia, due passi avanti a me, ha aperto la porta e si è trovata davanti quell’ombra gigantesca in mimetica e passamontagna, ma senza regali, che ha oscurato la perfetta mattinata di sole e si è fatta ancora più grande quando ha afferrato entrambi i bambini e li ha trascinati sul retro della casa. La mano infilata in un guanto ha puntato una pistola contro i loro volti quasi identici e radiosi per il compleanno, e poi contro il mio, mentre li seguivo terrorizzata.

    «Scegline uno, troia».

    Ora è solo buio.

    Parte prima

    Uno

    Tre mesi dopo

    Devo portare mio figlio dal barbiere. I capelli gli cadono davanti agli occhi e vi guarda attraverso come un attore nervoso che scruta il pubblico da una fessura del sipario e non ha il coraggio di andare in scena. È solo da me che si nasconde, però. Quando entro nella stanza, si gira dall’altra parte, dandomi le spalle se tento di coccolarlo. Quasi mi formicolano i polpastrelli per la voglia di toccargli le guance morbide e vellutate, una sensazione quasi dimenticata, così mi stringo le braccia al corpo per lenire la sofferenza e riempire quell’opprimente vuoto dato dall’assenza di un bambino da abbracciare.

    Per trentasei settimane ho portato in grembo i gemelli, il battito di ognuno dei tre cuori a fare da eco agli altri due, prima dentro di me e poi sul mio petto mentre, fisicamente ed emotivamente, nutrivo quei corpicini pelle contro pelle. Una cosa sola, uniti da un nodo invisibile di bisogno e di amore reciproco che, in questi primi dieci anni di vita, non ha fatto che rafforzarsi. Ora, invece, è stato spezzato e ho perduto la mia bellissima bambina.

    Sentire la mancanza di Annabel in qualche modo tiene viva la sua presenza, e mi ci aggrappo disperatamente. L’ho già abbandonata in quegli orribili istanti, non la lascerò mai più andare da ora in poi. Ma il dolore della perdita paralizza me, mio marito Dom e mio figlio, che non sa più come stare al mondo senza la sorella gemella.

    Sprofondato in un angolo del divano, gli occhi fissi sul Nintendo

    DS

    che ha tra le mani, Aidan sembra quasi voler dissolversi nell’ambiente circostante. Indossa sempre gli stessi jeans e la stessa maglietta, quelli che gli ho comprato per la festa di compleanno, e mi chiedo come riesca a sopportarlo – come anche solo il tessuto a contatto con la pelle non gli faccia da doloroso promemoria. O forse è proprio questo il punto: mette gli stessi vestiti per ricordare alla mamma ciò che ha fatto. Funziona, e so di meritarlo, eppure… non me l’aspettavo.

    Non so bene cosa mi sarei aspettata, ma certo non questo… questo nulla di silenziosa recriminazione. Aidan non è mai stato un bambino crudele, anzi, è gentile e affettuoso. Mi ricordo di averlo tenuto stretto per ore quando investirono il nostro gatto Disco, di avergli accarezzato i capelli, il corpicino di tre anni scosso dai singulti tra le mie braccia, e poi di Annabel che, incuriosita, gli diede dei colpetti sulla mano e mi guardò incerta, piena di domande che non sapeva come porre. Alla fine le lacrime cessarono, lui l’abbracciò teneramente e a lei tornò il sorriso.

    Aidan fu l’unico tra noi a riuscire a far sorridere Annabel quando non fu scelta per il ruolo principale a un’audizione di danza o quando dovette saltare una gara di nuoto per via del raffreddore. L’adorava immensamente e ora, chiaramente, mi odia. No, odio è una parola troppo forte, troppo attiva. Semplicemente ai suoi occhi non esisto più, e lui per primo esiste a malapena. È sempre stato l’ombra di Annabel, ma ora è l’ombra di se stesso, alla deriva senza la sorella che gli si rannicchiava contro nel grembo materno, gli si stringeva addosso da bambina e gli si era aggrappata per tutta la sua troppo breve vita.

    I miei gemelli preziosi, straordinari.

    Sono sempre stati inseparabili e ora, ogni volta che guardo Aidan, vedo Annabel. Vorrei parlargli – lo desidero ardentemente – ma le parole non arrivano, e comunque so che non mi risponderebbe. Aidan, mi dispiace così tanto, amore mio. Le scuse, così inadeguate, mi riempiono la mente e vibrano in ogni nervo. A quanto pare in questi giorni non dico altro, anche se solo nella mia testa: le parole infatti non oltrepassano mai le labbra.

    Non mi serve un medico per sapere che lo shock postraumatico mi ha rubato la voce. Mutismo selettivo – il termine riaffiora verso di me dalle lezioni di Psicologia all’università, di anni e anni fa ormai. Questo spiega il mio silenzio, e ho capito che il trauma ha provocato un disordine ansioso che mi ha cancellato la memoria, oltre ad appetito, sensazioni fisiche, riserve di energia…

    Tutto questo lo so, ma non ho il potere di cambiarlo. Ogni giorno mi sento come se camminassi tra le nuvole; tutto è caliginoso, attutito. Tranne le emozioni che, al contrario, non sono mai state così vivide. Continuo a elencarle mentalmente sulla lavagna immaginaria che ho nella testa – qualsiasi cosa pur di mantenere una qualche presa sulla realtà, una percezione di me stessa. Mi sembra di essere già per metà svanita.

    La lavagna. Ce l’ho in testa quasi tutti i giorni ormai, con ogni genere di appunto, diagramma e commento annotato sulla superficie bianca e lucida. Il mio libro di testo personale. Gli occhi sono stanchi, miopi, ma non ho alcun problema a ricordare la mia vecchia lavagna dell’università, con tanto di Seamus Jackson, affascinante attore mancato diventato docente, in piedi lì davanti. Non mi stupisce, in effetti: quante ore ho trascorso a fissarli entrambi!

    Seamus Jackson. Non ci penso più da anni, ma la voce che ho ora nella testa ha la sua soave cadenza scozzese. Per la lezione immaginaria di oggi, la mia memoria ha ripescato l’immagine di Seamus-ragazzi-chiamatemi-Shay nella sua solita posa a gambe divaricate, che scarabocchia in modo teatrale il disegno di un cervello dopo un grave trauma – un blocco di neurotrasmettitori sparsi. Mani sui fianchi, Shay plasma da un’asciutta spiegazione il drammatico racconto di come, dopo un episodio grave, un’amigdala iperstimolata venga «bloccata in modalità combatti o scappa, ragazzi, spesso inibendo del tutto la capacità di parola del soggetto interessato». Pausa a effetto, poi riprende: «L’ansia eccessiva o il trauma possono intensificare la sensazione di pericolo dell’amigdala a un livello così elevato da renderla di fatto costante, come in un cortocircuito, e tale sensazione, diciamolo senza tanti giri di parole, causa a chi ne soffre un vero e proprio mutismo!».

    Sì, il mio silenzio lo capisco, ma non lo sopporto. Non sopporto di riuscire a ricordare lezioni che ho seguito quando ero praticamente appena uscita dall’adolescenza e di non poter invece rammentare cos’è accaduto nel mio giardino la mattina del decimo compleanno dei gemelli, un giorno che ha cambiato la nostra vita completamente e per sempre. Ricordo i penetranti occhi azzurri di Shay e invece i particolari esatti dell’omicidio di mia figlia – gli ultimi istanti della sua preziosa esistenza – sono un vuoto totale. Ecco il paradosso della mente umana; e tutti sono convinti che sia il cuore a essere complicato.

    Non mi ero mai resa conto di aver prestato così tanta attenzione a Shay. Abbiamo trascorso una sola settimana di follie insieme (frequentare una studentessa è il pulsante di autodistruzione per un docente), eppure ricordo ogni singola parola di ciò che mi ha insegnato. È solo adesso che torna, però: nel momento più infimo della mia vita. Ho perso la mia amata bambina – anzi, peggio, l’ho sacrificata – ed è per me incomprensibile.

    Scegline uno, troia.

    Perché qualcuno avrebbe dovuto costringermi a operare una simile scelta? Sembra quel vecchio film con Meryl Streep su cui la mia compagna di stanza e io versavamo fiumi di lacrime nelle piovose domeniche pomeriggio. La scelta di Sophie, ecco qual era. Ma questo non è un film: è la mia vita. Come hanno potuto fare una cosa simile a me… a mia figlia?

    Rabbia. Eccola di nuovo. Ho imparato che non devo resisterle. Al contrario, la annoto coscienziosamente sulla mia lavagna immaginaria permettendo alla saggezza di Shay di riaffiorare di nuovo: «La rabbia può coinvolgere spesso chi è in lutto, ragazzi. Non fate l’errore di credere che la perdita sia un’esperienza passiva».

    So per istinto che è un’autodifesa, che la mente sta oscurando tutto ciò che la polizia deve avermi detto su quell’uomo armato; si è chiusa per il trauma della perdita di Annabel, così, per quanto tenti di ricordare quel terribile giorno, quei momenti atroci, emergono soltanto ricordi confusi e frammentari. La verità, però, è che il mio cervello non si sta torturando sull’autore materiale, né sul perché mi sia stata rubata la voce insieme alla capacità di dormire, di pensare o persino di allontanarmi da casa. Quello che mi tiene bloccata nello shock non è la sua colpa, ma la mia.

    Per la milionesima volta cerco di dare un senso a tutto ciò. Significa che amo di più Aidan perché ho risparmiato lui? O che amavo di più Annabel perché ho scelto lei? Erano gemelli: ho sempre giurato di amarli allo stesso modo, di non fare preferenze. Quindi che ragionamento ho fatto? Ho sacrificato Annabel per amore del fratello? O invece l’ho salvata dal tormento di un’oscurità in cui noi tre sopravvissuti vaghiamo alla deriva come ombre, in punta di piedi intorno al gigantesco vuoto della nostra vita, ancora insieme ma non più una famiglia?

    Le risposte non arrivano: la mia mente è un libro chiuso.

    Dom è diventato un ghiacciaio di calma impassibile e so di aver lasciato a lui il compito di parlare con poliziotti, avvocati, giornalisti, vicini… Non mi ha mai accusata di nulla né ha mai detto a Aidan – almeno non l’ho mai sentito – che è tutta colpa mia. So che non mi metterà contro mio figlio; non lo costringerà a scegliere tra i suoi genitori, come io sono stata costretta a fare tra i miei bambini. Ci siamo scontrati animatamente sulla scelta della scuola, ma sono discussioni ormai dimenticate da tempo.

    La vita, semplicemente, va avanti, sempre uguale eppure profondamente diversa. Viviamo nella stessa confortevole casa, sulla stessa strada tranquilla della cittadina di Hampton; alti e bassi della solita routine domestica: scuola, attività pomeridiane, compiti, pomeriggi con Jasper, l’amico di Aidan. Ma non esco più di casa. Trascorro il tempo a guardare mio figlio e mio marito, spostandomi furtiva da una stanza all’altra, incapace di fermarmi. Il loro sguardo mi attraversa, fingono di essere impegnati semplicemente andando avanti con il quotidiano, mentre io fluttuo come un fantasma ai margini della loro esistenza. Non posso parlare, dormo a malapena e non riesco a guardare avanti; a quanto pare, non faccio altro che voltarmi indietro e chiedermi: come sono arrivata a questo punto? Perché succedono queste cose terribili?

    Dom non alza gli occhi dal portatile e quelli di Aidan sono ancora incollati al

    DS

    . Ignorano la mia presenza. Quindi mi volto verso Dom, lo osservo, l’uomo che ho tanto amato e che ora non riesce più a guardarmi. Il suo viso è scuro e segnato dalle rughe. Ma non era più grosso? Ha perso peso? Queste ultime settimane, anzi, questi ultimi mesi gli hanno presentato il conto, come hanno fatto con me, lo so. Ha il viso più affilato e sembra disperatamente stanco, gli occhi azzurri offuscati.

    E poi noto altre piccole rughe, quelle agli angoli degli occhi, e mi riportano indietro, fino al momento in cui ci siamo conosciuti.

    Due

    «Hai degli occhi così grandi che se lo fossero appena un po’ di più ti cadrebbero per terra».

    «Scusa?». Arrossii nel vedere quell’uomo alto e di bell’aspetto appoggiato allo scaffale

    A-C

    della sezione Serial killer, con gli occhi azzurri piantati su di me. Già da un po’ avevo avuto l’impressione che mi osservasse.

    «Negli ultimi tre minuti non hai mai battuto le palpebre. Stai cercando di superare qualche record? O forse sei solo un meraviglioso fenomeno da baraccone. A proposito, mi chiamo Dom. Dominic Castle. E tu sei…?»

    «Profondamente offesa. Fenomeno da baraccone? Grazie tante, eh». Feci il gesto di guardare l’orologio anche se ce n’era uno proprio sulla parete di fronte. «La biblioteca sta per chiudere. Sarà meglio che vada».

    «Senza neanche avermi detto come ti chiami? Come faccio a spargere la voce di questo tuo straordinario talento se non so chi sei? E ho detto meraviglioso, nel caso non l’avessi notato. Quindi non scappare. Non mordo. A meno che non me lo chieda tu».

    Avanzò a grandi passi verso il tavolo su cui ero accampata ormai da due ore, fissando i testi di Psicologia ma, in realtà, spiando Shay. Poi scostò una sedia e mi sedette accanto sorridendo, le braccia incrociate dietro la nuca. La sua maglietta nera tirava sul petto ampio e percepii la peluria dietro al collo rizzarsi.

    «Prego?», dissi, anche se avevo sentito perfettamente.

    «Ho detto piacere di conoscerti, Madeleine Hartley». E allungò una mano enorme verso di me.

    Una sferzata di calore mi invase tutto il corpo, già accaldato dalla serata estiva. Tutta Londra soffocava, oppressa dall’ondata di afa di fine agosto, e cominciavo a bramare i giorni freschi e frizzanti dell’autunno che sicuramente ci attendevano. Volevo lasciare i sandaletti ingioiellati per i morbidi stivali di camoscio, le magliettine di pizzo per i comodi cardigan; desideravo la fine dell’estate e dei miei giorni all’università.

    «Come hai fatto…? Ah».

    Rinunciò alla stretta di mano che aveva offerto, e che io avevo ignorato, e tirò su il mio quadernone di Psicologia infantile, passando lentamente il pollice sulla targhetta con il nome. Aveva dita snelle e abbronzate; mi chiesi che sensazione dessero sulla pelle.

    «Sei Madeleine, Maddie o, ehm, solo Mad?», riprese, sorridendo di nuovo e ruotando su se stesso in modo tale da racchiudere le mie gambe tra le sue divaricate, intrappolandomi.

    «Dipende».

    Distratta da un movimento improvviso colto con la coda dell’occhio, guardai in direzione di Shay. Non mi parlava da tre giorni interi ormai, e le lezioni di recupero per sostenere di nuovo l’esame iniziavano quel lunedì. Sarei stata terribilmente a disagio a sedere in quella piccola aula solo con lui e gli altri due studenti che, come me, dovevano ridare l’esame conclusivo. Per la centesima volta, desiderai aver passato meno tempo a sognare a occhi aperti sul mio professore e di più a studiare, così mi sarei laureata e avrei potuto cominciare il corso per l’abilitazione all’insegnamento e…

    «Dipende da?», si informò Dom, allungando le dita calde e ruvide per prendermi il mento con delicatezza e farmi girare la testa verso di lui.

    Chiusi volutamente gli occhi, resistendo al suo comando di guardarlo, ma l’immagine delle sopracciglia scure e degli zigomi scolpiti mi era rimasta impressa dietro le palpebre. Era fin troppo presuntuoso e probabilmente rideva sotto i baffi della mia goffa timidezza. Accidenti. Facendo uno sforzo enorme, mi costrinsi ad alzare le palpebre. Non gli avrei fatto capire che quella vicinanza mi turbava.

    «Be’, mia madre mi chiamava Madeleine. Perlopiù quando mi sgridava. La mia coinquilina mi chiama Mads. Altrimenti resto sul vecchio, banale Maddie».

    «Non c’è niente di banale in te, Maddie».

    «Non ero a caccia di complimenti». Spavalda, lo guardai negli occhi, nonostante percepissi il mio rossore.

    «E lui, invece, come ti chiama? Il tuo uomo, lì». Rivolse un improvviso cenno del capo a Shay.

    «Non è il mio uomo. È il mio professore di Psicologia, se proprio vuoi saperlo. Ma non sono affari tuoi».

    «Ah, capisco». La sua voce profonda si fece più dolce e, con quelle mani enormi, strinse le mie con inaspettata gentilezza.

    «Cosa capisci?»

    «Oh, niente di particolare. Solo che ci rimette lui. E ci guadagno sicuramente io».

    Quando sorrise, rughe minuscole e sexy si incresparono intorno ai suoi occhi azzurri. Per qualche motivo, mi infastidì; non volevo farmi affascinare da quell’omone così sicuro di sé che aveva invaso il mio spazio senza essere stato invitato. Tirai via la mano.

    «Non sono la perdita di nessuno. Né il guadagno. Non sono un oggetto da passare di mano. In caso non lo avessi notato, questa è una biblioteca universitaria. Sai, ci si prendono in prestito i libri, non, ehm, le ragazze».

    Ero stata acida, ma più che altro perché mi irritava aver trovato perversamente eccitante quell’accenno di possessività. Avevo visto mio padre dettare legge su mia madre per buona parte del matrimonio e, dopo la sua morte, lei aveva annaspato disperata senza un marito che la definisse. Gli uomini autoritari e dominanti non avevano alcuna attrattiva su di me, e avevo inquadrato Dom esattamente come qualcuno che vuole essere al comando. Non ero sicura del perché la sua arroganza mi provocasse le farfalle nello stomaco; mi faceva sentire insolitamente permalosa.

    «Neanche un prestito a breve termine? Peccato. Allora sarà meglio andare a dare un’occhiata a qualche altro manuale. Niente di così affascinante o carino come te, però». Inclinò la testa sollevando un sopracciglio.

    «Sarà meglio. Dato che è chiaro che sei qui per studiare». Guardai eloquentemente il tavolo vuoto davanti a lui, tornando poi ai miei libri.

    «Hai dei capelli magnifici, a proposito». Ne sollevò una ciocca per accarezzarla.

    Mi ritrassi bruscamente. «Nessuno ti ha mai insegnato che, per educazione, si chiede prima di toccare?»

    «Sei una rossa naturale?», disse ignorando completamente il mio risentimento.

    «Biondo fragola, in realtà. E comunque sto pensando di tagliarli». Mi attorcigliai una ciocca al dito, ripetendomi che non stavo al gioco, stavo solo cercando di essere amichevole. Educata. Niente di più.

    «Non lo fare. Ti stanno bene lunghi».

    «Non ti sto chiedendo il permesso», risposi sdegnosa. «Si dà il caso che vada spesso a correre e che mi diano fastidio. E sono troppo crespi. Mi fanno sudare. Tutto qui».

    «Ti tieni in forma. Si vede. Il che significa che abbiamo molte più cose in comune del locale dove passiamo il venerdì sera».

    Le guance mi si fecero di fuoco mentre i suoi occhi vagavano spudoratamente sulla mia gonna in stile gitano bianca e la blusa turchese senza maniche. Avrei desiderato incrociare le braccia per coprirne il pallore: non sembravano mai volersi abbronzare, a prescindere da quante ore la mia amica Gabrielle e io trascorressimo piazzate sul balconcino al primo piano della casa in affitto a Kew, sistemate ad arte in modo da prendere il sole fino all’ultimo raggio, agognando che la nostra pelle bianca diventasse di un bruno dorato. Le sue gambe lunghe e slanciate avevano perlomeno raggiunto una sbiadita tonalità caffellatte, ma io, dopo aver trascorso quasi tutte le mie pause estive così, fingendo di ripassare, ci avevo guadagnato solo un naso pieno di lentiggini e ginocchia rosse e doloranti. Quantomeno la corsa mi teneva accettabilmente snella, pensai, tirando giù quasi inconsciamente l’orlo della gonna nel notare Dom che mi guardava le gambe.

    «Non hai niente di utile da fare? Che ne so, un po’ di addominali mentre ti osservi la tartaruga allo specchio…», dissi sbuffando e alzando gli occhi al cielo.

    «Be’, dovrei terminare la tesi sui risvolti economici della globalizzazione. Immagino di poter fare quello». Si appoggiò allo schienale, godendosi la mia reazione.

    «Ah».

    «Fammi indovinare. Pensavi che fossi un insegnante tirocinante di Educazione fisica, giusto?»

    «No, solo che pensavo che… mi aspettavo…». Rovistai nel cervello in cerca di scuse, ma si era svuotato.

    «Al momento sto studiando per il master in Gestione d’azienda a corredo della laurea. Prima regola per quando esci con Dominic Castle? Aspettarsi l’inaspettato».

    Non riuscivo a credere che l’avesse detto: avrei dovuto scoppiargli a ridere in faccia. Ma non lo

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